La letteratura sapienziale nell’Antico Vicino Oriente
Varietà di temi, di intrecci, di similitudini e differenze in uno dei generi letterari più interessanti, ma meno conosciuti, della letteratura antica

Se parliamo di «letteratura sapienziale» o di «libri sapienziali», quasi tutti andremmo con la mente alla Bibbia e al «corpus» sapienziale in essa contenuto. In realtà, quella biblica non è l’unica letteratura sapienziale antica che conosciamo – anche se è probabilmente quella meglio conosciuta, per evidenti ragioni storiche –, né ha avuto origine interna al popolo di Israele o si è sviluppata nell’isolamento dai popoli vicini (per esempio, la Sapienza di Amenemope è stata ripresa in una pagina dei Proverbi, mentre il libro della Sapienza attribuito a Salomone – in realtà opera assai più tarda – avrebbe attinenza con la sapienza nel mondo ellenistico, che qui comunque non verrà trattata).

In questo breve articolo, proveremo a delineare i tratti fondamentali che la letteratura sapienziale ha avuto nei Paesi dell’Antico Vicino Oriente: Egitto, Mesopotamia, Ugarit, Israele; vedremo la varietà di temi, la loro originalità, le eventuali similarità e le differenze. Scopriremo anche quanto la letteratura sapienziale sia connessa alle condizioni politiche e sociali dei tempi in cui si sviluppa. Spero che il lettore possa trovare l’argomento «intrigante» quanto l’ho trovato io.


La letteratura sapienziale in Egitto

Nell’antico Egitto la sapienza (dispiegata in una quindicina di testi giunti fino a noi) è espressa attraverso il termine «ma’at», che evoca una creazione ordinata in modo divino, come si addice a una religione della fertilità. Essa è legata in modo intimo all’ambiente di Corte e il suo scopo prioritario consiste nel fornire un’educazione adeguata ai futuri burocrati. Abbiamo quindi, già nel periodo dell’Antico Impero (2815-2400 avanti Cristo) alcuni trattati di istruzione, per imparare a leggere e a scrivere, a tenere discorsi e a conoscere regole di comportamento: parti dell’Insegnamento per Kaghemni (composto da un Visir per suo figlio che è destinato a diventare Visir a sua volta, un testo che è un ideale di moderazione e di autocontrollo) e dell’Insegnamento di Hergedef. Ci è stato invece conservato per intero l’Insegnamento di Ptahhotep, la più antica opera di filosofia conosciuta: il padre, governatore di Menfi, raccomanda al figlio di «non insuperbire per aver appreso l’arte; ma discorri con l’ignorante come con il saggio. Infatti non v’è limite alla capacità, e non v’è alcun artefice che possieda un’assoluta superiorità. La parola buona è più rara dello smeraldo trovato dalle schiave fra i ciottoli». Si tratta di saper ben parlare e comportarsi in modo corretto in ogni circostanza della vita più che di seguire un autentico senso di giustizia sociale.

