Un Bonaparte inedito
Come Napoleone I costruì il suo mito oltre le battaglie e le conquiste

«Dopo il mio passaggio, l’Italia non era più la stessa nazione: la sottana, che era l’abito di moda per i giovani, fu sostituita dall’uniforme; invece di passare la loro vita ai piedi delle donne, frequentavano i maneggi, le sale d’armi, i campi militari; i bambini stessi iniziarono a giocare sul selciato con interi reggimenti di soldatini di stagno; indubbiamente dopo aver sentito raccontare in casa tra le mura domestiche dai loro padri, imitavano i fatti di guerra e le mie battaglie. E quelli che cadevano non erano più gli Italiani, ma gli Austriaci. Prima, nelle commedie e negli spettacoli di piazza, veniva sempre messo in scena qualche Italiano vile, anche se spiritoso, e di contro a lui un tipo di grosso soldato straniero, forte, coraggioso e brutale, che finiva sempre col bastonare l’Italiano, fra le risa e gli applausi degli spettatori. Anche se non c’era proprio niente da ridere, semmai da piangere. Orbene: il popolo italiano non tollerò più allusioni di questo genere; gli autori dovettero cambiare copione. Iniziarono ad inserire Italiani valorosi, che mettevano in fuga lo straniero, vi sostenevano il proprio onore, e il proprio diritto. Vi sembra poca cosa tutto questo? No! La coscienza nazionale era formata. E l’Italia ebbe per la prima volta i suoi canti guerreschi e gli inni patriottici».[1]

Non intendo incensare e neppure condannare queste frasi di Napoleone Bonaparte, ma presentarlo in una luce diversa; un uomo dallo spirito «patriottico», il quale visse il formarsi dell’identità nazionale italiana durante la prima Campagna d’Italia, attraverso le sue imprese militari; e che finì per infiammare lo spirito di nazionalità sopito nel resto del continente europeo, durante le sue numerose campagne militari. Ma di quale Europa è doveroso parlare? Sul piano legislativo esportò il codice napoleonico; sul piano nazionalistico in nuce le sue operazioni militari diedero il là alla formazione dell’«Europa delle nazioni».

A suo modo dunque il Bonaparte fu un «Mazzini ante litteram»?

A differenza di Mazzini, votato solo al sacrificio, egli fu assetato di potere e di gloria. Napoleone Bonaparte scrisse tuttavia, nel suo Memoriale a Sant’Elena, parole che debbono oggi suscitare una più accurata riflessione: «Abbiamo bisogno – scriveva – di una legge europea, di una Corte di Cassazione Europea, di un sistema monetario unico, di pesi e misure uguali, abbiamo bisogno delle stesse leggi per tutta l’Europa. Voglio fare di tutti i popoli europei un unico popolo… Ecco l’unica soluzione che mi piace».

Uno strano patriottismo, il suo, indubbiamente a doppio filo, che ricorda solo vagamente quello mazziniano, se non altro in queste frasi, ripensando alle indicazioni della «Giovine Italia» e, successivamente, della «Giovine Europa».

Vorrei quindi per un attimo dimenticare le battaglie del grande Generale Córso e riflettere su alcuni punti che ritengo essenziali.

Facciamo un salto storico, un balzo in avanti, ed andiamo al 1830. Napoleone è morto da nove anni e la rivoluzione di nuovo imperversa in Europa. Nel 1830 l’impronta rivoluzionaria fu, almeno in parte, ancora napoleonica, nel senso che non solo parteciparono ad essa i superstiti del Primo Impero, ma anche che vi influirono molto le idee napoleoniche.

Il problema non dobbiamo porlo necessariamente in un’ottica storiografica: la leggenda napoleonica diviene adesso motivo per la difesa e la liberazione dei popoli oppressi. Il Generale Córso viene concepito come il «Padre» delle nazioni, il Prometeo dell’Europa moderna. È un Napoleone, si direbbe, veduto attraverso Mazzini e Lamennais, il Napoleone di Mickiewcz e dei poeti polacchi. All’epoca gli storici non ebbero tempo di occuparsi nello specifico di Napoleone, piuttosto rivisitarono le sue gesta e le trasferirono nel loro tempo.

