Le guerre persiane
Non un semplice scontro tra due popoli, bensì tra due concezioni della società e dell’uomo

Le guerre che opposero la Persia alla Grecia sono sempre state lette non come uno scontro tra due popoli, ma come lo scontro tra due diverse concezioni della società e dell’essere umano: da una parte, una Monarchia assolutista di tipo orientale, dove le persone sono masse di sudditi, uniti dal piglio forte del Sovrano; dall’altra, una Democrazia di tipo occidentale, dove le persone sono liberi cittadini che combattono per la loro terra e per le loro famiglie. Il dovere dell’obbedienza all’autorità di stampo divino, da una parte, e la libertà di pensiero e di scelta, dall’altra. L’Asia, da una parte, e l’Europa, dall’altra: una rivalità che iniziò con Lade, Maratona, Salamina, Imera, Platea, Micale, Eurimedonte per proseguire in triste litania con Granico, Isso, Arbela, Canne e Zama.

Di più: la guerra greco-persiana rese possibile l’esistenza dell’Europa, perché diede all’Occidente la possibilità di sviluppare la propria vita economica e le proprie istituzioni politiche senza l’influenza di Sovrani Orientali, e il proprio pensiero libero dal misticismo asiatico. Se la guerra tra Grecia e Persia avesse avuto un esito diverso da quello che ebbe, quasi sicuramente il mondo di oggi non assomiglierebbe affatto a come lo conosciamo.


Le spedizioni di Dario

Spedizioni di Dario

Le spedizioni di Dario

All’inizio del V secolo avanti Cristo, i Persiani si trovavano padroni del più vasto Impero che si fosse mai visto: la loro ultima conquista, verso Occidente, era stata la penisola dell’Anatolia, nell’attuale Turchia. Poi, ad una ad una, il «gigante» persiano cominciò a divorarsi le isole dell’Egeo Settentrionale, con un impeto che sembrava inarrestabile.

Nel 522 avanti Cristo era divenuto Re dei Persiani Dario di Istaspe, un uomo di grande energia, colto ed abile, che portò la Persia al culmine della sua potenza: nel 492, dopo 30 anni di regno, non aveva visto altro che nemici cadere vinti davanti ai suoi eserciti.

A questo punto decise di sferrare il suo attacco contro la Grecia, prima tappa di una futura espansione verso Occidente: né lui, né alcun altro poteva nutrire dubbi sul risultato dell’impresa – era un gigante che si scagliava contro un pigmeo. L’idea gli era stata lanciata da Ippia, figlio di Pisistrato, tiranno di Atene: era stato cacciato dalla città e sperava nell’aiuto persiano per riacquistare il trono. Inoltre Atene aveva aiutato con 20 navi le città greche della Ionia, che nel 499 avevano cacciato i tiranni insediati dai Persiani: Sardi venne conquistata ed incendiata già nel 498, la flotta ionia fu distrutta a Lade nel 494, Mileto venne completamente rasa al suolo nello stesso anno e non si risollevò più, e nel 493 cessarono le ultime resistenze. Agli ambasciatori di Dario, che per evitare la guerra intimavano agli Ateniesi di riconoscere Ippia come Re, fu risposto picche. Così, uno dei più grandi scontri del mondo antico iniziò come una sorta di «guerra civile».

Dario aveva progettato di invadere la Grecia dal Nord, per via di terra, e per questo inviò un grande esercito in Tracia: una volta conquistata questa regione, avrebbe potuto proseguire verso il Sud; l’occupazione dell’Attica gli era stata prospettata come una facile impresa. Inoltre, sapendo che un tale esercito non avrebbe potuto vincere senza una flotta che lo rifornisse (i villaggi mediterranei potevano offrire ben poco da mangiare ad una numerosa massa d’uomini) e che tenesse i nemici sotto la costante minaccia di un attacco dal mare, allestì anche un’enorme flotta e la mise in mare, attraverso l’Egeo; le grosse navi da carico erano scortate da galee piene di armati.