Gli ultimi tre secoli del terzo millennio avanti Cristo sono segnati da una profonda crisi politica e religiosa che porta all’anarchia, al frazionamento dello Stato, all’aumento dei suicidi e a un modo di pensare pessimistico e cinico. Nel Dialogo di un disperato con la sua anima, l’anima di un uomo disperato e desideroso della morte si rifiuta di seguirlo nel suicido perché «se pensi alla sepoltura è un’amarezza del cuore, è un portare pianto facendo miserabile un uomo; è un portare via un uomo dalla sua casa, gettandolo sull’altura. Mai uscirai su a vedere il sole!»; l’uomo le risponde con quello che è un vero inno alla morte: «La morte è davanti a me oggi / come la salute del malato, / come uscir fuori dopo una malattia. / La morte è davanti a me oggi / come il profumo della mirra, / come seder sotto la vela in un giorno di vento. / La morte è davanti a me oggi / come il profumo del loto, / come star seduti sulla riva dell’ebbrezza. / La morte è davanti a me oggi, / come quando un uomo desidera veder casa sua / dopo passati numerosi anni in prigionia». In questo e in altri scritti si sottolinea l’ignoranza su ciò che attende gli uomini dopo la morte, sul carattere ineluttabile di questa e sull’ombra che proietta sulla vita di ciascuno. Nel Canto dell’Arpista, di fronte alla morte come destino inconoscibile e crudele dell’uomo, l’unica realtà è la vita di quaggiù e ciò che in essa c’è di piacevole: «Segui il tuo cuore finché esisti, poni mirra sul tuo capo, indossa abiti di bisso, profumati con veri profumi esotici, di quelli dell’offerta del dio». Il saggio Ipuwer, ormai stanco e vecchio, mentre sogna l’avvento di un Re filosofo che redima gli uomini dal caos e dall’ingiustizia, si lamenta: «Vorrei che l’umanità avesse fine; che non vi fosse più concepimento né nascita; che sulla terra cessasse ogni rumore e non vi fosse più lotta». Non dobbiamo però pensare che queste concezioni pessimistiche siano comuni a un gran numero di Egiziani: intorno a chi medita i problemi della vita e della morte, vi sono innumerevoli persone che non dubitano che il giusto debba trionfare e che ogni pena e dolore terrestri siano destinati a essere ricompensati in un cielo di felicità e di pace.

La riunificazione del Paese intorno al 2000 avanti Cristo segna l’inizio del Medio Impero e un periodo di prosperità che richiede una burocrazia allargata e un gran numero di scribi, molti dei quali – dopo un lungo iter di studi e tirocinio – svolgono ruoli a Corte in qualità di consiglieri. Per istruirli vengono preparati nuovi materiali come l’Insegnamento di Khety, nel quale viene fatto l’elogio della professione dello scriba, un tema che diventerà un elemento popolare nella letteratura del Nuovo Impero. Si legge in un insegnamento: «Sii scriba: ti salva dalla fatica e ti protegge da ogni tipo di lavoro. Ti preserva dal portar zappa e marra, e tu non porti un cesto. Ti preserva dal manovrare il remo e ti preserva dai tormenti, perché tu non sei sotto numerosi padroni e numerosi superiori. […] Ma lo scriba, egli è alla testa di ogni tipo di lavoro in questo mondo». Molti scribi sono autori di opere nelle quali è preminente l’istruzione morale: i lettori sono invitati a vivere in conformità con «ma’at», l’«ordine» stabilito dagli dèi nei tempi originari. L’Insegnamento di Anekhscescionqi, e siamo già nell’epoca in cui l’Egitto ha perso la sua indipendenza politica, elenca una serie di massime e proverbi rapidi e diretti, talvolta cinici ma sempre disincantati, dove riconosciamo un gusto popolare comune a ogni tempo e a ogni luogo: «Non bere acqua in casa del mercante: te lo metterà in conto»; «È più dolce l’acqua per chi la dà che il vino per chi lo riceve»; «Meglio il poco di chi dà presto che il molto di chi dà tardi». Tutti questi scritti, di epoche assai differenti fra loro, hanno avuto un effetto profondo e durevole sulla via intellettuale ed etica dell’antico Egitto.


La letteratura sapienziale in Mesopotamia

Tre diverse grandi civiltà elaborano in Mesopotamia testi sapienziali.

La prima è quella sumera. Qui vi è un luogo di apprendimento conosciuto come «edubba» («casa della tavoletta») in cui vige un curriculum di studi che comprende varie discipline compresa la composizione di diversi tipi di documenti, di cronache, la copia e lo studio di varie opere letterarie: miti e racconti epici, inni, preghiere, canti, lamenti. Il loro contenuto forma le opinioni teologiche e cosmologiche degli studenti, ispira le credenze religiose e plasma gli ideali morali ed etici: tutto questo patrimonio gli studenti devono inculcare – una volta divenuti alti funzionari del palazzo e del tempio – nelle menti e nei cuorti di Re e cortigiani, di sacerdoti e amministratori.

