Il suicidio della Grecia
Dalla Guerra del Peloponneso alla conquista macedone: un secolo di lotte che portano al crollo politico della Grecia, ed alla fine della sua libertà

Nella gigantesca contesa contro i Persiani, che si era conclusa con la vittoria greca nel 479 avanti Cristo, un aiuto fondamentale era stato dato da Atene, soprattutto per merito della sua potentissima flotta: Milziade, Aristide, Temistocle e Cimone, che avevano inferto durissimi colpi alla potenza persiana, erano infatti Ateniesi.

Nel 477 Atene costituì una lega marittima, la «Lega di Delo», con molte città dell’Egeo e con le colonie greche dell’Asia Minore; scopo della lega doveva essere quello di creare una forza compatta contro eventuali attacchi nemici, ma in realtà Atene aveva concluso quest’alleanza con l’intenzione di dominare sulle città che vi avevano aderito, fondando così un vero e proprio Impero. Anzi, non appena fu certa di essersi assicurata il pieno controllo su queste, cercò di estendere il suo dominio anche sul Peloponneso.

Ma voler porre piede su quel territorio significava affrontare Sparta, che vi dominava incontrastata da gran tempo. Fu così che le due più potenti città della Grecia si impegnarono in un duello che si trascinò per quasi trent’anni, dal 431 al 404 avanti Cristo, coinvolgendo quasi tutte le altre città greche: la Guerra del Peloponneso. Il primo atto di un vero e proprio suicidio.


La Guerra del Peloponneso

Guerra del Peloponneso

Schema della Guerra del Peloponneso

Nel maggio del 431 avanti Cristo, Sparta decise di prevenire Atene e con un grosso esercito invase l’Attica, devastando tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. L’irruzione era del tutto inaspettata e in un primo tempo gli Ateniesi furono presi dal panico; tuttavia avevano piena fiducia in Pericle, il loro capo supremo. Egli infatti, da uomo saggio qual era, aveva meditato da tempo un piano di guerra.

«Che il nemico avanzi pure nell’Attica» dichiarò; «la popolazione verrà fatta rifugiare nelle fortezze inespugnabili di Atene e del Piréo [il porto della città]. Ciò che importa è che si badi a difendere la flotta e che non ci si faccia chiudere le vie del mare: da lì faremo scatenare la nostra controffensiva!».

Il piano di Pericle riuscì in modo perfetto: mentre gli Spartani continuavano a penetrare nell’Attica, la flotta ateniese riuscì ad operare degli sbarchi nel Peloponneso e a saccheggiare molte città alleate del nemico. Non solo: lo stesso Pericle, al comando di un esercito, invase la Megaride e ne razziò il territorio.