Il comando delle truppe venne dato a Mardonio, genero di Dario, Generale senza ingegno e senza esperienza. Sull’Egeo si levò un’enorme tempesta che colò a picco la flotta degli invasori e, con essa, anche tutti i piani di Dario: infatti l’esercito, rimasto senza aiuti dal mare, fu sconfitto da una bellicosa tribù tracia e Dario dovette richiamarlo.

La prima guerra alla Grecia era finita ancor prima di cominciare!

Ma Dario non era uomo da lasciar perdere e, grazie alle sue favolose entrate annue, nel 490 aveva approntato una nuova spedizione di circa 30.000 uomini e forse più di 500 navi, sotto la guida di Dati di Media e di Artaferne, figlio del governatore di Sardi.

Ad una ad una le isole Cicladi furono occupate, poi fu la volta dell’Eubea, ad un tiro di sasso dalle coste della Locride, della Beozia e dell’Attica. Eppure la maggior parte delle città greche non mosse un dito contro l’invasore: considerando che il nemico avrebbe certamente distrutto Atene, i governanti delle altre città si stropicciavano le mani dalla contentezza, ansiosi di veder andare in rovina quella città, di cui invidiavano la prosperità e la bellezza... senza pensare che, presto, anch’essi avrebbero seguito la stessa sorte.

E giunse il giorno in cui i Persiani, su suggerimento di Ippia, sbarcarono nell’Attica, accampandosi nella piana di Maratona, ad una quarantina di chilometri da Atene; lì avrebbero potuto far uso della loro cavalleria, superiore a quella greca. Solo 10.000 Ateniesi (sia schiavi che uomini liberi, arruolati a pari condizioni) e 1.000 Plateesi mossero contro ad affrontarli. Per tre giorni i due eserciti si fronteggiarono senza attaccarsi. Il terzo giorno, il nemico si preparò a salpare le ancore: il comandante persiano aveva deciso di trasferire l’attacco direttamente sotto le mura di Atene, e già tutta la cavalleria era imbarcata. Milziade, riconosciuto comandante in capo dell’esercito greco per suggerimento di Aristide, non si lasciò sfuggire quest’occasione: aveva addestrato i suoi uomini ad attaccare di corsa, nonostante le pesanti armature che portavano; così, i suoi 10.000 soldati si lanciarono impetuosamente contro lo schieramento persiano, molto più numeroso. Possiamo immaginare lo sgomento dei nemici: vedendo i Greci attaccare correndo come se le armature non pesassero affatto, dovettero credersi assaliti da un esercito di semidèi! I famosi arcieri persiani, colti di sorpresa, non riuscirono neppure ad entrare in azione; la fanteria, con il suo pesante urto, sfondò il centro greco, ma fu attanagliata dalle ali. Per evitare l’accerchiamento, il comandante persiano ordinò ai suoi uomini di rifugiarsi sulle navi; sette vennero catturate e bruciate. L’Ateniese Cinegira, fratello del poeta Eschilo, afferrò con la mano destra uno dei vascelli nemici che cercava di allontanarsi dalla riva; gli venne mozzata la mano; vi si aggrappò con la sinistra; anche questa fu stroncata; vi si attaccò coi denti e ricevette la morte. La battaglia era costata ai Persiani la perdita di 6.400 soldati, e lo stesso Ippia aveva terminato la sua vita obbrobriosa; gli Ateniesi persero solo 192 uomini. In loro onore furono edificati monumenti di marmo e di bronzo a Maratona e a Delfi, furono composti poemi e tragedie, fu eseguito un meraviglioso dipinto, furono scritti leggende e brani di storia; coloro che tornarono in patria furono indicati come «gli uomini di Maratona» per il resto della loro vita. 650 anni più tardi, quanti navigavano da quelle parti credevano ancora di sentire i rumori del combattimento.

Narra la tradizione che Milziade, appena conclusa la battaglia, volle mandare un messaggero ad Atene per annunciare la bella vittoria: fu scelto un certo Filippide, noto per la sua velocità nelle corse. Si trattava di coprire una distanza di 42 chilometri nel più breve tempo possibile. L’uomo corse a perdifiato; giunse alla città; poté appena mormorare ai cittadini che lo avevano circondato: «Vittoria, vittoria!», che cadde a terra, morto per lo sforzo compiuto. È in ricordo di questo episodio che ancora oggi, nei Giochi Olimpici, si disputa, sulla distanza di 42 chilometri, una gara di corsa chiamata – per l’appunto – «maratona».

