Cesare Trabucco di Castagnetto
Torino 1802-Moncalieri 1888

Segretario di Carlo Alberto, Deputato nel Parlamento Subalpino e poi nella prima Camera del Regno d’Italia,fedele alla Monarchia Sabauda ma Cattolico di forte e convinta osservanza, Gran Croce dell’Ordine di San Gregorio Magno, il conte Cesare Trabucco fu esponente di spicco di quel raro Cattolicesimo propenso al dialogo, e mai radicale nelle scelte di fondo, che seppe anticipare di parecchi decenni il progressivo avvicinamento al Vaticano da cui ebbero origine il Patto Gentiloni del 1913, e pochi anni dopo, la prima condivisione di responsabilità governative da parte del Partito Cattolico nel Ministero di Solidarietà Nazionale presieduto da Paolo Boselli.

Non a caso, Trabucco si era schierato contro la spedizione militare che nel settembre 1870 avrebbe chiuso la «questione romana», manifestando singolari doti di giudizio indipendente, e per diversi aspetti di coraggio, in una temperie storica caratterizzata dai massimi livelli di un anticlericalismo sostanzialmente viscerale. Nella stessa ottica, era stato assai contrario alla Legge delle Guarentigie, essendo convinto che il potere temporale avrebbe consentito di conservare, parafrasando il pensiero di Cavour, la libertà della Chiesa nel confronto, o meglio, nel dialogo con il nuovo Stato Liberale.

Il conte Trabucco era davvero un Cattolico di provata fede ma nello stesso tempo di esemplare moderazione. Autore di acute esegesi evangeliche, amava ispirarsi alla parabola della povera vedova che aveva donato due spiccioli di carità privandosi del necessario e costituendo un vero esempio di amore per il prossimo, con una scelta etica inconfrontabile con quella di una morale farisaica molto diffusa anche nella sua epoca. Del resto, un’altra citazione che gli era familiare scaturiva dal passo evangelico in cui il Signore affermava, a proposito del Tempio di Gerusalemme, che non ne sarebbe rimasta pietra su pietra, cosa puntualmente accaduta dopo pochi decenni con l’Imperatore Tito.

È facile comprendere come la posizione di Trabucco fosse sgradita alla destra liberale, alla sinistra positivista e alla stessa opposizione cattolica che soprattutto nel trentennio conclusivo dell’Ottocento, e in particolare durante il Pontificato di Pio IX «prigioniero» in Vaticano, avrebbe manifestato posizioni di assoluta intransigenza largamente maggioritarie, confermate dal ritiro dell’aristocrazia nei propri palazzi romani. Anche per questo, Trabucco visse un’esperienza politica di sostanziale isolamento e di relativo rilievo pubblico.

A oltre 130 anni dalla sua scomparsa, è giusto chiedersi quale traccia sia rimasta del pensiero e dell’azione, non soltanto politica, di questo singolare aristocratico. A ben vedere, nei lunghi anni del potere cattolico in Italia, che si possono ragionevolmente collocare dalle elezioni generali del 18 aprile 1948 quando la Democrazia Cristiana ebbe la maggioranza assoluta dei voti non disgiunta dall’intelligenza di condividere il governo del Paese con le forze di democrazia laica, fino alla stagione di «mani pulite» nello scorcio conclusivo del Novecento, l’esempio di Trabucco venne implicitamente accolto nella prassi, anche se furono largamente più diffusi e popolari i riferimenti a protagonisti quali Don Romolo Murri, Luigi Sturzo, e lo stesso Pontefice Leone XIII, autore dell’enciclica Rerum Novarum.

D’altra parte, anche nell’Ottocento erano già passati diversi secoli dalla rivoluzione machiavelliana che aveva escluso ogni subordinazione della sfera politica a quella etica «tamquam a subalternante» sebbene i lunghi decenni della restaurazione avessero alimentato l’illusione di poter conservare l’unione del trono e dell’altare come nell’antico regime, ignorando il nuovo principio di nazionalità unitamente alle lotte dei patrioti per l’affermazione delle moderne garanzie costituzionali, e dando vita a un intimo dissidio che sarebbe diventato evidente in coscienze sensibili come quella di Cesare Trabucco, paladino della nuova Italia, ma nell’ambito di una fedele aderenza alla morale cattolica.

Sarebbe stato necessario che passassero ancora parecchi decenni prima che l’avvicinamento tra le due sponde del Tevere diventasse un fatto compiuto grazie alla conciliazione del 1929, e prima che la crisi politica del movimento cattolico italiano aprisse una nuova stagione di alternativa laica, lontana dal lungimirante equilibrio di Cavour e sorretta da un nuovo oltranzismo libertario come quello del Sessantotto. In questa vicenda di corsi e ricorsi non sembra azzardato cogliere un significativo spunto di Giambattista Vico e del suo sofferto realismo, ma nello stesso tempo un richiamo alla necessità di «contemperare» attese ugualmente nobili come quelle del patriottismo risorgimentale e dello spiritualismo cattolico.

(giugno 2019)

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