Le operazioni militari sembravano volgere a favore degli Ateniesi, quando su di essi si abbatté improvvisa la sventura: portata dall’equipaggio di una nave proveniente dall’Egitto, scoppiò nella città la peste (o la malaria), che si diffuse in maniera rapidissima anche a causa della grande massa di popolazione che vi si trovava rinchiusa e delle precarie condizioni igieniche. Lo storico Tucidide ci ha lasciato una dettagliata descrizione del terribile flagello: «Quell’anno era stato, come tutti riconoscevano, sano più d’ogni altro per quanto riguardava le malattie; se anche uno si era ammalato prima della pestilenza, ogni malattia andò a finire in questa. Gli altri invece erano presi improvvisamente, senza nessuna ragione, mentre godevano perfetta salute, innanzitutto da forti calori alla testa e da arrossamenti e da bruciori agli occhi: le parti interne, cioè la gola e la lingua, subito erano di color sanguigno ed emettevano un fiato strano e fetido. Infine, dopo questi fenomeni, sorgevano starnuti e raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto assieme a una forte tosse […] Ai più capitava un singhiozzo con vani sforzi di vomito che dava violente convulsioni, le quali poi diminuivano negli uni dopo il cessare del singhiozzo, negli altri anche molto tempo dopo. E il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; le parti interne ardevano a tal punto da non poter sopportare il rivestimento di vesti leggere o di lini, né d’altro che non fosse l’andar nudi, e il gettarsi con gran piacere nell’acqua fredda. E molte persone non curate facevano questo, gettandosi nei pozzi, prese da sete insaziabile; tuttavia il bere molto o poco dava lo stesso risultato […] per la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini, e con il prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione. Percorreva infatti tutto il corpo, a partire dall’alto, il male, il quale dapprima si era localizzato nella testa, e se uno scampava dai casi più gravi, ciò era indicato dalle affezioni che il morbo aveva arrecato alle sue estremità. Invadeva infatti i genitali e le estremità dei piedi e delle mani; e molti si salvarono con la perdita di queste parti, alcuni anche degli occhi. Altri, guariti, erano presi subito da dimenticanza di ogni cosa, e non riconoscevano se stessi o i loro congiunti» (Tucidide, Storie, II, 49). A Tucidide si rifà Lucrezio, che dell’epidemia ci offre un poderoso affresco nel De rerum natura (libro VI, versi 1.138-1.286), sia pure con numerosi adattamenti che corrispondono allo stile della poesia latina arcaica, al genere letterario e al mondo poetico proprio di Lucrezio.

La peste di Atene

Nicolas Poussin, La peste di Atene, XVII secolo

Un quarto dell’esercito e gran parte della popolazione civile di Atene perirono nella terribile pestilenza, che costrinse i contendenti ad interrompere le ostilità. Pericle stava preparando una nuova offensiva quando, colpito anch’egli dal morbo, cessò di vivere (anno 429 avanti Cristo).

Scomparso Pericle, il governo della città venne preso da Cleóne, commerciante di pelli, «il primo oratore degli Ateniesi, che si strappava il mantello e si percoteva la coscia mentre si rivolgeva al pubblico» (così lo descrive Plutarco), un uomo che, oltre ad essere eloquente, era però anche privo di scrupoli e corrotto. Considerato il piano del suo predecessore una dimostrazione di poco coraggio, decise di condurre una guerra più energica.

Le prime operazioni vennero coronate dal successo: la città di Potidéa, nella Penisola Calcidica, venne presa d’assalto e nel 425 gli Ateniesi, guidati dallo stesso Cleóne, sbarcarono nella Messenia, una regione non molto lontana da Sparta. Ma un tentativo di invadere la Beozia fallì: nello scontro, che avvenne presso Délion, lo Stratega Ippocrate perse quasi tutti i soldati.

Mentre Cleóne meditava un nuovo piano per conquistare la Beozia, gli Spartani sferrarono una poderosa controffensiva: guidato dal Generale Bràsida, un corpo di volontari spartani, proveniente dalla Macedonia, irruppe improvvisamente nella Penisola Calcidica; all’abile Bràsida bastarono pochi mesi per impossessarsi di quasi tutta la Penisola.

Per gli Ateniesi la situazione si fece di colpo molto grave: perdere la Penisola Calcidica significava non essere più padroni del Mar Egeo; era assolutamente necessario riconquistarla. Se ne incaricò lo stesso Cleóne: sbarcò nella Tracia, presso la città di Anfìpoli, alla testa di un corpo di soldati scelti. Il Generale Spartano, avendo previsto le mosse dell’avversario, era già lì con le sue truppe, pronto alla battaglia. Lo scontro fu violentissimo: dopo essersi difese con tenacia, le truppe ateniesi vennero costrette a ritirarsi; tanto Cleóne che Bràsida caddero sul campo, mortalmente feriti.