Milziade, intanto, non era stato fermo un attimo ad assaporare la gioia: aveva compreso che i Persiani, non del tutto sconfitti, stavano navigando in tutta fretta verso Atene, sperando di giungervi prima che l’esercito greco fosse rientrato da Maratona. Non concesse che poche ore di riposo ai suoi uomini poi, con una veloce marcia, li riportò indietro: quando la flotta persiana giunse in vista di Atene, trovò ad attenderla, schierato sulle rive, lo stesso esercito di Maratona. I Persiani pensarono allora che non fosse il caso di ritentare la prova e rivolsero le prue verso l’Asia, dalla quale erano venuti. Una sola città era riuscita a fermare l’attacco di un potente Impero. (Milziade non ebbe troppo tempo di godere della vittoria: la gelosia e l’invidia lo fecero finir vittima di losche trame e di ambizioni; l’uomo che aveva salvato la Grecia fu ferito nel tentativo di occupare le Cicladi e morì in prigione in conseguenza della sua ferita, non ricevendo neppure gli onori del sepolcro).

Ma la «partita» non era affatto conclusa!


Le spedizioni di Serse

Spedizioni di Serse

Le spedizioni di Serse

La reazione della Persia al disastro di Maratona non fu immediata: la durissima lezione aveva fatto capire ai Persiani che la guerra contro la Grecia non era affatto da prendersi alla leggera.

Il Re Serse, succeduto nel 485 al padre Dario, fece grandi ed accurati preparativi per la nuova spedizione: vennero unite le due rive dell’Ellesponto (l’attuale Stretto dei Dardanelli) con un ponte di barche per agevolare il trasporto dell’esercito in Grecia, e fu tagliato l’istmo della penisola d’Athos per evitare alle navi il tempestoso promontorio di quel monte, là dove nel 492, proprio a causa di una furiosa tempesta, era colata a picco la flotta del Re Dario. Queste opere grandiose furono compiute da ingegneri egiziani e fenici.

Nel 481 Serse si decise ad attaccare: forte di 200.000 uomini (di cui solo 10.000 erano Persiani) e di 1.000 navi da trasporto e da combattimento, il Re era certo di schiacciare la Grecia in pochissimo tempo. Era un esercito composito e pittoresco: vi erano Etiopi vestiti di pelli di leopardo che usavano frecce con punte di pietra, Persiani che indossavano cotte di maglia e pantaloni, Asiatici vestiti di pelli di capra e armati di bastoni, di pugnali e di lacci, Traci con cappelli di pelo di volpe, Indiani vestiti di cotone, e poi lancieri, soldati armati di spada, arcieri, carri, elefanti e guerrieri – narra Erodoto – «dalle vesti variopinte e con alti stivali ai piedi», e molti altri ancora.

Militari persiani

Militari persiani, probabilmente appartenenti al corpo degli Immortali; fregio nel palazzo di Dario a Susa, ora conservato al Museo del Louvre, Parigi (Francia)

La notizia dell’invasione provocò sgomento in Grecia: si disse che l’esercito persiano era forte di 1.500.000 uomini e 80.000 cavalieri (senza contare i tecnici, gli schiavi, i mercanti, i fornitori e le prostitute), che i nemici avevano «tagliato un monte», un’impresa titanica. Al Congresso di Corinto, aperto mentre l’esercito nemico si trovava già in Macedonia, Sparta e Atene, le eterne rivali, decisero di unirsi e far fronte all’invasione, trascinando col loro esempio quasi tutte le altre città greche, ma quando nel settembre del 480 l’enorme esercito di Serse irruppe nella Tessaglia, i Greci stavano ancora discutendo su come organizzare la difesa (soprattutto Sparta era restia a mandar uomini in difesa dell’Attica, non volendo sguarnire l’Istmo di Corinto, «porta» del Peloponneso).

