Colera 1835
Una ricorrente pandemia dell’epoca risorgimentale nella preghiera e nella poesia di un celebre patriota italiano: Silvio Pellico

L’emergenza sanitaria che si credeva erroneamente esorcizzata da almeno un secolo e che, al contrario, ha dimostrato di poter colpire il mondo anche negli anni Duemila, è stata un fenomeno ripetitivo nella storia di vari millenni, sia pure con variazioni sul tema indotte dalla crescita demografica, dall’avanzamento scientifico e dai diversi livelli di mobilità. Ad esempio, nel corso dell’Ottocento, quando il massimo flagello della peste era stato sostanzialmente debellato, il virus del colera si diffuse in molti Paesi, compresi quelli europei, con una ricorrenza endemica che avrebbe comportato ampie e dolorose ricadute per tutto il secolo.

L’Italia non fece eccezione e le vittime furono numerose quasi dovunque a cominciare dal Piemonte, nonostante il suo grado relativamente avanzato di sviluppo civile. Tra le ricorrenze più note, anche per il maggiore tributo di vite umane, si ricordano quelle del 1835 e del 1854, quando i colpiti dal virus furono parecchie migliaia, nella maggior parte dei casi con esito letale; e quando si sarebbe distinto il grande volontariato di Don Giovanni Bosco e dei suoi ragazzi che si prodigarono nell’assistenza [1].

Tra le voci autorevoli che si fecero udire in quella drammatica congiuntura una delle più significative fu quella di Silvio Pellico[2], il grande patriota che aveva sfidato l’assolutismo asburgico ed era assurto a fama nazionale con la sua opera più conosciuta, dedicata alle prigioni austriache, dove aveva languito per un intero decennio assieme a tanti infelici confratelli. In particolare, durante il colera del 1835 il Pellico, che fu anche versatile poeta, volle affidare alle rime il suo appello di cattolico osservante per domandare la grazia, ma nello stesso tempo per fare professione di fede.

Il patriota piemontese muoveva da una concezione quasi fatalistica che non è azzardato definire leopardiana: «Orrenda è storia, e sarà sempre orrenda / questa milizia della vita umana». Nondimeno, aggiungeva – in un immediato slancio fideistico – che «siam colpiti ma non maledetti: / man paterna è la man del Signore»; e concludeva affermando che «negli estremi perigli / si rinforzano gli spiriti più degni»[3]. Versi stilisticamente non straordinari, ma improntati a un’idea davvero coinvolgente della vita intesa come prova, che Pellico aveva affrontato nel duro decennio di carcerazione, e in cui aveva trionfato abbandonando le vecchie suggestioni laiche per abbracciare senza riserve la fede in Dio e in quelli che oggi sarebbero definiti «valori non negoziabili».

Per il Pellico, anche la pandemia sopravviene per volontà del Signore e costituisce tempo di riflessione e di pentimento: tutto sommato, in analogia alla sua stessa esperienza della prigionia, sublimata nell’accettazione della prova, anche nelle pagine più drammatiche della sua maggiore opera, come quelle in cui descrive con pietoso realismo l’amputazione di una gamba (senza anestesia) di cui fu vittima il compatriota Pietro Maroncelli, assistito con affettuosa sollecitudine dallo stesso Pellico e dalla nobile figura del carceriere Schiller, come nella memorabile scena dell’offerta di una rosa al patriota sofferente.

Alieno da una piena adesione al cattolicesimo liberale che avrebbe assunto motivazioni di crescente attualità a far tempo dagli anni Trenta, fino al sogno coltivato da tanti patrioti con l’ascesa di Pio IX al soglio pontificio ma rapidamente catafratto dagli eventi, quello del Pellico resta un fideismo conforme alle prime tradizioni familiari, con particolare riguardo a quelle materne, ma nello stesso tempo più vicine al sentimento della gente comune e alle sue attenzioni per l’anima popolare, sia pure interpretate alla luce di aperture in chiave moderata, come era stata quella del «Conciliatore». In questa ottica debbono essere letti anche i suoi versi di quasi vent’anni dopo[4], ispirati dall’epidemia di colera del 1835 con sincera partecipazione al dramma collettivo, ma nello stesso tempo con un pizzico di rassegnazione cristiana cui non erano estranee le riflessioni del decennio di prigionia.