Le opere sapienziali sumere, composte attorno al 2500 avanti Cristo, mostrano una visione negativa dell’esistenza: gli uomini sono stati creati dagli dèi al solo scopo di servirli, fornendo loro cibo, bevanda, riparo e lasciandoli liberi di svolgere la loro divina attività. La vita è segnata da incertezza e insicurezza derivante dall’ignoranza circa il destino che gli dèi, imprevedibili e incrutabili, riservano agli uomini: l’opera Lamentazione di un uomo al suo dio è la versione sumera del motivo di Giobbe, la storia di una persona giusta che soffre e grida continuamente al suo dio finché questi risponde tramutando la sua sofferenza in gioia. Il Re è di natura divina specialmente grazie al «me» (un concetto equivalente a quello di «ma’at» nel mondo egiziano), ma neanch’egli può sottrarsi alla morte: nell’Epopea di Gilgamesh, il più famoso testo mesopotamico, la morte è il limite invalicabile che gli dèi hanno imposto ai viventi e la sapienza è deludente, perché fa scoprire all’uomo i suoi limiti, ossia i limiti della condizione mortale; l’immortalità, a cui tutti tendono, resta una prerogativa delle sole divinità.

Babilonia possiede la più ricca tradizione sapienziale dell’Antico Vicino Oriente, ma i termini babilonesi che indicano la sapienza si riferiscono prevalentemente all’abilità nella divinazione e nei riti liturgici. Tra le opere più significative, composte tra il 1500 e il 1000 avanti Cristo, ricordiamo il Poema del giusto sofferente e la Teodicea (due scritti in cui vi sono paralleli sorprendenti con la vicenda biblica di Giobbe); i Consigli della sapienza contengono molti proverbi simili a quelli biblici per forma e contenuto. Nell’Epopea di Gilgamesh della tarda letteratura babilonese la dea Sabitu consiglia l’eroe di smettere di agognare una vita dopo la morte per dedicarsi a mangiare, bere ed essere felice sulla terra: «O Gilgamesh, perché corri in tutte le direzioni? / La vita che tu cerchi non la troverai. / Quando gli dèi crearono la specie umana stabilirono per essa la morte; / essi tennero la vita nelle proprie mani. / Tu, o Gilgamesh, riempi il tuo ventre; / giorno e notte sii felice... / Giorno e notte sii gioioso e contento! / Fa’ che le tue vesti siano pure, / che il tuo corpo sia lavato; lava te stesso con l’acqua! / Guarda il fanciullo che afferra la tua mano, / godi la moglie del tuo cuore»; sono stabilianti le somiglianze con l’ebraico Qoélet (9,7-9): «Va’ per la tua via, mangia con gioia il tuo pane, / bevi il tuo vino con cuore allegro, / perché Dio ha già gradito le tue opere. / In ogni tempo fa’ che le tue vesti siano bianche / e il profumo non manchi sul tuo capo. / Godi la vita con la sposa che ami per tutti i giorni della tua vita fugace, che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua sorte nella vita e nelle pene che soffri sotto il sole».