Per sbarrare il passo alla valanga persiana i Greci, ancora disorganizzatissimi, schierarono 7.000 uomini, al comando del Re Spartano Leonida, al Passo delle Termopili, le «Porte Calde» (le sorgenti calde da cui prende il nome questo Passo sono ancora attive). Sicuro di poter annientare senza troppa fatica le forze avversarie, Serse mandò alcuni ambasciatori per convincere i Greci alla resa. Ma, all’intimazione di consegnare le armi, Leonida rispose: «Dite a Serse, il vostro Sovrano, che se vuole le nostre armi, se le venga a prendere!». Gli ambasciatori tentarono un’altra «carta»: «Badate, quando inizierà la battaglia, lanceremo su di voi tante frecce, che nasconderemo il sole». La replica di Leonida rimase proverbiale: «Meglio, così combatteremo all’ombra!».

Per tre giorni l’esercito di Serse, pur combattendo con accanimento, non riuscì a fare un passo avanti: incitati dal Re Spartano, i Greci opposero una resistenza furiosa, disperata. Ma all’inizio del quarto giorno i soldati di Leonida si accorsero che per loro era finita: i Persiani, giudati da un traditore, Efialte, per un sentiero sulla montagna, stavano per prenderli alle spalle. Licenziati allora quei soldati che non se la sentivano di continuare l’ormai inutile resistenza, Leonida rimase sul posto con soli 300 Spartani e 1.400 soldati in parte di Tebe e in parte di Tespie. E assieme a loro, piuttosto che arrendersi al nemico, si fece trucidare dai soldati di Serse. Il poeta Simonide dedicò loro un epitaffio semplice ed incisivo: «Viandante, di’ pure a Sparta / che qui siamo morti / per non disobbedire ai suoi sacri ordini».

Oltrepassato il Passo delle Termopili, l’esercito persiano si rovesciò come una valanga sull’Attica: Atene, difesa per due settimane da un pugno di uomini, fu data alle fiamme, tutti i difensori vennero uccisi e tutti i templi saccheggiati e distrutti, ed altre città furono completamente devastate. Molti Ateniesi si erano dati alla fuga prima dell’arrivo dell’esercito persiano e Plutarco ci descrive la scena commuovente degli animali domestici di Atene che, vedendo i loro padroni allontanarsi sulle navi, si misero a mugolare pietosamente sulla riva del mare; un cane che apparteneva a Santippo, padre di Pericle, si lanciò in acqua e nuotò a fianco della nave fino all’isola di Salamina, dove morì esausto.

Consultato, l’oracolo di Delfi aveva consigliato agli Ateniesi di difendersi «con le mura di legno». Ma quando mai Atene aveva avuto mura di legno? Si capì infine che le mura di legno erano le navi. La flotta greca, al comando di Temistocle, era ancora intatta e pronta ad affrontare quella persiana, nonostante molti Ammiragli premessero per tornare a difendere le loro città; le due manovre principali delle galee greche erano l’urto contro una nave nemica per spezzarne i remi ed immobilizzarla e il successivo speronamento dello scafo ormai impossibilitato a manovrare, quindi seguivano l’arrembaggio ed il combattimento corpo a corpo.

Lo scontro, il più antico combattimento navale di cui si abbia un resoconto abbastanza completo, avvenne il 22 o 23 settembre del 480 avanti Cristo nelle acque dello stretto e tortuoso canale che separa l’isola di Salamina dalla terraferma, e si concluse con quella che viene considerata una delle più grandi vittorie strategiche nella storia delle battaglie navali. Temistocle, come rilevato in seguito al ritrovamento della Pietra Troezein nel Canale di Trikeri, aveva preparato in modo accurato il piano di battaglia e lo stratagemma per attirare in trappola le navi nemiche. I Persiani, dopo aver affrontato due tempeste ed uno scontro indeciso con una squadra navale greca, si erano riuniti nel porto del Falero nell’intento di rinchiudere i Greci con una manovra a tenaglia tra la loro flotta e l’esercito appostato lungo la costa. Temistocle inviò uno schiavo fidato con un messaggio per Serse: i suoi, disse, erano in procinto di ritirarsi, e i Persiani avrebbero povuto muovere immediatamente le loro navi per intrappolare quelle greche e distruggerle tutte in una sola volta. 200 navi egiziane bloccarono l’ingresso occidentale della rada, mentre il resto della flotta persiana era schierato attraverso quello orientale. Sulle falde del monte Agelao, di fronte a Salamina, Serse aveva predisposto un trono d’argento per assistere alla battaglia; dal lato opposto, i profughi ateniesi avevano anch’essi gli occhi puntati verso il mare.

