I fattori economici della civiltà: lavoro, denaro e schiavitù
Il passaggio dalla Preistoria alla Storia è innescato da vari fattori; trattiamo in questo breve contributo alcuni di quelli economici

Quando termina la Preistoria e inizia la Storia propriamente detta? Convenzionalmente, si fa cominciare la Storia con l’avvento della scrittura, intorno al quarto millennio avanti Cristo, ma è una scelta per alcuni aspetti opinabile. Intanto, perché non tutte le civiltà antiche giungono a padroneggiare la scrittura nello stesso tempo, e alcune non lo faranno mai; inoltre, già molto prima delle più antiche tracce di scrittura abbiamo entità statali ben definite, per esempio nel Vicino Oriente o in India. In realtà, più della scrittura, a determinare il passaggio dalla «tribù» preistorica al «popolo» storico sono stati alcuni fattori economici già definiti tra il sesto e il quinto millennio avanti Cristo, e probabilmente anche prima.

Da sempre, le persone che fanno parte di una comunità, dipendono le une dalle altre: ognuno fornisce agli altri un particolare bene, e riceve in cambio altri beni di cui necessita. Nel Paleolitico, ogni membro della comunità acquisiva le conoscenze e le capacità per svolgere da solo tutte le attività che gli consentivano la sopravvivenza: sapeva costruire le armi per la caccia, seguire le tracce delle prede, cucirsi degli indumenti; la maggior parte del tempo era dedicata a procurarsi il cibo, che probabilmente non era mai troppo abbondante. Durante il Neolitico, la domesticazione degli animali e soprattutto l’avvento dell’agricoltura fornirono le prime eccedenze alimentari che consentirono di destinare ad altri lavori una parte dei membri della comunità (soprattutto perché le piante crescevano da sole con poche cure e non dovevi passare ore a inseguirle armato di zagaglia, come accadeva invece con gli animali). Una delle prime industrie, quella metallurgica, che richiedeva tempo e abilità, si sviluppò proprio quando gli agricoltori poterono «mantenere» gli operai, destinando una parte dei raccolti per sfamarli. Lavoratori dei metalli e lavoratori dei campi barattarono i rispettivi prodotti: tanti attrezzi in cambio di tanto grano, per esempio. Durante la Prima Guerra Mondiale, i soldati italiani e austriaci trovavano spesso il modo di «fraternizzare» e scambiarsi prodotti: poiché i nostri avevano cibo in abbondanza ma poco tabacco e gli Asburgici molto tabacco ma poco cibo, si facevano frequenti scambi di cibo con tabacco e viceversa. Questo poteva però generare delle incomprensioni: per esempio – torniamo alla Preistoria –, quante pelli di bisonte ci volevano per avere in cambio punte di lancia con cui quegli stessi bisonti dovevano essere abbattuti? Inoltre, col passare del tempo, la società diveniva più complessa e gli scambi dovevano specializzarsi. Fu necessario trovare un mezzo di cambio che andasse bene per tutti, e così fu inventato il denaro.

Il denaro è, prima di tutto, una comodità. Se immaginiamo di aver bisogno di alcuni bottoni e di avere soltanto mele da dare in cambio, dovremmo trovare qualcuno che abbia bottoni da cedere e che voglia le mele. Scambi come questi sarebbero oggi impensabili, ma lo erano già al tempo delle prime città (settimo o sesto millennio avanti Cristo), se non addirittura al tempo dei grandi villaggi. Il denaro, svincolando l’azione del comperare da quella del vendere, risolve tutti i problemi: chi compera i bottoni dà del denaro al merciaio il quale, con quel denaro, può comperare ciò che vuole e quando vuole. Il merciaio accetta il denaro perché sa che anche gli altri lo accetteranno da lui. Così, il contadino dà del denaro al merciaio per acquistare dei bottoni; questi passa lo stesso denaro al cartolaio per una penna; il cartolaio utilizza questo denaro per comperare delle mele dal contadino – la compravendita è una sorta di «linea chiusa», in cui il denaro, circolando, dà a chiunque la possibilità di soddisfare le proprie esigenze. I Romani avevano già capito che in una società il denaro non deve essere tesaurizzato, ma circolare il più possibile, perché circolando produce ricchezza. Il denaro non ha valore in se stesso, ma solo perché tutti sono d’accordo sul fatto che ne abbia.