Oggi la lettura di quei versi, oltre ad acquisire motivi di evidente interesse attuale, rischia di essere ristretta a una semplice impressione compassionevole, tanto più che risulta inquadrata nel contesto storico di un’epidemia che mieteva gran parte delle vittime nei lazzaretti (quattro nella sola Torino) e meno all’ospedale riservato ai ricchi, se non altro perché la classe superiore era molto ristretta. D’altro canto la poesia del Pellico, al pari delle opere maggiori, costituisce lo specchio di un’epoca in cui le prime Speranze della nuova Italia – per dirla con Cesare Balbo – cominciavano a conquistare cuori e menti dei patrioti e a proporre all’attenzione comune il disegno di un Primato – per dirla con Vincenzo Gioberti – fondato sulla fede, e quindi piuttosto suggestivo, ma destinato a rimanere una nobile utopia.


Note

1 Furono oltre un migliaio gli allievi del Santo che prestarono la propria opera nell’assistenza agli infermi. Ebbene, fra i tanti miracoli di Don Bosco si deve annoverare quello per cui nessuno di quei ragazzi fu colpito dal virus, nonostante la diffusione del contagio a macchia d’olio e l’alto numero delle vittime anche a Torino.

2 Silvio Pellico (1789-1854) nacque da padre piemontese e madre savoiarda, ebbe due fratelli e due sorelle, tre dei quali presero i voti religiosi, e venne indirizzato a studi ed esperienze commerciali ma senza una vocazione in tal senso. Invece, avrebbe manifestato sin dalla giovinezza interessi letterari e politici, in particolare sintonia con Ugo Foscolo e Vittorio Alfieri. Fu insegnante di francese nel periodo di permanenza milanese iniziato nel 1809, durante il quale si diede alla composizione di tragedie, tra cui la celebre Francesca da Rimini del 1815. Un anno dopo entrò in casa del conte Porro Lambertenghi quale istitutore dei figli; ammiratore di Madame de Stael e di Friedrich von Schlegel, ebbe relazioni con Federico Confalonieri, Gian Domenico Romagnosi e Giovanni Berchet, e nel 1818 assunse la direzione del «Conciliatore» quale organo del primo patriottismo risorgimentale, uscito in 118 numeri prima della soppressione a opera della polizia austriaca, con successivo arresto assieme a Pietro Maroncelli e Melchiorre Gioia (1820) che coincise con la fine forzata di un breve rapporto affettivo con Teresa Marchionni. Venne imprigionato subito a Venezia, nelle more del processo conclusosi nel 1822 con la condanna a morte commutata in quella del carcere duro (venti anni per Maroncelli e quindici per lo stesso Pellico). Tradotto nel lugubre carcere dello Spielberg, nell’attuale Repubblica Ceca, vi rimase fino al 1830 quando venne liberato al termine di una dolorosa esperienza durante la quale ebbe luogo il suo definitivo ritorno alla fede. Rientrato in Italia, scrisse Le mie prigioni (1832) che gli avrebbe dato fama imperitura e che secondo un giudizio contemporaneo avrebbe danneggiato l’Austria più di una guerra perduta. Due anni dopo, in un quadro etico a carattere fortemente prescrittivo, diede alle stampe un’altra opera molto popolare all’epoca: I doveri degli uomini. Fu anche poeta prolifico, come accadde – fra l’altro – in occasione dell’epidemia di colera che sopravvenne nel 1835, dopo essere stato assunto dai Marchesi di Barolo in persona di Carlo Tancredi Falletti a cui era stato presentato da Cesare Balbo, e con i cui eredi sarebbe rimasto a lungo, anche dopo la concessione di un pensionamento per 600 lire annue riconosciutogli nel 1838 da Carlo Alberto. Ormai cinquantottenne, nel 1847 avrebbe ritrovato l’affetto di Cristina Trivulzio che in gioventù aveva amato infelicemente, e nel 1851, a suggello di un lungo percorso di fede, divenne terziario francescano.

3 Confronta Silvio Pellico, Opere complete, Francesco Rossi Editore, Trinità Maggiore 37, Napoli 1848, 543 pagine (con cenni biografici a cura di Pietro Maroncelli e con le Addizioni alle Mie Prigioni dello stesso Maroncelli). Oggi, il volume è consultabile integralmente in Internet.

4 Le liriche dedicate dal Pellico all’epidemia di colera comprendono anche le poesie di invocazione alla Santa Vergine per l’affrancamento da quella tragedia collettiva, e di ringraziamento per la cessazione del flagello. Considerazioni analoghe, sia per gli aspetti stilistici che per i contenuti morali, valgono per parecchie altre sue composizioni poetiche come quelle dedicate a Dio, a San Carlo Borromeo, alla Patria, a Ugo Foscolo, a Teresa Confalonieri, e via dicendo.

(giugno 2020)

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