La somiglianza di alcuni testi egiziani con altri testi sumeri, babilonesi ed ebraici non deve stupire: non si tratta di «copiare» un’opera scritta da altri, ma del naturale decorso della storia delle Nazioni. All’inizio di ogni cultura una forte fede religiosa dà agli uomini il coraggio di sopportare con pazienza le pene e le difficoltà, sicuri che gli dèi assistono l’individuo e non lo lasceranno perire, finché non lo vogliano; ma con la sicurezza della pace e la crescita della ricchezza, il lavoro e la sofferenza vengono sostituiti dal piacere e dalla tranquillità e gli uomini cominciano a diffidare degli dèi, della loro imperscrutabile volontà, lamentano la tragedia della conoscenza e cercano rifugio nei piaceri passeggeri: insomma, «trasmigrano» da Giobbe a Qoélet. I Babilonesi hanno seguito questo cammino: sicuri che il destino di ogni uomo fosse un’eternità di oscurità e sofferenza dell’anima nell’Aralu, il fosco oltretomba che attende tanto i buoni quanto i malvagi, si sono dati alle gozzoviglie, e stavano banchettando quando i Persiani giunsero (letteralmente) sotto le mura della città che aprì loro le porte. Una delle più grandiose civiltà del mondo antico si spense senza neppure avere la forza di sguainare la spada.

In Assiria, già prima del 700 avanti Cristo, «saggio» è un attributo del Re, riguarda sia il suo ufficio sia le attività che egli compie: il Sovrano è considerato saggio nella misura in cui sa riconoscere la supremazia degli dèi facendo ciò che è loro gradito, la riverenza verso le divinità è il principio della sapienza regale. Assurbanipal confessa il diletto che prova nel sapere: «Io, Assurbanipal, compresi la saggezza di Nabu [il dio della saggezza], acquisii la conoscenza di tutte le arti dello scrivere su tavolette. […] Marduk, il saggio tra gli dèi, mi ha fatto dono della scienza e dell’intelligenza […] Enurt e Nergal mi fecero virile e forte, di forza incomparabile. Io compresi l’arte del saggio Adapa, i segreti nascosti di tutta l’arte degli scribi […] Nello stesso tempo imparai ciò che è necessario per governare, e seguii le mie vie regali». Nella biblioteca del Re ci sono 30.000 tavolette di argilla: per la maggior parte si tratta di registrazioni ufficiali, osservazioni astrologiche e augurali, oracoli, prescrizioni e resoconti medici, esorcismi, inni, preghiere e genealogie di Re e di dèi; non troviamo traccia di speculazione filosofica, né tentativi di spiegare il mondo svincolati dalle concezioni religiose. Nella cultura assira, oltre al Sovrano sono considerate sapienti anche alcune categorie di persone che esercitano professioni che richiedono abilità, come ad esempio gli artigiani, gli architetti, i musici, gli esorcisti, i medici, gli insegnanti.


La letteratura sapienziale a Ugarit

A Ugarit, l’attuale Ras Shamra in Siria, la sapienza – siamo nella prima metà del XIV secolo – non differisce in modo sensibile da quella degli altri popoli dell’Antico Vicino Oriente: accanto a una sapienza «nobile», che deve addestrare le nuove leve del potere politico-giudiziario e gli intellettuali, ve n’è un’altra di stampo popolare, una sapienza essenzialmente pratica, con proverbi, norme etiche spicciole, consigli di ordine generale o sulla vita quotidiana sociale (sii prudente nel parlare, evita le liti, scegli la tua sposa in modo assennato, preferisci i saggi agli stupidi e via dicendo). Alcune tavolette raccontano la storia di Keret, un giusto sofferente (ritorna il tema di Giobbe) che rimane fedele al suo dio, El, che alla fine lo salva e gli dà gloria. Un testo parla della morte affermando che «nel momento in cui guardiamo il sole, in quel medesimo istante siamo nell’ombra. Tutti gli uomini si addormentano presso Ereshkigal [la dea del mondo sotterraneo] e noi siamo fatti per divenire suoi figli». Nel poema di Aqhat, anch’egli vittima di un’ingiusta violenza di origine divina, l’eroe non ha dubbi quando afferma: «Come mai può un uomo conseguire l’altra vita? / Come può un uomo conseguire l’immortalità? Smalto sarà versato / sul mio corpo e gesso sul mio volto. / Morirò della morte di tutti i mortali; anch’io, certo, morrò».