Qualunque cosa abbastanza rara o accettata da tutti può essere usata come denaro. Gli Indiani d’America commerciavano con perline, i Vichinghi con conchiglie verdi, gli Aztechi con chicchi di cacao (piacevano a tutti e non si faceva fatica a trasportarli), il Faraone pagò i suoi operai con misure d’orzo per la maggior parte della storia dell’antico Egitto, e durante la Seconda Guerra Mondiale si poteva comperare qualunque cosa con le sigarette, perché queste erano rare e molto richieste. Tuttavia, fin dai tempi più antichi il metallo si dimostrò il materiale più adatto per diventare denaro: era inalterabile e facile da trasportare, e poteva anche venire adibito a una grande varietà di usi, per fare attrezzi, armi, recipienti e gioielli. L’oro, soprattutto, era raro e bello allo sguardo, inoltre era duro ma insieme malleabile (mordendolo, resta impressa l’impronta dei denti). Il denaro non fa girare il mondo, ma quasi: esso consente a ogni persona di fare un lavoro diverso e permette quella suddivisione e specializzazione dei compiti che è la struttura portante della civiltà come noi la intendiamo.

Con la specializzazione nei vari lavori, la produttività aumentò e una comunità poté vendere ad altre comunità ciò che produceva in eccesso, divenendo più ricca. Quanto più numerose erano le braccia che lavoravano, tanto maggiore era la produzione: il lavoro doveva costare il meno possibile e rendere al massimo. Come aveva imparato a sfruttare gli animali da soma, così l’uomo imparò a sfruttare i suoi simili, e nacque la schiavitù. Uno schiavo apparteneva completamente al suo padrone, era privo di ogni diritto e costretto a lavorare senza salario; se si ammalava, spesso veniva lasciato morire e rimpiazzato con un altro, perché spendere denaro per guarirlo costava più di acquistarne uno nuovo (viceversa, se era un bue ad ammalarsi, si faceva di tutto per salvarlo). I primi schiavi appartenevano probabilmente a comunità sottomesse con la forza delle armi, ma anche i criminali o la gente che non pagava i debiti poteva essere ridotta in schiavitù; un debitore poteva perfino vendere la moglie e i figli per pagare i debiti (questa situazione è documentata anche nella Bibbia, e lo stesso Gesù la inserisce in alcune parabole).

Erano braccia di schiavi quelle che costruirono le città della Mesopotamia, che innalzarono i templi e le piramidi egizie, che furono incatenate ai remi delle navi greche e romane. Nell’antica Atene, che per noi è l’emblema della libertà, c’erano 40.000 cittadini maschi adulti (la maggior parte con moglie e figli) e 90.000 schiavi d’ambo i sessi (compresi 10.000 schiavi bambini); a Sparta, nello stesso periodo, vivevano 12.000 uomini liberi, 84.000 uomini liberi ma senza diritto di voto e una massa di 192.000 schiavi trattati nel modo più duro. Lo sfruttamento della schiavitù raggiunse l’apice nella Roma Imperiale, e continuò a sopravvivere per secoli. Ancora nel Medioevo il servo della gleba non aveva molti più diritti dello schiavo romano. Questo provocò in alcuni casi un «ristagno» delle innovazioni tecnologiche legate all’economia: il mulino ad acqua, per esempio, era già noto agli antichi Romani, ma esso divenne di largo impiego nel Medioevo perché il grande numero di schiavi a Roma ne rendeva inutile l’utilizzo. L’abolizione della schiavitù è una conquista abbastanza recente della civiltà; tuttavia vi sono Paesi dove la schiavitù è istituzionalizzata o tollerata (come la Cina e i Paesi Islamici), e anche in Italia vi sono persone tenute nella condizione di schiavi, basti pensare ai braccianti agricoli o a quei lavoratori costretti a spostarsi da una parte all’altra della Penisola – abbandonando moglie e figli per mesi – per non perdere il posto di un lavoro spesso mal pagato.