Ma chi, durante il Risorgimento, ha sempre presente il pensiero di Napoleone e, pur non dedicandogli studi speciali, non lascia passare occasione senza esprimere su di lui talora il proprio sdegno e talora la propria ammirazione, è Vincenzo Gioberti. Per lui naturalmente Napoleone è Italiano «perché – scriveva – la Corsica è sempre appartenuta moralmente e geograficamente all’Italia, e perché politicamente, che io mi sappia, non ha mai fatto parte della Francia, dal diluvio fino ai tempi in cui nacque Napoleone».

Nel Primato morale e civile degli Italiani del 1843 Gioberti parla di «quella gran testa del Buonaparte» come dell’unica dell’età moderna «che abbia concepito la necessità di tentare l’unione, o – com’egli diceva – la fusione di tutti gli elementi speculativi e reali della società europea». Nel Gesuita moderno Gioberti afferma che Napoleone fu mandato dalla Provvidenza perché salvasse il Cattolicesimo e insieme la civiltà; è questa del Gioberti una mirabile pagina poco studiata, ma che non può essere dimenticata in un libro che vorrebbe anche indicare, seppur sommariamente, come Napoleone ha influito sul pensiero italiano. «Or che fece la Provvidenza, mallevadrice d’eternità, alla civiltà come alla Chiesa? Suscitò un uomo, perché anche qui, come ai tempi di Ildebrando,[2] (il Pontefice capace di costruire la essenziale, per la Chiesa e la civiltà occidentale, Riforma Gregoriana) la salute non poteva procedere che da una mente unica. E benché lo scegliesse di animo, d’ingegno squisitamente italico, poiché si trattava di sovvenire non solo all’Italia, ma all’Europa Meridionale, non volle che fosse di una lingua sola, ma di molte, e come dir poliglotta; e lo elesse italogallo, facendolo nascere in una isola nostrale, e da famiglia italiana antichissima, centro precoce della sua gloria…»!

Per Gioberti, così come per Nietzsche, che incensò anch’egli ed ammirò il Bonaparte, il nostro è Europeo. Secondo Gioberti poi, come il gran Federico (Federico II) per il Bonaparte l’arte militare fu un semplice mezzo, non un fine ultimo, né unica professione. Secondo Gioberti il Generale unì l’Europa attraverso la creazione del Codice Napoleonico e dunque in nuce costruì quanto oggi conosciamo sul piano della giustizia civile.

Napoleone nel suo Memoriale scrisse: «L’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune… Tale unione dovrà divenire un giorno o l’altro per forza d’eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la Lega dei Popoli».

Napoleone aveva certamente avviato il processo che portò alla costruzione dell’Europa delle nazioni, processo che si delineò durante il XIX secolo, ma che conteneva, almeno come si produsse, i germi distruttivi manifestatisi nel XX secolo, con le due guerre mondiali, stravolgimenti planetari, in cui l’Europa mostrò il lato debole della propria costruzione, su cui non aveva confluito abbastanza quella spinta universalista del XVIII secolo, alla quale Napoleone con le sue gesta volle richiamarsi.

Ma davvero Napoleone, una volta in esilio a Sant’Elena, non ebbe un piano B? Davvero accettò passivamente la sua fine? Sempre a Sant’Elena scrisse che si aspettava un aiuto concreto dalla Sua Isola, la Corsica. Si dichiarò convinto che qualcosa si sarebbe mosso, e secondo gli storici più accreditati questa affermazione è da considerarsi priva di reale fondamento. Ci fu, è vero, nel 1816, in Corsica «un’estrema fiammata bonapartista, che sembrò dare per un momento ragione a Napoleone a Sant’Elena. Nel 1816 si scatenò una guerra condotta dal Generale Poli nel Fiumorbo: essa mostrava che la pacificazione in Corsica era più un desiderio che una realtà. Sapendo di essere ricercato come bonapartista ed essendosi impadronito dei tesori che Gioacchino Murat gli aveva lasciato in deposito, Poli si era ritirato nel villaggio natale di Sari».[3] Il Poli poi si arrese di fatto agli Inglesi.