Vediamo che la sapienza nel mondo dell’Antico Vicino Oriente tenta di dare una risposta alle grandi domande dell’uomo, che sono le stesse presso tutti i popoli: il senso della vita, la ragione dell’esistenza della sofferenza e della morte, i rapporti dell’uomo con i suoi simili e con la divinità.


La letteratura sapienziale in Israele

La sapienza in Israele abbraccia diversi campi e situazioni e si dispiega all’interno di un arco cronologico amplissimo. La parola ebraica «hokmâ» significa abilità tecnica, furbizia, competenza, saper fare, saggezza umana e divina: la sapienza ha un’impostazione pratica e mira a un saper fare, a un saper vivere, da cui i valori morali e religiosi non sono esclusi; illumina il quotidiano come un cammino di accesso possibile a Dio e testimonia una fede che non dubita neppure di fronte all’apparente silenzio del Signore. La sapienza biblica approfitta inoltre di ogni corrente del pensiero, a prescindere dalla fede o dalla cultura in cui si esprime, per arricchire e spiegare l’esperienza di ciascuno: il sapere è infatti visto come un dono destinato al successo e al bene di tutti!

Cinque sono i libri sapienziali del Primo Testamento: Proverbi, Giobbe, Qoélet o Ecclesiaste, Siracide e Sapienza.

Il libro dei Proverbi ha avuto un lunghissimo processo di redazione che va probabilmente dall’VIII al II secolo avanti Cristo. Il termine ebraico «māšāl» (che traduciamo al plurale con «proverbi») designa generi letterari differenti: detti sapienti o popolari, discorsi, allegorie, paragoni e similitudini. Il proverbio ha alle spalle una ricca messe di esperienze e riflessioni, ed è la messa in evidenza di costanti o leggi che regolano l’esperienza umana del mondo e della vita: si fonda sul presupposto che il mondo ha un senso ed è retto da un ordine fondamentale.

Il testo di Proverbi è diviso in quattro libri e in un’appendice. Il primo libro, che comprende i primi nove capitoli, ha uno scopo didattico: si vuole insegnare una plausibile filosofia della vita a gente che, sottoposta al dominio straniero, rischia di perdere il senso dei valori religiosi e la propria identità; la riuscita dell’esistenza umana è strettamente connessa con il «timore di Dio», cioè con una stabile e fiduciosa relazione con il Signore e, di conseguenza, con un atteggiamento rispettoso dell’ordine cosmico stabilito da Dio. Il secondo libro, che va dal capitolo 10 al capitolo 22 (fino al versetto 16) è una racconta di detti e massime vari: sentenze rivolte all’individuo per educarlo a una vita armoniosa e riuscita, divieti e proibizioni che descrivono le conseguenze dannose di certi comportamenti asociali, massime religiose; domina sempre il desiderio di cogliere nel mondo un ordine e di elaborare norme di comportamento per chi vuole vivere in sintonia con il Cosmo e con l’umanità, fiducioso in Dio la cui giustizia punisce l’empio e premia il giusto già su questa terra. Il terzo libro (dal capitolo 22, versetto 17, al capitolo 24) ha tutte le caratteristiche di un manuale scolastico su svariati argomenti; Dio interviene liberamente nella storia, inserendosi tra i progetti o le azioni dell’uomo e i loro risultati. Il quarto libro (capitoli 25-29) presenta la dottrina della retribuzione, nel senso che a ogni atto segue – in modo quasi automatico – una conseguenza a esso proporzionata, in conseguenza a leggi universali poste da Dio («chi scava una fossa vi cadrà dentro / e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso», 26,27; l’uomo è punito dalle sue stesse azioni, che riversano su di lui il male ch’egli vuole fare ad altri); i temi affrontati riguardano i vari aspetti della vita quotidiana e sembrano in parte rivolti a gente semplice, contadini e commercianti, in parte rivolti a studenti che aspirano a cariche pubbliche: chi è saggio, si spiega, edifica la società, incrementa il benessere e la prosperità della comunità intera. Gli ultimi due capitoli (il 30 e il 31) sono costituiti da massime varie: vi si ritrovano un dialogo tra uno scettico e un credente, proverbi numerici, istruzioni per amministratori o responsabili di comunità, il ritratto di una donna perfetta che personifica la sapienza, tanto quella secolare quanto quella religiosa – dopo il lungo percorso attraverso tutto il libro per cercare la sapianza, essa stessa ci rivela la sua vera immagine nella figura di una donna eccellente!