Questo ci porta a una digressione sull’assurda e per molti aspetti anacronistica «guerra iconoclastica» scoppiata negli Stati Uniti a seguito di alcuni atti di brutalità nei confronti di afro-americani o latino-americani da parte di esponenti delle forze dell’ordine, con l’abbattimento di statue di schiavisti, razzisti, omofobi (talvolta condannati dalla furia popolare solo per aver espresso delle semplici opinioni, in spregio al fatto che la libertà di opinione è tutelata dalla Costituzione, non solo americana). In Italia, lo strascico delle proteste ha portato al deturpamento della statua di Indro Montanelli da parte di un sedicente «collettivo studentesco». Ma ben poche persone si salverebbero, seguendo questo metro di giudizio. Se Indro Montanelli è colpevole di essersi comprato una moglie africana di soli 12 anni quando lui ne aveva 25, che cosa dovremmo dire di Gauguin, che ha combinato un matrimonio con una ragazzina tahitiana di 13 anni, quando lui ne aveva 43 ed era già sposato con una donna europea? O di Picasso, che aveva l’abitudine di sedurre le sue modelle, utilizzarle come oggetto di piacere sessuale e poi abbandonarle (tutte le sue modelle sono morte suicide o impazzite)? O di Einstein, che si è sposato solo per bloccare la carriera lavorativa della moglie, di cui aveva intuito la straordinaria intelligenza (e che la trattò come fosse una semplice domestica)? Persino Gandhi non si sottrarrebbe ai loro strali: il «campione» della non-violenza era profondamente razzista nei confronti dei neri in Sud Africa, chiamandoli con il termine spregiativo di «Kaffir» e definendoli «non civilizzati, sono fastidiosi, sporchi e vivono quasi come animali». Perché prendersela con Cristoforo Colombo, che non diede mai il permesso di perseguitare gli indigeni americani né di imbrogliarli scambiando perline di vetro con oro (i massacri avvennero in sua assenza e per la quasi totalità dopo la sua morte, a opera degli Spagnoli e più tardi dei Portoghesi), e non con Voltaire, che con il commercio degli schiavi si arricchì? Per tacere di tutti coloro che la storiografia francese definisce «illustri devastatori di province», ovvero i vari Generali e condottieri. Perché questi «paladini» del «retto» pensiero, invece di abbattere statue, non fanno nulla – per esempio – per impedire la tratta delle «spose bambine» in Africa, in India o nei Paesi del Medio Oriente?

Il vero problema non è dividere i «buoni» dai «cattivi», sempre che ciò sia possibile, ma è evitare di giudicare i fatti e i personaggi del passato con le categorie etiche del presente. La schiavitù era un fatto comune e potremmo dire «essenziale» a tutti i popoli dell’antichità, grandi o piccoli, perché la loro economia agricola (ma anche pastorale) abbisognava di un gran numero di braccia che traessero dalla terra il maggior prodotto possibile, e ciò richiedeva sforzi immensi; uno schiavo istruito poteva diventare un retore, un grammatico, presso alcuni popoli aspirare a tornare un uomo libero. Questo li rende tutti colpevoli? Gli antichi Egizi erano il popolo più razzista dell’antichità: questo ci autorizza forse a demolire tutti i loro monumenti e le loro statue?

Studiare la storia significa anche mettere ogni cosa nel suo contesto sociale e culturale: non per assolvere o condannare, ma per capire. Per usare il cervello, al di là dei proclami ideologici... purtroppo, sembra che pensare sia troppo faticoso per molte persone.

(agosto 2020)

Tag: Simone Valtorta, fattori economici della civiltà, lavoro, denaro, schiavitù, passaggio dalla Preistoria alla Storia, avvento della scrittura, Neolitico, domesticazione degli animali, agricoltura, metallurgia, Bibbia, schiavi, guerra iconoclastica, Indro Montanelli, Cristoforo Colombo.