Il Canto degli Italiani
Più noto come «Inno di Mameli», è divenuto l’inno ufficiale della Repubblica Italiana. Ma la sua storia inizia molto prima

È una sera d’autunno del 1847, a Torino. Alcuni amici, raccolti in casa di Lorenzo Valerio, buon patriota e bravo scrittore, passano il tempo facendo musica e politica insieme: leggono al pianoforte parecchi inni sbocciati in ogni parte d’Italia, da Del nuovo anno già l’alba primiera del Meucci a Coll’azzurra coccarda sul petto del Piemontese Bertoldi.

D’improvviso – racconta Carlo Alberto Barrili, egli pure presente a quella riunione – entra nel salotto un nuovo ospite, il pittore Ulisse Borzino, giunto da Genova. Si volge a Michele Novaro, cava di tasca un foglietto e glielo porge: «To’» gli dice semplicemente, «te lo manda Goffredo» (Goffredo Mameli, suo grande amico, che morirà il 6 luglio 1849, a soli ventidue anni, difendendo Roma dai Francesi). Il Novaro apre il foglietto, lo legge, si commuove. Gli chiedono tutti che cos’è, gli fan ressa d’attorno. «Una cosa stupenda!» esclama il Maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio.

«Io sentii» ricorderà il Novaro molti anni dopo, «io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo.

Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’un sull’altra, ma lungi le mille miglia dall’idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po’ in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c’era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte.

Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia».

L’inno, noto come Il Canto degli Italiani, debuttò il 10 dicembre di quello stesso anno, quando sul piazzale del Santuario di Nostra Signora di Loreto a Oregina fu presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani lì riuniti.

Dopo pochi giorni, tutti conoscevano l’inno, che veniva cantato senza sosta in ogni manifestazione, sebbene con una musica del tutto diversa da quella oggi conosciuta. Durante le Cinque Giornate di Milano, gli insorti lo intonavano a squarciagola: Il Canto degli Italiani era già diventato un simbolo del Risorgimento, anche per il suo richiamo a numerosi episodi della storia d’Italia, elevati a momenti emblematici della sua lotta per l’unificazione.

Il documento sonoro più antico conosciuto dell’inno (disco a 78 giri per grammofono, 17 centimetri di diametro) è datato 1901 e venne inciso dalla Banda Municipale del Comune di Milano sotto la direzione del Maestro Pio Nevi.

Esso è stato adottato ufficialmente come inno nazionale della Repubblica Italiana il 17 novembre 2005. Nelle occasioni ufficiali viene cantata la sola prima strofa e il ritornello, ripetuto con melodia differente, che termina con un «sì» deciso. È composto da una musica tutt’altro che disprezzabile, ed è l’unico inno al mondo che presenta il dialogo tra la richiesta di un solista (le strofe) e la risposta del popolo (il ritornello): mentre all’inizio il popolo è ancora timoroso, titubante, nella ripresa del ritornello è deciso, pronto al sacrificio.

Presentiamo qui di seguito il testo integrale dell’inno, che poi spiegheremo in modo dettagliato:

«Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!


Noi fummo da secoli
calpesti e derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!


Uniamoci, amiamoci,
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!


Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core, ha la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!


Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’Aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
il sangue Polacco
bevé col Cosacco,
ma il sen le bruciò.

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò!


Evviva l’Italia,
dal sonno s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.

Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò, sì!».

Il primo verso dell’inno, com’era stato scritto da Mameli, è: «Evviva l’Italia»; fu cambiato dal Novaro con l’invocazione: «fratelli», per renderlo più forte.

La cultura di Mameli è classica, e forte il suo richiamo alla romanità: l’Italia ha in testa l’«elmo di Scipio», cioè di Scipione l’Africano, il generale romano che nel 202 avanti Cristo sconfisse a Zama, nell’attuale Algeria, il Cartaginese Annibale. Scipione l’Africano è portato ad esempio per la capacità della Roma repubblicana di riprendersi dalla sconfitta e combattere valorosamente e vittoriosamente contro il nemico: così, l’Italia è tornata a combattere.

La dea Vittoria dovrà porgere la sua chioma perché sia tagliata, in quanto la Vittoria è schiava di Roma (cioè dell’Italia) sempre vittoriosa: nell’antica Roma, alle schiave venivano tagliati i capelli per distinguerle dalle donne libere, che portavano invece i capelli lunghi.

Anche il richiamo alle coorti rimanda al mondo romano: l’esercito romano era formato dalle legioni, ognuna delle quali era divisa in molte coorti. «Stringiamci a coorte» significa quindi: «restiamo uniti fra noi combattenti, che siamo pronti a morire per il nostro ideale». Questo riferimento militare molto forte, rafforzato dal richiamo alla gloria e alla potenza militare dell’antica Roma, ancora una volta chiama tutti gli uomini alle armi contro l’oppressore.

