Alessandro Manzoni
Considerato uno scrittore «vecchio», «stantio», «muffoso» e «convenzionale», è in realtà la voce più moderna, fresca e viva del panorama letterario italiano dell’Ottocento. Attualissimo anche oggi

Alessandro Manzoni

Francesco Hayez, Ritratto di Alessandro Manzoni, 1841, Pinacoteca di Brera, Milano (Italia)

Il periodo del Risorgimento Italiano conosce una folta messe di scrittori, come ad esempio Silvio Pellico, autore di Le mie prigioni, Massimo D’Azeglio con I miei ricordi, Cesare Balbo, che scrive Le speranze d’Italia, il filosofo Antonio Rosmini. Ma su tutti giganteggia la figura di Alessandro Manzoni: l’uomo senza il quale non ci sarebbe stato né Giovanni Verga, né il romanzo italiano, né il collegamento culturale della Penisola al resto dell’Europa. Un autore che, a differenza di quanto si creda comunemente, non era certo un bigotto moralista, pesante e uggioso, ma ebbe una vita tutt’altro che tranquilla, ed una famiglia non certo convenzionale. Anzi, a leggerla, la si potrebbe credere una storia dei nostri giorni.

Alessandro Manzoni nasce a Milano il 7 marzo 1785 dalla marchesina Giulia Beccaria, figlia del celebre illuminista Cesare Beccaria (autore del famoso libro Dei delitti e delle pene) e dal nobile don Pietro, uomo autoritario e attempato che la ragazza – una ventenne colta e piacente, e oltretutto di 26 anni minore del marito! – ha sposato solo per convenienza. Questo all’anagrafe. In realtà, le malelingue bisbigliano che il padre vero sia un certo Alessandro Verri, grande amatore.

Negli anni della sua giovinezza Lisandrino, come viene chiamato in famiglia, compie severi studi classici nei collegi di Merate e di Lugano, retti dai Padri Somaschi e dai Padri Barnabiti, poi al Longone di Milano e a Magenta. Ben presto nasce in lui la passione della letteratura e della poesia (e uno spiccato sentimento antireligioso, anche se non proprio ateo); legge i poeti del tempo tra i quali ammira soprattutto il «divino Monti», che diverrà poi suo amico.

Importanti avvenimenti succedono in Lombardia: nel 1796 entrano in Milano le truppe francesi di Napoleone il quale, definendosi liberatore dei popoli oppressi, proclama la Repubblica Cisalpina. La nobiltà cittadina è in gran parte favorevole alle nuove idee rivoluzionarie portate dai Francesi. Anche Manzoni le applaude e, dopo il ritorno di Napoleone in Lombardia nel 1800, compone un poemetto inneggiante alla libertà.

Terminati gli studi, Manzoni partecipa attivamente alla vita intellettuale della sua città; si reca spesso a Pavia ad ascoltare le lezioni di Giuseppe Zola e del Foscolo, frequenta riunioni e ritrovi letterari, mentre fa amicizia con diversi scrittori e poeti. Poi, nel 1805, raggiunge a Parigi la madre che, separatasi da don Pietro, si è stabilita nella capitale francese convivendo con il ricchissimo, colto, buono e sensibile Carlo Imbonati. Alessandro troverà in lui un secondo padre. «Ricorda, Alessandro: l’importante è sentire» gli raccomanda l’uomo, in punto di morte, «cioè avere sentimenti, e meditare. Accontentarsi di poco, non perdere mai di vista la méta, conservare la mano pura, e anche la mente. Delle cose umane, sperimentare quel tanto che ti basti per non curarle troppo».

A Parigi, Manzoni viene introdotto dalla madre in diversi ambienti intellettuali dove ha modo di conoscere molti scrittori francesi, compreso lo storico illuminista Claude Fauriel, di quattordici anni più vecchio di lui. Rivoluzionario, oppositore di Napoleone, convinto liberale, propugnatore di una cultura laica e libera dell’interpretazione della Chiesa, Fauriel diviene ben presto amico, maestro e collaboratore di Alessandro. Durante i contatti col mondo culturale parigino e con la nuova corrente del Romanticismo che si sta imponendo in tutt’Europa, il giovane sente nascere in sé molte idee nuove e propositi di lavoro. Lo colpiscono soprattutto le parole della nobildonna tedesca Anne-Louise Germaine Necker (più conosciuta come Madame de Staël), che nel celebre articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni lancia precise accuse agli Italiani: «Gli Italiani dovrebbero finirla con quell’abitudine che hanno, di gloriarsi dei passati autori senza produrre nulla di nuovo: si guardino intorno, invece, comincino a tradurre qualche opera tedesca, e imparino cosa vuol dire fare letteratura oggi». Manzoni lo imparerà, diventando anzi uno dei massimi e più originali rappresentanti della letteratura romantica a livello mondiale.

