Anfione: un mito plurimillenario
Etica e bellezza nell’impegno per il progresso umano: il ruolo della pietra

Il mondo minerale è per definizione inanimato, ma ogni regola ha le sue brave eccezioni. Per dirne una, nelle novelle di Leonardo da Vinci si possono incontrare pietre parlanti sino al punto di esprimere riflessioni filosofiche sulla caducità delle cose mondane, mentre nell’antica reminiscenza di Anfione, presente anche nella Divina Commedia (Inferno, canto XXXII, 10-12), quando Dante invoca le Muse onde concedano alla sua poesia la stessa forza trainante che avevano voluto infondere alla cetra dell’aedo tebano, si assiste al prodigio di pietre che si muovono da sole scendendo dal monte Citerone per formare le mura della celebre città ellenica: sospinte non già dalla mano dell’uomo, ma dal suono che i Numi avevano ispirato a un artista davvero straordinario, tanto da sovvertire le leggi elementari della natura.

La filosofia medievale avrebbe posto in luce che uomini e donne sono tanto diversi fra loro, alla stregua del rispettivo grado di volontà (concetto di Giovanni Duns Scoto che in tempi moderni è stato ripreso e sviluppato da Benedetto Croce), ma avrebbe potuto aggiungere che la forza dell’impegno etico e volitivo si coniuga utilmente con quella del bello, come emerge dal mito dell’antico artista figlio di Zeus, e dalla storia della sua cetra.

Anfione è una figura mitologica, ma fruisce di una tradizione orale che trova spazio nella poesia di Omero, di Orazio e di Properzio, e nella fama di essere stato il maestro inventore della musica (ispirata dall’insegnamento di Ermes) nonché fondatore e governatore di Tebe, talmente versato nella sensibilità artistica da imporre alle pietre di staccarsi dal giacimento in cui avevano dimora da tempi immemorabili, per diventare strumento di civiltà e di aggregazione sociale. Si tratta di un evento talmente straordinario da avere lasciato traccia duratura sia nella letteratura antica che in quella dantesca, ma persino nell’opera di Erasmo da Rotterdam, che ne ha fatto menzione nel celebre Elogio della pazzia (capitolo XXVI, Utilità di certe favole).

Il carattere simbolico della pietra come mezzo di espressione spirituale, e quindi umana, è presente con forti ricorrenze nel Vecchio, e soprattutto nel Nuovo Testamento, derivando motivi di ulteriore credibilità, e si potrebbe dire di popolarità, proprio dal mito, quasi a sottolinearne la costante presenza in una coscienza universale che prescinde da ogni limite di spazio e di tempo. La pietra che si muove sospinta dalla musica è un paradosso suggestivo, assimilabile a quello del suonatore di Hamelin (di cui alla nota favola del Trecento Germanico poi ripresa dai fratelli Grimm): anch’egli così bravo da snidare i topi dalle loro tane e da farli miseramente naufragare nel fiume con il solo ausilio del suo piffero, e con grande sollievo della salute pubblica, ma pur sempre a un livello inferiore rispetto ad Anfione, che faceva camminare cose inanimate, quali le pietre.

Nell’inconscio collettivo e nella compiuta coscienza culturale del popolo, il materiale lapideo, antico come nessun altro e parte costitutiva largamente maggioritaria della Terra e di altri pianeti, è in grado di parlare al cuore e alla mente con un linguaggio scabro ed essenziale, ma proprio per questo autentico. Del resto, come da ripetute testimonianze evangeliche, anche Cristo ricorre all’esempio della pietra in tante occasioni di predicazione e d’insegnamento, come nel celebre passo dell’adultera, o nella scultorea immagine della Chiesa intesa come pietra angolare, per non dire della macina da mulino da mettere al collo di chi scandalizza i bambini, per essere gettato finalmente a mare.

Quella della pietra è «vox media» che parla attraverso la forza ma non disgiunta dalla bellezza, come nel mito di Anfione, e sembra idonea ad avere un lungo avvenire: non è forse vero che il primo altare della storia, realizzato da Mosè come da narrazione biblica, era stato realizzato in pietra? Non è forse vero che nel Rinascimento Italiano l’Abate Agostino Del Riccio volle dimostrare come le statue di marmo abbiano un’anima, tanto che Goethe, due secoli dopo, ha completato il concetto evidenziando che le pietre antiche si devono ammirare e ascoltare in quanto testimoni di storia? Non è forse vero che il Comune di Firenze, durante il secondo dopoguerra, decise – con provvedimento d’emergenza – di riaprire momentaneamente le vecchissime cave situate nel Giardino di Boboli per estrarne il pietrame destinato alla ricostruzione dei ponti sull’Arno o alle tombe provvisorie che la «pietas» cittadina aveva allocato nel Parco dei Semplici? Poi, è altrettanto vero che un operaio e poeta del marmo, sensibile all’arte e al richiamo della Musa non meno che al ruolo sociale del settore, sostenne nella medesima epoca come i cavatori delle Alpi Apuane – e non solo quelli – siano «creditori di anima agli occhi del mondo» (Luciano Casella, Umanità e cultura dei cavatori apuani, La Nuova Europa Editrice, Carrara 1950).

A questi esempi di varia natura, contraddistinti da un valore comune come quello di valori culturali e spirituali promossi dalla pietra, tanti altri potrebbero essere aggiunti, ma non è questo il punto. Caso mai, basti sottolineare, come è stato dimostrato da Stefano Zecchi, il noto filosofo contemporaneo, che il buono e il bello sono in grado di coesistere alacremente e costruttivamente in una sinergia che – aggiungiamo noi – trova momenti di particolare significato proprio nella pietra e per mezzo della pietra, con rinnovati impegni alla riflessione per uomini e donne di buona volontà.

(novembre 2018)

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