Lo storico Fabrizio Dal Passo, riprendendo la tradizione storiografica più accreditata afferma che «l’Imperatore ha cominciato a vivere nella leggenda solo dopo la morte: forse Napoleone si illudeva seriamente a Sant’Elena, quando affermava che in Corsica, appoggiato dai suoi compatrioti, non avrebbe mai temuto l’abbandono della lotta».[4] Ancora lo storico Dal Passo sottolinea che «la storiografia italiana, specie nel ventennio fascista, tendeva a sottolineare la connessione tra la Rivoluzione Córsa ed il Risorgimento, scadendo spesso in una retorica di regime, pur fornendo degli spunti notevolmente interessanti sulle conseguenze tra storia córsa e storia italiana».[5]

Il personaggio bonapartista della mia tesi tende a smentire questa ipotesi. Egli si chiamava Padre Gioacchino Prosperi (1795-1873): questo il suo nome. È considerato, non a torto, il predicatore della Corsica. Predicò infatti nell’isola, pressoché ininterrottamente, dal 1839 al 1846 (per taluni 1848).

La sua famiglia aristocratica lucchese ebbe durante il Principato Baciocchiano e nel periodo in cui regnò in Lucca Carlo Ludovico di Borbone serrati legami con la famiglia Bonaparte.

In Corsica il religioso fece ogni cosa fuorché predicare nel senso classico del termine; o quanto meno il resoconto delle sue fatiche missionarie, trattate nella pubblicazione La Corsica ed i miei viaggi in quell’Isola edita presso la Tipografia Fabiani di Bastia nel 1844, non fa alcun cenno alle sue predicazioni religiose. Egli viceversa si rivolge a tutti quegli isolani, vicini agli ambienti bonapartisti, che lo ospitarono con abnegazione ed inneggia ad un patriottismo italico con un’impronta rosminiana, che non esclude la Corsica come possibile parte di un «Santo Regno Italiano». Le vicende del prete rivoluzionario, che non amava certo definirsi come volevano descriverlo le malelingue un «prete di Montanelli», perché giustamente non lo era, le ho ampiamente trattate e sono rintracciabili in rete. Gli anni in cui operò Padre Prosperi sono immediatamente successivi all’epoca napoleonica e i fatti del Fiumorbo fecero parte del suo retroterra politico. L’agente murattiano Giuseppe Binda, che Padre Prosperi necessariamente conobbe, se non altro per ragioni familiari,[6] il quale sostenne a lungo Gioacchino Murat, dopo la caduta napoleonica nel tentativo di costituire un Regno Italiano indipendente, rappresentò per il nostro un modello da seguire, un inno ad un passato rivoluzionario che voleva rispondere alle ragioni del presente, e non ad un ritorno tout court ai valori dell’Antico Regime.

Probabilmente Napoleone Bonaparte non si sbagliava. Ecco le parole di Padre Prosperi in un documento del 1846: «I Córsi non sognano e dimenticano che il Regale ciuffo fu intimo amico del Paoli e che i Padri Muratori sono stati i testimoni degli ultimi gemiti dell’Aquila Imperiale”.[7] Qualcuno non aveva dimenticato l’Imperatore, in Italia e fuori d’Italia, soprattutto nella sua natia Corsica. Quali i rapporti di Napoleone Bonaparte con la religione, nei suoi ultimi anni? Una sinergia tra i Cattolici liberali, i mazziniani meno accesi e i napoleonidi superstiti?

