Waterloo duecento anni dopo
Alcune interessanti considerazioni sul fascino esercitato da un grande personaggio e da tutto quello che rappresentò

La fine dell’avventura napoleonica, od epopea che dir si voglia secondo le preferenze ideologiche, è stata oggetto dei classici fiumi d’inchiostro: il fenomeno non accenna ad esaurirsi, nonostante lo scorrere del tempo, a dimostrazione del fascino che l’Aquila imperiale continua ad esercitare nella fantasia popolare, ancor prima che fra gli addetti ai lavori. Oggi, ricorrendo i duecento anni dal fatale appuntamento di Waterloo, conviene limitarsi a qualche considerazione per quanto possibile oggettiva, nell’auspicio di Tacito e nell’ottica manzoniana.

Il grande storico latino ha raccomandato che il vero giudizio storico deve prescindere dalle suggestioni e dalle interpretazioni di parte, mentre Alessandro Manzoni, molto attento alla figura di Bonaparte in chiave etica e politica oltre che letteraria, si chiese, come tutti sanno, se quella di Napoleone fu vera gloria, rinviando ai posteri un giudizio definitivo, ma forgiando una risposta personale piuttosto chiara nel momento in cui riconobbe a Dio il disegno di conferire all’Imperatore una più «vasta orma» dello Spirito creatore.

Waterloo attesta che nessuno è invincibile, e che i grandi combattenti non fanno eccezione: era già accaduto ai tempi del mito con Achille e si sarebbe ripetuto nella storia, in continua e variegata ricorrenza. Basti pensare alle legioni romane distrutte dai barbari od alla fagocitazione della forza militare tedesca nelle due Guerre Mondiali: Napoleone non è stato immune dalla nemesi, anche se la sua ultima battaglia ebbe un esito lungamente incerto, risolvendosi nel disastro conclusivo per una serie di circostanze negative, alcune delle quali casuali, a dimostrazione dell’antico assunto secondo cui tante vittorie sul campo possono concludersi col perdere la guerra.

Diversamente da tanti condottieri di eserciti e di Stati, quella di Napoleone resta un’eccezione significativa perché nel suo caso non è sopraggiunta la «damnatio» della memoria che accomuna tanti suoi predecessori e successori. Le ragioni di questo straordinario riguardo della Storia sono diverse, ma le principali possono essere riassunte nel forte carisma del personaggio, nella capacità di rischiare con azioni genialmente folgoranti, nella singolare vicenda che lo vide «due volte nella polvere e due volte sull’altare» ma soprattutto nell’avere lasciato un segno imperituro in Europa e nel mondo, grazie alla diffusione di un’idea rivoluzionaria come quella di nazionalità, corollario della libertà.

In questa ottica, non può sorprendere se nella gelida notte del 15 dicembre 1840, quando le ceneri di Napoleone tornarono finalmente in patria risalendo la Senna per giungere all’ultima dimora degli Invalidi, migliaia di reduci della Grande Armata sfidarono un tempo orribile, talvolta a costo della vita, pur di dare l’estremo saluto al loro Imperatore. Tanto meno, può sorprendere che gli eredi del Bonaparte abbiano continuato ad esercitare un ruolo attivo nella Francia dell’Ottocento, non soltanto nella lunga ed infelice esperienza di Napoleone III; che le celebrazioni napoleoniche siano sempre caratterizzate da un ampio concorso popolare; e che le genuflessioni davanti al monolite di granito rosso della Corsica che racchiude le spoglie di Napoleone siano all’ordine del giorno, senza dire di tanti ardui pellegrinaggi a Sant’Elena.

Considerazioni analoghe si possono fare per i Cento Giorni. Dopo la fuga dall’Elba, l’Orco divenne nuovamente e rapidamente Imperatore a seguito di una cavalcata trionfale che lo vide sfidare con successo le forze legittimiste inviate contro di lui, offrendo il petto al fucile borbonico ma ricevendo un abbraccio ed una proliferazione di consensi davvero plebiscitaria (come dopo un secolo fece Gabriele d’Annunzio in occasione della Marcia di Ronchi): il seguito avrebbe portato a Waterloo, ma quella fu la conferma di un carisma che trascendeva ogni pur palese difficoltà politica e militare.

Quanto all’Italia, è incontestabile che debba molto a Napoleone, nel bene e nel male. Il difficile processo unitario, protrattosi in tempi lunghi dopo Waterloo, sarebbe stato ancora più lento se non avesse trovato nelle nuove idee motivi di crescenti condivisioni, sia pure elitarie; tuttavia, non è possibile dimenticare che a Bonaparte si deve la cancellazione di Stati sovrani come le Repubbliche di Genova, e soprattutto di Venezia, senza dire delle vittime italiane di tante campagne, a cominciare da quella di Russia, dove la Grande Armata conobbe una sconfitta che si sarebbe rivelata decisiva, non tanto ad opera del nemico quanto del «Generale Inverno».

Napoleone non fu uomo di troppi scrupoli, sia nella vita politica che in quella privata, anche se Manzoni volle celebrarne il crepuscolo all’insegna della fede capace di vincere ogni «superba altezza». Il rapimento e l’uccisione del duca d’Enghien sono una pagina nera che continua a pesare nel giudizio storico, anche se l’Antico Regime aveva colpe non meno importanti da farsi perdonare; ed il ripudio di Giuseppina, sia pure imposto dalla Ragione di Stato, al pari del trattamento riservato a Maria Walewska assieme al figlio avuto da Napoleone (che sarebbe diventato ambasciatore a Londra), dimostrano, nella migliore delle ipotesi, che Bonaparte fu costretto ad una drammatica subalternità del momento privato nei confronti del pubblico. A Sant’Elena, naturalmente, fu tutto diverso, come attestano gli strazianti ricordi personali, in primo luogo del Re di Roma, l’infelice «Aiglon» destinato ad una fine triste e prematura; ma non c’era più tempo né modo per esorcizzarli.

Duecento anni dopo Waterloo, l’Aquila è più viva che mai, confermando che nella Storia il ruolo dei pochi protagonisti veramente grandi non è inferiore a quello dei popoli; anzi, che la stessa maturazione di nuovi principi «immortali» come quelli di libertà ed uguaglianza promossi dalla grande Rivoluzione è in grado di trovare forti accelerazioni in una «leadership» accettata da una maggioranza pronta a battersi per un’idea largamente condivisa in un contesto etico ancor prima che politico.

(agosto 2015)

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