Scomparsi i loro migliori condottieri, Ateniesi e Spartani decisero di sospendere le ostilità. Con la pace firmata l’8 aprile del 421 avanti Cristo, i due avversari s’impegnavano a restituire i territori reciprocamente conquistati e ad un’allenza della durata di cinquant’anni, mentre Atene s’impegnava a porgere aiuto a Sparta nel caso che gli Iloti (gli schiavi) si sollevassero. La lotta decennale si concludeva così senza né vincitori, né vinti. Ma la pace non era destinata a durare.


La spedizione in Sicilia

Molti Ateniesi, soprattutto i giovani, non erano soddisfatti della pace: non volevano rassegnarsi all’umiliazione subìta ad Anfìpoli e bramavano di poter vendicare al più presto la dura sconfitta. A capo di tali cittadini, che formavano il cosiddetto «partito della guerra», vi era Alcibiade, un giovane che aveva intrapreso da poco la carriera politica ed era ammirato per la sua eloquenza, per la sua bellezza, per la versatilità della sua intelligenza e persino per i suoi difetti e i suoi delitti. Non aveva remore nel parlare; quando Pericle lo rimproverò dicendo che anche lui aveva avuto un’arguta eloquenza in gioventù, Alcibiade gli rispose: «Peccato che io non t’abbia conosciuto quando il tuo cervello era nelle sue migliori condizioni». Viveva circondato dal lusso più sfrenato: aveva riempito la sua casa di mobili costosi, assoldato numerosi artisti per affrescarne le pareti, manteneva una scuderia di cavalli da corsa e le sue donazioni per la guerra superavano quelle di chiunque altro. Faceva tendenza anche nella moda: quando decise di usare un nuovo tipo di scarpe, tutta la gioventù dorata di Atene adottò le «scarpe all’Alcibiade».

Presunto busto di Alcibiade

Busto maschile idealizzato, tradizionalmente identificato come Alcibiade, Musei Capitolini, Roma (Italia)

Desideroso di acquistare ad ogni costo fama di grande condottiero, Alcibiade non esitò a proporre un’impresa rischiosissima ma gradita alla classe commerciale: la conquista della Sicilia, ove Sparta aveva alcune città alleate, tra le quali Siracusa – se avesse potuto prenderla, tutto il Mediterraneo Occidentale sarebbe caduto nelle mani di Atene e Sparta, impossibilitata a ricevere viveri e rifornimenti, sarebbe crollata. Il pretesto era di dar man forte ai Segestini contro i Siracusani.

Invano i più assennati cercavano di dissuadere gli Ateniesi da una simile avventura: Alcibiade, con la sua focosa eloquenza, riuscì ugualmente a far approvare il suo progetto. «Varchiamo, dunque, il Mar Jonio per umiliare l’orgoglio degli Spartani; vedano essi come noi, spregiando questo periodo di pace, andiamo in Sicilia!». Così disse Alcibiade e con queste parole riuscì a suscitare nel popolo ateniese un enorme entusiasmo.

Nell’estate del 415 avanti Cristo, con una flotta di 200 navi, Alcibiade partì dal Piréo per sbarcare in Sicilia. Ma appena giunto sull’isola, ricevette l’ordine di tornare ad Atene, per rispondere al sacrilegio di aver spezzato i nasi, le orecchie e i falli delle statue del dio Mercurio poste all’ingresso degli edifici pubblici e di molte abitazioni private come emblemi di fertilità e custodi delle case, e di aver partecipato con i suoi amici ad un’empia caricatura dei Misteri Eleusini. Non è dato sapere se tali accuse fossero fondate o meno. Comunque Alcibiade, indignato, anziché far ritorno in patria, si recò a Sparta per porsi al servizio del nemico: non solo, adottò il modo di vita spartano, diventò frugale e riservato, si nutrì di cibi semplici, indossò una semplice tunica, rinunciò alle scarpe, si bagnò d’estate e d’inverno nelle fredde acque dell’Eurota. E i suoi concittadini lo condannarono all’esilio e alla morte, qualora fosse caduto nelle loro mani.