Nel 1807 Manzoni conosce Enrichetta Blondel, una dolcissima creatura di appena quindici anni che sposerà l’anno successivo con rito calvinista, essendo la famiglia di lei protestante.

L’anno 1810 segna una svolta decisiva nella sua vita. Al termine di una lunga e silenziosa crisi spirituale, il poeta si riaccosta alla religione cattolica anche per merito dell’Abate Eustachio Degola, che gli fa conoscere l’immagine di un Dio non castrante e puntitivo, bensì amorevole e misericordioso, tollerante e predisposto al perdono e all’accoglienza. Ottenuta una concessione papale, celebra il suo matrimonio secondo il rito religioso cattolico e la dolce moglie lo segue, facendosi cattolica pure lei.

Nel 1813 Manzoni acquista la casa al numero 16 di Via Visconti di Modrone, che rimarrà la sua dimora definitiva per tutta la vita. Con lui va ad abitare anche la madre.

Dopo la caduta di Napoleone, ancora una volta ritornano in Lombardia gli Austriaci. Da essi Alessandro Manzoni ha offerte di cariche onorifiche, che non accetta: schivo di ogni pubblicità e di carattere piuttosto riservato, non vuole immischiarsi in attività pubbliche austriache; i suoi sentimenti politici sono profondamente italiani. Ha costanti rapporti di amicizia con i Carbonari, specialmente col conte Federico Confalonieri, incoraggia i liberali e partecipa attivamente al moto nazionale.

Dopo il marzo del 1821, sdegnato per le crudeli repressioni austriache, Manzoni va con la famiglia nella sua villa di Brusuglio. Là inizia la stesura dei Promessi sposi, il grande romanzo al quale lavorerà per quasi tutta la vita: è il primo romanzo moderno italiano, e Manzoni il primo autentico narratore che compaia in scena. Basterebbe questa sola opera (che con l’Ivanhoe di Walter Scott fonda il genere del romanzo storico) per nobilitare un uomo ed un’intera epoca letteraria. Tutto il Manzoni è qui presente. I personaggi che porta in scena, dipinti a tinte vivide, sono quasi tutti tratti dal popolo: Lucia, Renzo, Padre Cristoforo, Agnese, Don Abbondio... È la prima volta che i personaggi del volgo, non ricchi, non nobili, ignoranti, ingenui, capaci d’improvvisi e incontrollabili scoppi d’ira, ma anche tenaci nella loro ricerca di un’umile felicità, sono trattati non con umorismo ma con dignità, e con uno sguardo amorevole. In un momento in cui il popolo comincia a venire alla ribalta della Storia, Manzoni forgia una lingua con le parole e le espressioni di ogni giorno, ma si reca anche a Firenze per «sciacquare i panni in Arno», ossia per creare una lingua letteraria nuova, grande, italiana, e riuscendovi alla pefezione; lo dobbiamo a lui se oggi parliamo il fiorentino illustre anziché il piemontese. Tutto il romanzo è poi pervaso dal tema della Provvidenza: vuol dire che tutto ciò che accade all’uomo è parte di un disegno del Padre, che non per forza si vede; e che, se il male è forte nel mondo, il bene è ancora più forte e, alla fine, vince sempre, e se le sventure e i guai ci capitano addosso senza che noi li andiamo a cercare, «la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore». Un inno alla vita, I promessi sposi, che ha ben pochi paragoni nel panorama letterario del tempo.

