Cinque maggio 2021: due secoli dopo Napoleone
Ombre e luci perenni di una vita inimitabile

Nella celebre ode scritta non appena pervenne la notizia della morte di Napoleone avvenuta da parecchie settimane nella remota isola di Sant’Elena due secoli or sono, Alessandro Manzoni si chiedeva se quella di Bonaparte fosse stata vera gloria: nell’incertezza, rinviava «ai posteri l’ardua sentenza». Da allora, sono passati oltre 73.000 giorni, ma non sono stati sufficienti a rispondere in maniera definitiva a tale impegnativa domanda, che difficilmente potrà ottenere risposta probatoria: alla stregua di quanto è stato ricordato durante le celebrazioni del bicentenario, come nella testimonianza di Alessandro Barbero, vale il primo giudizio che il poeta e scrittore italiano aveva dato a proposito dell’Imperatore, quale oggetto di odio «inestinguibile» e di amore «indomato». Ovvero, «segno d’immensa invidia e di pietà profonda».

Nel dicembre del 1840, quando il vascello che riportava a Parigi le spoglie mortali di Napoleone risaliva lentamente la Senna, migliaia di reduci della «Grande Armata» erano sulle rive del fiume per dare l’ultimo saluto al loro Imperatore che tornava in terra di Francia per trovare definitiva e degna sepoltura nel tempio degli Invalidi. Ebbene, non pochi di loro gli fecero omaggio della propria vita non meno dei caduti di cento battaglie: in una lunga notte, avevano sfidato la neve e il freddo intenso, con esiti fatali per i più anziani, alcuni dei quali si trovavano in condizioni di salute già compromessa dai postumi delle vecchie guerre. Ecco un’indiscutibile prova d’amore.

Contestualmente, la Santa Alleanza, sebbene il suo oltranzismo reazionario fosse stato mitigato almeno in Francia dall’avvento della Monarchia Orleanista dopo la caduta di Carlo X di Borbone avvenuta con le «trois glorieuses» del 1830, continuava il suo pervicace impegno in difesa dell’assolutismo, in opposizione al nuovo verbo delle nazionalità che le conquiste del Generale Bonaparte avevano diffuso, suo malgrado, in buona parte d’Europa. L’odio nei confronti dell’usurpatore continuava, soprattutto per opera dei nemici storici (Russia, Austria e Confederazione Germanica) che non potevano perdonargli la colpa, sia pure involontaria, di avere trasferito quasi dovunque i valori della Rivoluzione, reali o meno che fossero. Alla diffusione di tale odio contribuiva, sia pure strumentalmente, il ricordo dei troppi caduti nelle tante guerre combattute durante il ventennio napoleonico, a cominciare da quella di Russia e dagli allucinanti episodi della ritirata che vide la quasi totale distruzione della «Grande Armée», magistralmente descritti nell’opera quasi contemporanea di Philippe Paul de Sègur, dapprima ufficiale al seguito di Bonaparte, e poi diplomatico, storico e uomo di cultura.

L’esistenza di giudizi tanto antitetici che, sia pure nell’ambito di una storiografia naturalmente più matura, continuano anche a distanza di due secoli, non esime dal presumere che entrambe le interpretazioni, oggettivamente massimaliste, non possano e non debbano essere sublimate in un quadro oggettivo conforme all’antica lezione di Tacito secondo cui «chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio» pur dovendosi parimenti rammentare il pertinente giudizio del poeta inglese Thomas Gray, secondo cui «le vie della gloria conducono solo alla tomba» come da suggello posto alla celebre Elegy written in a country churchyard.

Oggi, trascorsi due secoli dalla scomparsa di Napoleone, e dopo un lungo profluvio di commenti, la riserva manzoniana circa il rinvio a tempi migliori di verdetti conclusivi deve essere interpretata anche alla luce del pensiero di Benedetto Croce: la storia presume costanti ricerche, approfondimenti e rinnovate valutazioni integrative se non anche revisioniste.

In tutta sintesi, non è dato sapere se quella di Bonaparte fu vera gloria anche in senso etico, ma sta di fatto che l’autenticità di questa gloria dovrebbe essere meglio definita, non già nella sede poetica quanto in quella scientificamente autentica: se non altro perché la fama dell’Imperatore, nel bene e nel male, rimane indiscutibile, e destinata a durare nei secoli. Certamente, resta tale quella del suo genio militare, dimostrata a Tolone, a Marengo, al sole di Austerlitz e via dicendo, oltre che attestata dalla singolare e pervicace fedeltà dei suoi uomini, dai Generali agli ultimi fantaccini, non solo nei tempi della fortuna, ma a più forte ragione, in quelli della disavventura, come accadde nel «cortile degli addii» di Fontainebleau, prima dell’esilio all’Elba, o sulla via del ritorno a Parigi, nell’abbraccio col Maresciallo dell’Impero Michel Ney, che il legittimismo della Restaurazione avrebbe condannato alla pena capitale come traditore, ma il cui monumento funebre di Père Lachaise è oggetto di permanenti omaggi: se non altro, per essere stato lo stesso Ney a impartire l’ordine di fuoco al plotone d’esecuzione.