Intanto la flotta ateniese aveva iniziato le sue operazioni in Sicilia: al comando del mediocre Stratega Nicia, un timido pacifista che odiava la guerra, aveva posto l’assedio a Siracusa, che le mura poderose e le acque sorgive interne rendevano pressoché inespugnabile. Quasi tutta la Sicilia era accorsa in aiuto della città assediata; inoltre, nel 414 una flotta spartana al comando di Gilippo aiutò la marina siciliana ad imbottigliare nel porto di Siracusa le navi avversarie, tagliandole fuori dai rifornimenti di viveri. Gli Ateniesi, costretti a dar battaglia, furono sconfitti per mare e per terra: Nicia, vecchio e debole, combatté con coraggio, poi si arrese e fu condannato a morte, mentre i superstiti ateniesi furono mandati a morire ai lavori forzati nelle cave di pietra (latomie) della Sicilia, dove provarono di persona il doloroso destino di coloro che per generazioni avevano scavato nelle miniere del Laurion per arricchire Atene. Anche la spedizione in Sicilia si era risolta in una catastrofe.

Gli Spartani approfittarono subito del disastro subìto da Atene per infliggerle il colpo finale: ma la città resistette per più di 10 anni. Richiamò Alcibiade, poi lo accusò di aver abbandonato la flotta e gli tolse il comando (Alcibiade fuggì in Persia, dove fu ucciso da due sicari). Condannò a morte otto Generali (tra cui il figlio di Pericle) che avevano sconfitto gli Spartani per mare ma lasciando perire in una tempesta – senza adeguata sepoltura – gli equipaggi di alcune navi affondate dal nemico, e pochi giorni dopo l’esecuzione della sentenza condannò a morte coloro che l’avevano sostenuta con maggior calore. Infine, condotta da uomini di scarsa abilità, la flotta ateniese diede battaglia a quella spartana, comandata da Lisandro, nel Mar di Marmara: delle 208 navi ateniesi, 200 furono affondate o catturate. Stretta in una morsa, assediata per terra e per mare, con i viveri esauriti e le strade colme di morti e di morenti, Atene fu costretta a chiedere la pace. Correva l’anno 404 avanti Cristo.

Le condizioni imposte agli Ateniesi furono assai dure. Essi dovettero impegnarsi a rispettare quattro punti:

1) demolizione delle fortificazioni di Atene e del Piréo;

2) consegna di tutta la flotta, salvo 12 navi;

3) rinuncia ai territori conquistati durante la guerra;

4) divenire una città alleata di Sparta.

Terminava così la lunga guerra del Peloponneso: la potenza di Atene ne usciva gravemente sconfitta, mentre gli Spartani rovesciavano le democrazie delle varie città imponendo governi oligarchici soggetti a loro. La stessa sorte toccò ad Atene, quando 30 aristocratici, noti come i «Trenta Tiranni», si impadronirono del potere, cercando di sopprimere la democrazia con repressioni feroci, di cui sono prova le 3.000 condanne a morte pronuciate da essi nei soli tre mesi del loro dominio.

Ma i veri vincitori del conflitto furono i Persiani, che ottennero il definitivo dominio delle città greche dell’Asia Minore e una posizione privilegiata come «arbitri» dell’assetto politico della Penisola Ellenica, favorendo ora Atene, ora la sua rivale.


Il crollo

Nel secolo successivo la Grecia continuò ad essere dilaniata da guerre fratricide. L’egemonia spartana si rivelò illusoria: nel 371 i Tebani Pelopida ed Epaminonda, adottando la tattica dell’ordine obliquo (portando cioè tutte le forze alla sinistra, per sfondare la linea avversaria, e non lasciando nel centro e all’ala destra che una linea sottilissima, molto distesa, in modo da contenere il nemico), sconfissero la fanteria spartana in campo aperto; nel 362 Epaminonda ottenne una nuova vittoria, ma la sua morte (Pelopida era già morto guerreggiando in Tessaglia) segnò la fine della breve egemonia tebana.