Giobbe è forse il libro più enigmatico del Primo Testamento: San Girolamo afferma che spiegarlo è come tentare di tenere in mano un’anguilla, che più forte la si preme, più velocemente ci sfugge. Lo stesso genere letterario è incerto: lo si è paragonato via via a un dramma, a un procedimento giudiziario, a una disputa sapienziale, a una lamentazione salmica, a un testo destinato alla rappresentazione teatrale; il libro è tutto questo, ma molto di più. È innanzitutto la storia di un uomo che sperimenta con forza il suo limite creaturale, che «come un fiore spunta e avvizzisce, / fugge come l’ombra e mai si ferma» (14,2); è la figura di un credente che, attraverso l’oscurità, vuole giungere al dialogo col vero Dio; è anche la figura di un sofferente, ma il suo dramma è il dramma degli uomini del suo tempo, di un popolo ebraico che non esiste più come Nazione (la Palestina è sotto l’Egitto), e che quindi non accetta più l’idea che Dio sia la guida, il sostegno e la garanzia di tutto.

Giobbe è stato redatto nella sua forma canonica nel III secolo avanti Cristo. Esso deriva probabilmente da un racconto popolare diffuso nell’Antico Vicino Oriente: Giobbe, uomo giusto, viene messo alla prova, perde le ricchezze, i figli, la salute, ma resta fedele a Dio fino alla fine; il Signore, di conseguenza, lo premia moltiplicando i suoi averi, i suoi figli e i suoi giorni. Il dogma della retribuzione che viene descritto è estremamente rassicurante: il giusto, anche se per un breve tempo viene messo alla prova, si mantiene fedele e già in questa vita sperimenterà il premio di Dio.

Questo è il nocciolo: la sofferenza considerata come prova della fede. A Giobbe, che chiede conto al Signore del mistero del male, Dio risponderà mostrandogli le meraviglie della natura: un Cosmo ordinato fin nei più piccoli dettagli, di cui l’uomo non conosce i segreti, ma ne può ammirare l’armonia; esiste una razionalità dell’Universo all’interno della quale anche il dolore dell’uomo trova uno spazio e un senso, che però ci sfugge perché siamo creature limitate. Alla fine il problema del male resta senza risposta, ma appare a Giobbe il volto di Dio, che nella creazione mostra le tracce del suo progetto sì misterioso, ma anche affidabile e buono («Io ti conoscevo per sentito dire, / ma ora i miei occhi ti vedono» 42,5): il libro si trasforma così in una catechesi sulla necessità della fede pura; il problema centrale non è il male di vivere, ma la possibilità della fede e le sue condizioni nonostante l’assurdo della vita. Giobbe ribadisce che è necessario «temere Dio per nulla» (1,9), cioè credere gratuitamente, senza guadagnarci nulla, senza sperimentare a ogni passo il prezzo della virtù, accedendo in questo modo a una dimensione veramente sapienziale dell’esistenza che non considera la virtù una merce di scambio.