Un esempio assai noto di segno opposto è quello riguardante la cattura di Luigi Antonio Enrico di Borbone, Duca d’Enghien, avvenuta in territorio estero al momento neutrale, e la sua conseguente fucilazione nel fossato di Vincennes (1804). La sentenza era stata pronunciata a seguito di un rapido processo davanti a un improvvisato tribunale militare, per la falsa accusa di complotto mirante al rovesciamento del nuovo regime: cosa che valse una riprovazione generale del comportamento bonapartista, destinata a produrre effetti duraturi negli ambienti dell’opposizione francese, e soprattutto di quella internazionale.

A due secoli dalla scomparsa di Napoleone il meno che si possa dire è che senza il suo apporto la storia d’Europa, e quella del mondo intero, sarebbero state profondamente diverse, se non altro perché il principio di nazionalità avrebbe trovato ostacoli maggiori durante l’Ottocento, a tutto vantaggio dell’assolutismo. Contestualmente, non è possibile dimenticare il contributo decisivo del sistema napoleonico all’instaurazione (col celebre Codice) di un ordine giuridico più moderno, conforme agli auspici che erano stati propri dell’Illuminismo, ma nello stesso tempo, dei sogni egualitari della Rivoluzione, se non altro nelle sue espressioni migliori, e come tali più accettabili universalmente. Infine, non deve essere ignorata l’accelerazione dello sviluppo economico, non esclusi i primi conati industriali, sia pure al servizio di prioritarie esigenze belliche.

L’esperienza di un uomo senza pari come Napoleone, tanto da far dire al Manzoni di non poter nemmeno pensare al tempo che sarebbe stato necessario per vedere «una simile orma di piè mortale» idonea a «calpestare la cruenta polvere» del mondo, ha corroborato due interpretazioni antitetiche della storia. Da una parte, emerge quella delle «élites» socio-politiche mentre dall’altra si propone quella «popolare» secondo cui sono le grandi masse a conferire indirizzi decisivi alle «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria: ebbene, ancora una volta la verità si colloca a mezza strada, sia pure con diverse distanze secondo i momenti e le circostanze. In effetti, a Tolone l’intuito del giovane Bonaparte ebbe effetti decisivi, mentre in Russia ebbero il sopravvento l’attendismo del Generale Kutuzov, e naturalmente, il «Generale Inverno». Nel caso di specie, è innegabile che al genio militare di Bonaparte, integrato dallo straordinario carisma di cui si diceva, non avrebbero arriso risultati tanto importanti se non avesse avuto il supporto dei suoi uomini; e viceversa.

In questo senso, le tante interpretazioni di segno reciprocamente opposto, come quelle di Chateaubriand o di Sorel, pur motivate dai tempi in cui furono formulate, hanno bisogno di essere rivedute in un’ottica di maggiore oggettività come quella indotta dallo scorrere del tempo: non già per concessione a un relativismo immotivato, ma per una riflessione razionale non priva di reminiscenze hegeliane.

Conviene aggiungere che persino nella Santa Alleanza, con particolare riguardo all’atto finale del Congresso di Vienna, non mancarono aperture destinate a produrre cambiamenti determinanti, cui non fu estranea la propagazione di talune idee rivoluzionarie operata da Napoleone. In questo senso, un evento di rilievo prioritario fu l’abolizione della schiavitù, cui si pervenne per decisione unanime dopo l’abbattimento di talune opposizioni pervicaci: l’ultima fu perseguita per opera del Portogallo, geloso della sua gestione coloniale del Brasile basata proprio sullo schiavismo. Ciò dimostra che le nuove idee, sia pure fra tante difficoltà, erano destinate a prevalere.