Battaglia di Salamina

Schema della battaglia di Salamina

La flotta greca, composta di sole 280 navi, comparve per ritirarsi subito, in apparente scompiglio, dietro un promontorio dove invece si predispose per la battaglia. I Persiani avanzarono e furono colti di sorpresa vedendo che le navi nemiche li stavano aspettando. Le triremi greche, più agili e leggere delle tozze e pesanti navi persiane, erano manovrate da marinai esperti e affiatati che oltre a tutto difendevano la propria terra, mentre molti componenti degli equipaggi persiani erano mercenari arruolati senza tener conto della loro esperienza marinara. Fin dall’inizio le navi greche – spinte dal vento a loro favore – crearono lo scompiglio nello stretto canale, tanto che la flotta persiana cadde nel più totale disorientamento e affondò accidentalmente qualcuna delle sue stesse navi: le triremi immobilizzarono molte navi persiane inserendosi nel loro schieramento e spezzandone i remi, poi cercarono di spingerle verso l’interno dello stretto in modo da neutralizzare la superiorità numerica del nemico, e da impedirne la fuga. «Ho visto il Mar Egeo coprirsi di cadaveri» scrisse Eschilo, «uomo di Maratona» e testimone oculare anche di quest’impresa: «[...] Abbattevano gli uomini come si abbattono i tonni, con remi rotti e frammenti di legno». Serse fece giustiziare sul posto gli equipaggi di due navi persiane che si erano ritirati dalla battaglia ed erano sbarcati. Prima di sera i Persiani avevano perso 200 navi contro 40 greche (stime di Diodoro Siculo; non abbiamo versioni persiane del fatto) e, con esse, il loro potenziale dominio in Egeo; pochi Greci erano morti, anche sulle navi affondate, perché, essendo ottimi nuotatori, erano riusciti a scampare a nuoto fino alla riva. La sola Artemisia, Regina di Alicarnasso, oppose un’ostinata resistenza, tanto che Serse ebbe a dire che in quella battaglia i suoi soldati avevano combattuto da donne e le donne da soldati; infine, rimasta sola in mezzo ai nemici, la scaltra Regina per salvarsi ricorse ad uno stratagemma: fece inalberare la bandiera greca sul suo vascello, attaccò un bastimento persiano, lo colò a fondo e poi si allontanò senza essere inseguita dai Greci. Piegato da un così grave insuccesso, Serse fece ritorno in Persia e rinunciò persino al comando dell’esercito: questo fu affidato al Generale Mardonio, che si ritirò nella Tessaglia. Dal canto suo, Temistocle ricevette in patria grandi onori, e al suo comparire ai giochi olimpici tutto il popolo ateniese si alzò in piedi in segno di omaggio, tributandogli – confessò lui stesso – il più bel trionfo della sua vita. (Eppure, non ebbe fortuna: esiliato, poi condannato a morte, venne accolto in Persia da Artaserse, successore di Serse, e mandato a vivere a Magnesia, dove morì nel 461).

La battaglia di Salamina

Wilhelm von Kaulbach, La battaglia di Salamina, 1868, Maximilianeum, Monaco (Germania)

Nello stesso anno 480, forse addirittura nel medesimo giorno della battaglia di Salamina, 55.000 Greci di Sicilia al comando di Gelone di Siracusa sconfissero 300.000 Cartaginesi guidati da Amilcare presso Imera – una duplice vittoria greca, in Oriente e in Occidente, anche se probabilmente la contemporaneità fu solo un caso, non ci risulta che tra i Fenici d’Africa e Serse vi fossero accordi.