Qoélet è stato definito il libro più «pessimista» della Bibbia. L’Autore si presenta come Re di Gerusalemme, ma non rivela nulla di reale su se stesso: potrebbe essere un «professore» alla maniera dei filosofi greci, che parla nella piazza del mercato a chi lo rimunera di un pagamento adeguato. Il libro è databile tra il 300 e il 200 avanti Cristo, quando la Palestina, sotto l’amministrazione dei Tolomei di Egitto, gode di un periodo di pace e – almeno per le classi sociali alte – di benessere e di prosperità economica. La società è assetata e quasi ossessionata dal guadagno, dalla ricchezza, dal profitto e dalla ricerca del potere, ma anche caratterizzata da corruzione politica, vessazioni, ingiustizie e oppressioni da parte dei ricchi, dei potenti e del Governo.

«Vanità delle vanità, dice Qoélet, / vanità delle vanità, tutto è vanità» (1,2); «Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. È questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino. Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco, tutto è vanità e un inseguire il vento» (1,13-14). Basterebbero queste poche righe per classificare Qoélet come un pessimista, uno scettico, ma in realtà ci sono motivi per sostenere un’interpretazione «positiva» del testo. Il primo sono i numerosi inviti a godere: per esempio, 2,10.24 («Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica; questa è stata la ricompensa di tutte le mie fatiche. […] Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche; ma mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio»), o 3,12-13.22 («Ho concluso che non c’è nulla di meglio per essi, che godere e agire bene nella loro vita; ma che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro è un dono di Dio. […] Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la sua sorte. Chi potrà infatti condurlo a vedere ciò che avverrà dopo di lui?»); gioia, piacere, fare esperienza sono vocaboli che ricorrono più volte nel libro. Poi c’è il tema del «timore di Dio»: Qoélet descrive la relazione tra Dio e l’umanità con l’uso del verbo «dare» (Dio dà la vita, la sapienza e la conoscenza, la gioia, la ricchezza e il potere, «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo» in 3,11); la sapienza coincide con il «timore di Dio» che è affidarsi a Lui, in modo incondizionato. Qoélet non ha alcuna fede in un aldilà beato, ma il pensiero della morte non fa che esaltare la capacità di godere la vita («Dolce è la luce / e agli occhi piace vedere il sole. / Anche se vive l’uomo per molti anni / se li goda tutti, / e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti: / tutto ciò che accade è vanità» 11,7-8): una vita in cui non si riesca a godere non è nemmeno degna di essere vissuta – devi fare di tutto perché la tua vita ti offra opportunità di gioire!

Il libro del Siracide fu scritto probabilmente tra il 187 e il 180 avanti Cristo. È un periodo di pace sotto il dominio dei Seleucidi di Siria, che si sono sostituiti agli Egiziani; la cultura greca comincia a penetrare in Palestina ma rimane ancora circoscritta all’aristocrazia colta di Gerusalemme. Nel Siracide ci sono circa un centinaio di passi che hanno chiari parallelismi nella cultura greca (in particolare con lo stoicismo, e poi con Teognide, Euripide, Senofonte, Esiodo, Omero, Sofocle), anche se l’Autore, un sapiente e forse anche consigliere di principi, pur mantenendo un atteggiamento aperto e dialogante rimane un conservatore e un tradizionalista, che enfatizza la fedeltà giudaica alla Torah (la Legge: la sapienza è l’ordine primordiale del mondo voluto da Dio e trova la sua migliore formulazione nella Torah data a Israele).

Il Siracide si presenta come un’antologia di testi di genere diverso: sentenze o detti, proverbi numerici, paragoni, inni, preghiere, un manuale di comportamento morale e via dicendo. Alcuni temi portanti del libro sono:

1) il «timor di Dio», da intendersi come «rispetto di Dio». È un’intensa e viva relazione personale con il Signore, contrassegnata da umiltà e sottomissione alla sua sovrana maestà e da fiducia nella sua bontà e misericordia. Il «timor di Dio» è l’inizio, la pienezza, la corona e la radice della sapienza;