Un altro dettaglio soltanto apparente riguarda la cosiddetta «italianità» di Napoleone, implicita nel fatto che la Corsica, sua terra nativa, appartenne formalmente a Genova sino a pochi mesi prima della nascita di Bonaparte ad Ajaccio (1769). La storia non si fa con le proposizioni ipotetiche e col chiedersi che cosa sarebbe accaduto se egli fosse stato Italiano anziché Francese, ma la supposizione resta degna di nota, se non altro alla luce del tradizionale patriottismo córso che aveva già trovato in Pasquale Paoli il vessillifero di una lunga battaglia indipendentista i cui effetti si sarebbero avvertiti a lungo: già dal 1755 era riuscito nell’intento di proclamare una Repubblica Córsa destinata a sopravvivere per circa 14 anni, affermandone l’autorità sulla maggior parte del territorio e insediando l’Università di Corte dove si insegnava in italiano: ciò, fino alla cessione dell’isola alla Francia, che ebbe rapidamente ragione di ogni resistenza. In realtà, Napoleone si rese perfetto interprete della mitica «grandeur» senza conservare rapporti di particolare rilievo col vecchio mondo isolano sin dalla prima esperienza giovanile del collegio di Brienne, salvo dimostrare attenzioni localistiche assai propositive durante il soggiorno forzato all’Elba cui non fu estranea l’origine nella vicina Corsica.

Conviene aggiungere che l’idea di considerare Napoleone Bonaparte alla stregua di un «Grande Italiano» è stata oggetto di convinzioni non effimere nella storiografia di riferimento. In tale ottica basti rammentare l’opera di Raffaele Ciampini inserita nella collana dei 50 Italiani eccellenti, da Scipione l’Africano a Guglielmo Marconi, che vide la luce all’inizio degli anni Quaranta: il noto storico toscano, illustre cattedratico della disciplina di Storia moderna all’Università di Firenze, aveva ravvisato tra i meriti fondamentali napoleonici quello di avere conferito a tanti popoli una vera e propria «dignità di Patria» allo stesso modo con cui il Rinascimento aveva promosso la «dignità dell’uomo». Nondimeno, nella sua qualità di esegeta del pensiero di Niccolò Tommaseo e del suo strazio per la fine della Serenissima Repubblica di Venezia, voluta proprio da Napoleone, il Ciampini non poteva dimenticare come il «Grande Italiano» si fosse reso responsabile di una colpa senza attenuanti tanto più grave, per l’appunto, alla luce della sua nazionalità originaria. Del resto, su questo tema si sarebbe espresso anche Vincenzo Gioberti, affermando che «la Corsica è sempre appartenuta moralmente e geograficamente all’Italia» e che «non ha mai fatto parte della Francia» dai tempi del diluvio sino a quelli «in cui nacque Napoleone».

A due secoli dal cinque maggio, si tratta di considerazioni che, essendo oggettivamente fondate, possono essere proposte alla comune riflessione, se non altro per valutare le origini di Bonaparte in un contesto senza confini perché il suo ruolo storico fu sostanzialmente sovranazionale.

Per tornare al Manzoni, va detto che non era uno storico, anche se nell’introduzione del suo maggiore romanzo ebbe il grande intuito di individuare nella storia una lotta perenne contro il tempo: definizione assai spesso pertinente, ma forse non altrettanto nel caso di Napoleone, troppo grande in ogni senso per poterlo dimenticare, diversamente da quanto è accaduto per altri grandi, o presunti tali. Comunque sia, almeno in Italia le alte conclusioni poetiche dello stesso Manzoni, e le sue convinzioni morali, hanno lasciato un segno duraturo soprattutto nella rivalutazione di un Napoleone solo davanti alla morte nel «tristo esiglio» e nella perfidia del lento avvelenamento da parte dei suoi assassini: la «coltrice» era effettivamente deserta nell’epilogo del Cinque Maggio, ma accanto a quell’uomo che «arbitro s’assise» in mezzo a «due secoli l’un contro l’altro armati» c’era una Presenza infinitamente superiore a quella di tutte le altre: quella del «Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola».


Bibliografia essenziale

Philippe Paul de Sègur, Histoire de Napoléon et de la Grande Armée pendant l’annèe 1812, Paris 1824. L’opera è disponibile nella traduzione italiana col titolo di Napoleone in Russia, 2 volumi, Rizzoli Editore, Milano 1950, 592 pagine

Raffaele Ciampini, Napoleone Buonaparte, in «I Grandi Italiani» (Collana di Biografie), Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 1940, 312 pagine (con otto tavole fuori testo e ampio specchio cronologico)

Guido Gerosa, Napoleone: un rivoluzionario alla conquista di un Impero, Mondadori Editore, Milano 1996, 562 pagine (con ampia bibliografia)

Alessandro Manzoni, Poesie e tragedie, a cura di Guido Bezzola, Rizzoli Editore, Milano 1961 (per l’ode Il Cinque Maggio confronta le pagine 89-94).

(giugno 2021)

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