Diogene, un filosofo... «cane»
Un uomo sarcastico, le cui idee hanno avuto – e continuano ad avere – un certo influsso nella società contemporanea

Che cos’hanno in comune i «figli dei fiori» e gli «Hippy» degli anni Sessanta, i «naturisti» degli anni Ottanta, i «pro-eutanasia» di oggi (e altri)? Forse non molto, si potrebbe pensare a prima vista. Invece tutti loro si rifanno a un filosofo vissuto oltre 2.300 anni fa, le cui idee travalicarono l’abisso dei secoli giungendo fino a noi, a dimostrazione di quanto lo studio del passato sia necessario alla comprensione del presente, in quanto le nostre idee e la nostra visione del mondo non sono nate in noi in modo autonomo, ma sono la somma di tutto ciò che ci ha preceduto. Questo filosofo era Diogene, detto il Cane.

Diogene era nativo di Sinope, nel Ponto (una parte dell’odierna Turchia), nel IV secolo avanti Cristo. Era stato ricco, poi aveva fatto bancarotta e si era ridotto a vivere di elemosine. Da giovane fu catturato da alcuni pirati e venduto come schiavo; ebbe la fortuna di essere acquistato da un uomo ricco e amante della cultura, Xeniade di Corinto, che non solo lo trattò «umanamente», lasciandogli ampia libertà di movimento, ma lo nominò precettore dei suoi figli e direttore della sua casa, accettando i suoi consigli in più di una situazione delicata.

Educato dal filosofo Antistene, Diogene veniva definito un «cane», nomignolo affibbiatogli perché non teneva in nessun conto il modo di pensare o di agire degli altri: sosteneva che ciò che conta veramente nella vita non sono le ricchezze materiali, le comodità, la carriera, ma i valori spirituali, come l’avere la coscienza a posto, il non aver fatto del male ad alcuno e il vivere una vita propria, senza condizionamento da parte di altre persone; rifiutava di riconoscere le leggi e si vantava di essere un cosmopolita, un «cittadino del mondo». La povertà non lo spaventava, era anzi convinto che tutti gli uomini sono uguali, capaci allo stesso modo di compiere azioni valorose così come di macchiarsi di crimini orrendi, e tutti possono essere saziati dal pezzo di pane nero che formava il suo nutrimento quotidiano. Il resto non era altro che schiavitù portata dalla ricchezza e dall’egoismo di prevalere sul prossimo.

Perché i suoi insegnamenti fossero chiaramente leggibili nella sua vita, Diogene scelse una vecchia botte posta nel cortile del tempio di Cibele ad Atene dove metter su casa: un po’ di paglia, una brocca per l’acqua (unica sua bevanda), uno straccio per coprirsi, e si definiva il più felice dei mortali. Un giorno, vedendo un bambino che beveva nel cavo della mano, gettò via la propria tazza (questo episodio è ricordato anche nel Corano, ma lo si attribuisce a Gesù; è probabile che Maometto abbia confuso i due personaggi). Diogene non teneva in grande considerazione gli dèi e considerava come lo studio della natura non dovesse essere inteso a spiegare il mondo – cosa che riteneva impossibile – ma a imparare la saggezza della natura come guida nella vita. Il raggiungimento della felicità stava nella vita semplice e naturale, il più possibile indipendente da tutti gli aiuti esterni (tentò persino di mangiare la carne cruda, perché la cottura non gli sembrava naturale): Diogene compiva i doveri della natura e i riti dell’amore sotto gli occhi di tutti, odiava le donne e gli uomini effeminati – però proteggeva le prostitute, predicava l’amore libero perché era un appetito naturale e considerava legittimo il suicidio, in quanto anche nella morte un uomo aveva diritto alla sua indipendenza, libero di scegliere a suo piacimento luogo e momento (come i favorevoli all’eutanasia). Questo «ritorno alla natura» era un movimento sorto già nell’Atene del V secolo, come reazione alla civilizzazione con tutte le sue regole, convenzioni e... costrizioni. Diogene si compiaceva della propria fama e della propria pratica della virtù: questa – la virtù – doveva essere considerata come premio a se stessa e non doveva fondarsi sull’esistenza della giustizia o degli dèi (in questo senso, anticipò il pensiero di Locke di circa 1.000 anni). I suoi scolari e seguaci vennero soprannominati «cinici», cioè «seguaci del cane», e fecero della povertà una regola, vivendo di elemosine e insegnando e dormendo nelle strade o sotto i portici dei templi. Oggi la parola «cinico» è sinonimo di «disincantato», di «insensibile», di chi disprezza tutto in modo beffardo: i cinici rifiutavano ogni tipo di limitazione, ritenendo la civilizzazione un errore e pretendendo di poter vivere come gli animali. La loro dottrina formò le basi dello Stoicismo e forse influenzò gli Esseni della Giudea, i monaci cristiani dell’Egitto e simili movimenti in India, fino ai «naturisti» e simili di oggi.