All’orizzonte, intanto, cominciava a profilarsi un nuovo nemico: la Macedonia. Era una terra barbarica, che in tutta la sua storia non contribuì alla vita della Grecia con alcun autore o artista o scienziato o filosofo; mentre la Corte e le principali città erano greche e conducevano un alto livello di vita (e greca era la lingua ufficiale), il resto della popolazione, ovvero tutto l’insieme di tribù al di fuori dei grossi centri, era formato da arditi ma illetterati montanari. Dopo l’unificazione del suo stato, il Re Filippo (un uomo forte fisicamente e moralmente, che univa un carattere violento ad una grande generosità) mirò ad avere uno sbocco sul mare, e avanzò verso Sud con un esercito di 10.000 soldati e 600 cavalieri, sotto ogni aspetto ben preparati e disciplinati. Dal 355 al 342 passò di vittoria in vittoria, conquistando la Penisola Calcidica, la Tessaglia e la Tracia; nel 338, con l’annientamento di Ateniesi e Tebani a Cheronea grazie alla cavalleria guidata dal figlio Alessandro, Filippo impose ai Greci un’alleanza, la «Lega di Corinto», che era, in realtà, non tanto un’unione di Greci, quanto la fine della loro libertà e l’inizio della loro sottomissione alla Macedonia.

Il IV secolo si caratterizzò così come un lungo periodo di drammatica decadenza, un periodo che vide brutalmente contraddetti i valori nei quali si era creduto. Come continuare ad affermare la supremazia della ragione sulla forza, quando questa appare la sola dominatrice? Perché invocare la protezione degli dèi per ristabilire la giustizia, quando essi, come fa dire Euripide ad Ècuba nella tragedia delle Troiane, «furono invocati e non udirono»? E poi, quale giustizia? Giusto, dice il sofista Trasímaco, è ciò che giova al più forte e a chi è al governo. Come credere nella giustizia dello stato ateniese (che pure aveva ristabilito, dopo la tirannide dei Trenta, la democrazia, e riacquistato il primato marittimo nel Mediterraneo Orientale), quando quello stato condanna a morte un giusto, Socrate, che ha insegnato a ragionare, ad obbedire alle leggi, ad essere uomini? Gli dèi impassibili ed indifferenti non assistono né aiutano l’uomo: «soltanto il caso» si chiede Euripide «guida gli eventi di tutti i mortali?».

L’indipendenza politica greca si era ormai spenta: d’ora in poi la Penisola non sarà che terra di conquista, passando tra le mani di diversi padroni (Macedoni, Romani, Veneziani, Turchi), riconquistando la libertà solo dopo molti secoli, in pieno Ottocento. Ma la cultura... pur non producendo più quasi nulla di realmente elevato, la cultura greca non scomparve, ma continuò a suscitare ammirazione e rispetto, conquistando – come disse Ovidio – i feroci conquistatori, e giungendo fino ai giorni nostri come uno dei sommi vertici del pensiero e della creatività umani.

(agosto 2017)

Tag: Simone Valtorta, Atene, Grecia antica, Sparta, Mar Egeo, Guerra del Peloponneso, Milziade, Aristide, Temistocle, Cimone, Lega di Delo, colonie greche dell’Asia Minore, Pericle, Piréo, Peloponneso, Tucidide, peste di Atene, Lucrezio, De rerum natura, Cleóne, Penisola Calcidica, Ippocrate, Bràsida, spedizione in Sicilia, Alcibiade, Nicia, Siracusa, Gilippo, Lisandro, Trenta Tiranni, Tebe, Pelopida, Epaminonda, ordine obliquo, Macedonia, Filippo, Cheronea, Alessandro Magno, Lega di Corinto, Euripide, Trasímaco, Socrate.