Purtroppo non molte persone leggono oggi I promessi sposi, al di fuori di quegli scarni brani delle antologie scolastiche, come l’«Addio monti» (il commovente commiato di Lucia ai luoghi dov’era nata), o l’ancor più tenero e commovente «Scendeva dalla soglia», l’indimenticabile ritratto di una madre che consegna per l’ultimo viaggio une delle sue figle ormai morta per la peste che imperversa a Milano, apprestandosi a seguirla con un’altra figlia. Rischiando così di perdere altre pagine, meno famose ma altrettanto memorabili, come quelle che dipingono la vita nel reparto del Lazzaretto della città meneghina dove vengono accolti i bambini malati, nutriti da balie e... da capre: «Già aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per quell’andirivieni di capanne, quando, nella varietà de’ lamenti e nella confusione del mormorìo, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e di belati; fin che arrivò a un assito scheggiato e sconnesso, di dentro il quale veniva quel suono straordinario. Mise un occhio a un largo spiraglio, tra due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come nel piccol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra materassine, o guanciali, o lenzoli distesi, o topponi [tante tele rattoppate l’una sull’altra, a far come un materasso]; e balie e altre donne in faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d’innocenti, quale il luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt’e due.

Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d’amore, da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de’ bisogni e de’ dolori. Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un meschinello piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far le sue veci. Un’altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo sur una materassina. Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante straniero, con una cert’aria però non di trascuranza, ma di preoccupazione, guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell’atto, con quello sguardo, se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima, aveva succhiato quel petto, che forse c’era spirato sopra? Altre donne più attempate attendevano ad altri servizi. Una accorreva alle grida d’un bambino affamato, lo prendeva, e lo portava vicino a una capra che pascolava a un mucchio d’erba fresca, e glielo presentava alle poppe, gridando l’inesperto animale e accarezzandolo insieme, affinché si prestasse dolcemente all’ufizio. Questa correva a prendere un poverino, che una capra tutt’intenta a allattarne un altro, pestava con una zampa: quella portava in qua e in là il suo, ninnandolo, cercando, ora d’addormentarlo col canto, ora d’acquietarlo con dolci parole, chiamandolo con un nome ch’essa medesima gli aveva messo. Arrivò in quel punto un cappuccino con la barba bianchissima, portando due bambini strillanti, uno per braccio, raccolti allora vicino alle madri spirate; e una donna corse a riceverli, e andava guardando tra la brigata e nel gregge, per trovar subito chi tenesse lor luogo di madre» (capitolo XXXV).

Gli anni seguenti sono segnati da gravi lutti: Manzoni prima perde la mamma, poi l’adorata moglie e ben otto dei suoi dieci figli. Nel 1861 gli muore la seconda moglie, la nobildonna Teresa Stampa che ha sposato nel 1837. Uniche e grandi consolazioni sono per lui, oltre ai figli rimastigli, il suo romanzo, molto apprezzato, a cui lavora incessantemente per perfezionarlo nella lingua, e l’avverarsi di un’Italia libera e indipendente.

Dopo la Seconda Guerra d’Indipendenza e l’impresa dei Mille, molti illustri personaggi del tempo si recano a salutare il vecchio poeta, rendendogli onore perché attraverso la sua opera ha ispirato saggezza di vita e amore di patria. Primo a giungere nella bella casa milanese di Via Modrone è il Ministro Cavour, al quale il poeta ricambia la sua alta stima con una di quelle frasi profonde e argute nello stesso tempo che sa spesso trovare: «Voi avete le qualità dell’uomo di stato: avete ordinariamente la prudenza, e al bisogno l’imprudenza». Seguiranno Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi e Giuseppe Verdi.

Un giorno, scendendo la breve scalinata della chiesa di San Fedele, la «sua chiesa», ha un capogiro e cade. È per lui una caduta fatale: ormai vecchio di quasi novant’anni, non si riprende più; muore il 22 maggio 1873, pochi giorni dopo la morte del figlio Pietro.

Le sue spoglie vengono inumate nel famedio (recinto degli uomini illustri) del Cimitero monumentale di Milano, ove tuttora riposano. Nel primo anniversario della sua morte, Giuseppe Verdi compone in sua memoria una Messa funebre, il celebre Requiem.

Manzoni ci ha lasciato un gran numero di opere, tutte indimenticabili: gli Inni Sacri (che comprendono la Risurrezione, il Nome di Maria, il Natale, la Passione, la Pentecoste e un frammento di Ognissanti), alcune liriche (fra cui l’ode Marzo 1821, il Cinque Maggio e i cori del Carmagnola e dell’Adelchi), le tragedie Conte di Carmagnola e Adelchi, I promessi sposi, il saggio Osservazioni sulla morale cattolica, diverse opere teoriche e gli «scritti minori» (minori per modo di dire). Ogni rilettura delle sue pagine è una riscoperta.

(giugno 2017)

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