La strofa successiva ricorda la situazione degli Italiani all’epoca di Mameli, calpestati («calpesti») e derisi per essere ancora divisi in sette Stati, anziché uniti; quindi, ci raccolga («raccolgaci») una bandiera e una speranza («speme») comuni per l’Italia. È giunta l’ora di «fonderci insieme», cioè di raggiungere l’unità nazionale.

La terza strofa è un accorato invito all’unità. Interessante quel «per Dio», che dà adito ad una doppia interpretazione possibile. «Per Dio» è un francesismo e significa «da Dio», «attraverso Dio»: se siamo uniti da Dio, per volere di Dio, nessuno potrà mai vincerci; Dio è sempre dalla parte dei popoli oppressi. Certo è però che in italiano «per Dio» può essere anche un’esclamazione piuttosto forte, un’imprecazione: Mameli potrebbe aver volontariamente voluto giocare sul doppio senso.

La quarta strofa è un piccolo capolavoro: in soli quaranta secondi si ripercorrono secoli e secoli di storia. Si ricorda innanzitutto la battaglia presso Legnano, dove il 29 maggio 1176 i Comuni riuniti nella Lega Lombarda sconfissero l’Imperatore Tedesco Federico Barbarossa. Qui l’evento assurge a simbolo della lotta contro l’oppressione straniera: «dovunque è Legnano» significa che ogni città italiana è come Legnano.

Poi abbiamo il ricordo di «Ferruccio»: ogni singolo Italiano è come il capitano Francesco Ferrucci, l’uomo che nel 1530 difese la Repubblica di Firenze, assediata dall’esercito imperiale di Carlo V. Il 2 agosto, dieci giorni prima della capitolazione della città, egli sconfisse le truppe nemiche a Gavignana; ferito e catturato, venne vigliaccamente finito con una pugnalata da Fabrizio Maramaldo, un capitano di ventura al soldo del nemico. «Vile, tu uccidi un uomo morto» furono le celebri parole d’infamia che l’eroe rivolse al suo assassino. In seguito, il nome «maramaldo» fu associato a termini quali «vile», «traditore», «fellone».

I bambini d’Italia sono come «Balilla»; Balilla era il soprannome di Giovan Battista Perasso, il bambino che con il lancio di una pietra contro un ufficiale, nel 1746 diede inizio alla rivolta di Genova contro gli Austriaci. Dopo cinque giorni di lotta, il 10 dicembre la città fu finalmente libera dalle truppe austriache che l’avevano occupata e vessata per diversi mesi.

«I Vespri» alludono a quella che venne chiamata la «rivolta dei Vespri siciliani»: la sera del 30 marzo 1282, Lunedì di Pasqua, all’ora del Vespro i Siciliani si ribellarono ai Francesi invasori di Carlo d’Angiò. «Ogni squilla» significa «ogni campana»: tutte le campane chiamarono il popolo di Palermo all’insurrezione, estesasi da lì a tutta la Sicilia.

Passiamo alla quinta strofa, incentrata sulla prossima fine dell’Austria. «Le spade vendute» sono i soldati mercenari di cui si dice anacronisticamente che l’Austria faccia uso, non certo valorosi come gli eroi patriottici ma deboli come giunchi (i versi vanno interpretati: «le spade vendute son come giunchi che si piegano»); e la nera aquila biteste, simbolo dell’Austria, perde le penne.

La citazione del «sangue Polacco» merita la nostra attenzione: l’Austria, alleata con la Russia (il Cosacco), ha bevuto il sangue polacco, ha crudelmente diviso e smembrato la Polonia. Ma quel sangue bevuto avvelena il cuore degli oppressori. È un augurio e insieme un presagio: il sangue dei popoli oppressi, che si solleveranno contro l’Austria, ne segnerà la fine. Il destino della Polonia è singolarmente legato a quello dell’Italia: anche nel suo inno nazionale, la Mazurca di Dabrowski o Canto delle legioni polacche in Italia, c’è un riferimento al nostro Paese: «Marcia, marcia Dabrowski / dalla terra italiana alla Polonia». L’inno polacco è stato scritto a Reggio Emilia nel 1797, e qui eseguito per la prima volta. La doppia citazione Italia-Polonia nei rispettivi inni nazionali è un caso unico al mondo.

L’ultima strofa non viene quasi mai cantata, ma a torto: essa è un grido di giubilo per l’Italia, finalmente unita e libera. Mameli non visse abbastanza per poterlo vedere… ma le sue parole erano destinate a divenire realtà!

(giugno 2011)

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