Nella primavera dell’anno successivo, il 479 avanti Cristo, Serse diede ordine a Mardonio di invadere nuovamente l’Attica; sarebbe intervenuto personalmente solo se le cose si fossero messe per il meglio (era evidente che l’umiliazione di Salamina gli pesava ancora sulle spalle).

Alla nuova minaccia persiana, Spartani ed Ateniesi non esitarono a riunire ancora una volta le loro forze: affidato l’esercito allo Spartano Pausania, lo scontro avvenne nella pianura di Platea, in Beozia – 300.000 Persiani contro 110.000 Greci. La scarsezza d’acqua della zona aveva obbligato i Greci a cambiar posizione; tale movimento, eseguito con molto disordine, era apparso una fuga, cosicché Mardonio li inseguì e li attaccò con impeto. La retroguardia spartana disposta in falange, con i lunghi scudi, gli elmi e le corazze metalliche, le picche e le sciabole, restò immobile all’urto del nemico e lo respinse; Mardonio si slanciò nel più folto del combattimento e restò ucciso; tra le file dei Persiani serpeggiò il disordine. Lo storico Plutarco ci riferisce che a Platea i Greci avevano giurato di lottare «finché avessero avuto vita»: e tennero fede al giuramento, dai Generali ai più umili soldati, ciascuno si prodigò senza risparmio.

La lunga e furibonda battaglia campale, la maggiore combattuta durante le guerre persiane, si risolse in un’immane carneficina per l’esercito di Mardonio. Le cifre che ci dà Erodoto sono impressionanti: i Persiani avrebbero perduto ben 260.000 uomini, e i Greci solo 159; Plutarco fece salire il numero delle perdite greche a 1.360, e Diodoro Siculo abbassò quelle persiane a 100.000... ma sia Erodoto, che Plutarco, che Diodoro erano Greci! (Anche Pausania, pur vincitore, non ebbe una vita felice; liberò gran parte di Cipro, quindi Bisanzio, ma per essersi comportato come un signore della guerra indipendente e tirannico fu condannato dai magistrati nella sua città natale: rifugiatosi nel tempio di Atena Calchioikos, vi fu murato vivo e lasciato morire di fame).

Quanto a Serse, la catastrofe di Platea non fu il solo tremendo colpo di quella giornata: infatti, lo stesso giorno, le navi persiane scampate al disastro di Salamina venivano sorprese dalla flotta greca guidata dall’Ateniese Santippo al promontorio di Micale, presso Mileto (in Asia Minore), e date alle fiamme.

Nonostante i rovesci, Serse sperò ancora di poter trionfare. Dopo aver allestito in Fenicia una nuova, potente flotta, nel 470 avanti Cristo, tentò nuovamente la grande avventura sul mare. Ma non si aspettava certo di dover fare i conti con Cimone, figlio di Milziade, il vincitore ateniese di Maratona: questi non diede alle navi persiane nemmeno il tempo di raggiungere il Mar Egeo, ma le sorprese alle foci del fiume Eurimedonte (in Panfilia, Asia Minore) e in una fulminea battaglia navale le distrusse. Dopo quell’ennesima, tremenda sconfitta, Serse non osò più attaccare la Grecia.

Ci volle tentare invece, alcuni decenni dopo, il suo successore, Artaserse. Ma non ebbe maggior fortuna: nelle acque di Cipro la sua flotta fu annientata dalle navi greche, comandate ancora dal formidabile Cimone. Era l’anno 449 avanti Cristo. Impressionato dall’immane disastro, Artaserse chiese la pace. Con essa, la Persia riconobbe l’indipendenza e la libertà alla Grecia, e rinunciò a tenere una flotta nel Mar Egeo. Ormai la Grecia non aveva più nulla da temere dalla Persia: dopo oltre 40 anni di durissime lotte, la sua civiltà era salva, viva e vitale, e pronta (purtroppo per poco) ad esprimere il meglio di sé, prima di sprofondare nuovamente nel caos della guerra.

(maggio 2017)

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