2) l’uomo. È un essere intelligente e responsabile, capace di scegliere liberamente, a cui Dio ha comunicato la conoscenza divina di tutte le cose. Il Siracide parla dell’uomo in generale, ma dal punto di vista di Israele: «I loro occhi contemplarono la grandezza della sua gloria, / i loro orecchi sentirono la magnificenza della sua voce. / Disse loro: “Guardatevi da ogni ingiustizia!” / e diede a ciascuno precetti verso il prossimo. / Le loro vie sono sempre davanti a Lui, / non restano nascoste ai suoi occhi. / Su ogni popolo mise un capo, / ma Israele è la porzione del Signore» (17,11-14);

3) la preghiera. L’uomo non può controllare tutto e perciò deve pregare Dio perché gli sia di guida. La lode a Dio è il senso ultimo della vita umana e conviene al sapiente in modo particolare;

4) la donna. Il Siracide dà consigli a giovani uomini orientati al matrimonio e perciò tutto quello che dice sulla donna è in funzione della vita coniugale. Benché riconosca il valore straordinario dell’armonia tra gli sposi, rimane legato alle concezioni patriarcali del suo tempo e non parla mai di un vero dialogo coniugale.

Il libro della Sapienza è stato composto in greco ad Alessandria d’Egitto da un Ebreo ellenizzato, colto e istruito, profondamente religioso, verso l’anno 30 avanti Cristo, sotto il regno dell’Imperatore Augusto.

Il testo, che rimane profondamente segnato dalla Bibbia ebraica pur in un ambiente multiculturale, è un’opera acccademica che si rivolge a giovani studenti ebrei con lo scopo di formare le future guide spirituali del popolo ebraico e di equipaggiarle per affrontare la cultura ellenistica confermandole nella fede dei padri (ci sono all’interno della comunità delle divisioni che tendono a mettere in pericolo la genuina fede giudaica: gli «empi» di cui si parla nel libro sono probabilmente Ebrei esponenti di correnti di pensiero alternative). La sapienza è un sapere identico a quello di Dio stesso, e non si può pertanto accedere al Signore senza la sapienza; essa ha un ruolo di coesione e di unificazione, è una forza e un principio interiore di vita religiosa e morale, dà all’uomo la vita immortale; l’uomo non può darsi da solo la sapienza, ma la riceve da Dio, al quale deve chiederla tramite la preghiera. Il tema centrale dell’opera è la giustizia divina che viene fatta propria dagli uomini e diventa condotta, comportamento, prassi politica: il governo di Dio nel mondo deve essere modello della politica dell’uomo, che deve proporsi il raggiungimento della vita piena e perfetta, perché la giustizia produce la vita, mentre l’ingiustizia conduce alla morte. Il libro della Sapienza è fedele al Primo Testamento ma aperto alla cultura del suo tempo, è un grandioso ripensamento della fede ebraica all’interno dell’ellenismo: tutto è profondamente biblico nel pensiero dell’Autore, ma la lingua, le teorie e i costumi criticati sono quelli del mondo ellenistico. I contenuti del libro rappresentano il culmine della rivelazione primotestamentaria e un «ponte» con il Cristianesimo nascente: alle problematiche già affrontate dai saggi di Israele (la sofferenza dei giusti, la retribuzione, la morte) l’Autore dà una chiave interpretativa nuova, la fede nell’immortalità dell’anima e nella retribuzione in una vita ultraterrena.


Bibliografia

La prima Bibbia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2009, pagine 728-762, 850-886, 894-968

AA. VV., La Storia, volume 1, Dalla Preistoria all’antico Egitto, De Agostini Editore S.p.A., Novara 2004, pagine 458-462, 677-700

Antonio Bonora-Michelangelo Priotto e collaboratori, Libri sapienziali e altri scritti, Editrice Elle Di Ci, Torino 1997, pagine 29-114

Will Durandt, L’Oriente, Arnoldo Mondadori editore, Verona 1956, pagine 227-231, 296-301, 316-317.

(aprile 2022)

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