Molti erano coloro che si recavano a trovare il filosofo solitario nella botte, anche a costo di rimanere con la bocca amara per le risposte secche e scorbutiche che ricevevano. Diogene sosteneva che il bene più grande è la libertà di parola, e di questa si serviva con larghezza, sostenendola con un grezzo umorismo e uno spirito arguto. A un uomo che gli domandava quale fosse l’ora migliore per mangiare, rispose: «Se sei ricco, quando vuoi. Se sei povero, quando puoi». A una donna, che si prostrava con la fronte nella polvere davanti a un’immagine sacra, disse con rimprovero: «Non temi di tenere un atteggiamento indecente nel caso che qualche divinità ti sia alle spalle, dato che esse sono numerose in ogni luogo?». Tra i vari visitatori non mancò neppure Alessandro di Macedonia, il futuro Alessandro Magno, in procinto di partire (correva l’anno 334 avanti Cristo) per la spedizione contro la Persia.

Alessandro e Diogene

Gaetano Gandolfi, Alessandro e Diogene, 1792, Collezione privata

Diogene era dentro la sua botte: si vedeva solo la sua testa arruffata appoggiata a una mano. Alessandro si avvicinò fino a pochi passi di distanza e si fermò, sperando che il filosofo si sarebbe deciso a rivolgergli la parola. Ma quello non fece neppure finta di essersi accorto della presenza dello straniero, continuando a seguire il filo dei propri pensieri.

Dopo un po’, Alessandro tossicchiò impaziente... Nulla. «Diogene» disse infine, «mi hanno narrato della tua sapienza...».

«L’unica sapienza è quella di bastare a se stessi senza desiderare ciò che non è necessario» lo interruppe l’altro, volgendo appena il capo.

«Ah... sai che ho sentito molto parlare di te?».

«Davvero? E io ti assicuro che il parlare molto mi dà fastidio».

«Vedo che sei sistemato molto miseramente».

«Ho quello che mi basta e non cerco altro».

«Quando piove, l’acqua gocciolerà attraverso le fessure di questo otre marcito».

«Mi risparmia la fatica di lavarmi... Che cosa vuoi di più?».

«Io sono Alessandro... comando su di un grande Regno. Posso fare qualche cosa per te?».

«Certo... e molto, anche».

«Dimmi... vedrai che sarà fatto».

«Non ti agitare tanto... Basterà che ti sposti di qualche passo... Mi fai ombra e senza il mio sole sono tremendamente infreddolito».

Alessandro, il cui volto si era dapprima illuminato, nella speranza di acquisire rinomanza concedendo qualche importante favore al filosofo, di fronte a quella risposta si tirò bruscamente da parte e il sole tornò a inondare i lineamenti di Diogene, che riprese senz’altro la sua posizione assorta, senza più curarsi del suo visitatore.

Alessandro non si indispettì: fece dietro-front, raggiunse la sua scorta e montò a cavallo.

«Ebbene, signore, com’è andata?» domandò uno del seguito.

«Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene» fu la risposta del Re, mentre dava di sprone al cavallo. Ma, permettetemi, sapendo bene quanto il Sovrano fosse un «gaudente», a queste sue parole non do troppo credito.

Alessandro e Diogene morirono lo stesso giorno dell’anno 323 avanti Cristo: il grande filosofo spirò a Corinto (secondo alcuni, trattenendo il respiro), più che novantenne. Sulla sua tomba, i Corinzi posero un cane di marmo.

(novembre 2018)

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