Rilascerò alcune considerazioni tratte dai dialoghi su Dio e Gesù, tra l’Imperatore ed il Generale Bertrand, quest’ultimo ateo dichiarato.

Affermava Napoleone, un Napoleone inedito: «Quanto è sublime il Vangelo! Tutto proclama l’esistenza di Dio, ciò è indubbio. Da quando presi il potere, mi proposi di ristabilire la religione. Ai miei occhi la religione è la base e il fondamento della morale, dei principi, dei buoni costumi». Tutto può apparire scontato, anche perché Napoleone Bonaparte vedeva avvicinarsi la fine del suo viaggio terreno durante il suo esilio a Sant’Elena.

L’uomo non deve dare nulla per scontato, soprattutto a riguardo degli ultimi istanti di vita. Il Generale Bertrand testimoniò che egli, il Generale, divenne devoto. Non dimentichiamo nemmeno la visita alla Madonna del Monte, all’isola d’Elba, nel 1814, di Napoleone insieme alla sua amante storica, Maria Walewska.

Ciò spiegherebbe ulteriormente il richiamo giobertiano e di tutti i Cattolici liberali, anche rosminiani, come Padre Gioacchino Prosperi, al Bonaparte, nei primi decenni del XIX secolo; ed i legami dei napoleonidi con alcuni ambienti vaticani durante il Primo Risorgimento. Un mazzinianesimo, il loro, che richiamava i principi rivoluzionari repubblicani, confluiti nel Codice Napoleonico, ed allo stesso tempo un richiamo allo spirito universalistico, inclusivo del mondo protestante ed ebraico nelle questioni nazionali italiane. Una visione questa più totalizzante rispetto a quella che si produsse con l’Unità nazionale nel 1861. Per l’occasione i Cattolici furono esclusi di fatto dalla vita politica nazionale, e ciò per lungo tempo. Sono vicende che attendono ancora di venir rielaborate organicamente su di un piano storiografico.

Proviamo perciò ad azzardare un’ipotesi sul piano B di Napoleone Bonaparte, ormai esule a Sant’Elena. La madre dell’ex Imperatore Francese, Letizia Ramolino, viveva in quel periodo a Roma, dove morirà nel 1836. Qui ricevette spesso, tra le altre, visite di Lord Holland, l’aristocratico whig inglese, protettore dell’ex agente murattiano di origini lucchesi Giuseppe Binda, che a Holland House era il bibliotecario ufficiale. Binda, stando alla descrizione fatta nelle sue memorie da John Whishaw, amico di Lord Holland e importante membro del partito whig, era in quel primo periodo dell’esilio a Sant’Elena dell’Imperatore, molto amato a Londra e pareva che ivi sarebbe rimasto a lungo. Ma improvvisamente Binda, nel 1817, si trasferirà a New York, senza che l’amico John Whishaw riesca ad indicarne con certezza le motivazioni. Rimane infatti assai vago, direi troppo vago, il celebre avvocato inglese, nel dare una qualche spiegazione sull’accaduto. Lui era un procacciatore d’affari per Giuseppe Binda, e quindi conosceva nel midollo l’arguto ex agente murattiano. Negli Stati Uniti in quel periodo viveva anche Giuseppe Bonaparte, il fratello maggiore dell’Imperatore, e sono in molti ad indicare in lui la persona a cui Napoleone pensava come possibile mediatore nelle sue questioni personali. Mi sono sempre chiesta perché Giuseppe Binda riuscì a sposare, lui che non era nessuno, la figlia del potentissimo Generale Sumter, cosa che gli permise, ma ciò in seguito, di divenire Console statunitense a Livorno. Quello che è certo è che Binda rappresentò per i patrioti del Primo Risorgimento Italiano un punto di riferimento essenziale, tanto che lo stesso Binda offrì la sua villa lucchese, in sua assenza, nel 1831, a celebri ricercati mazziniani. Anche i Bonaparte mazziniani fuggiaschi, che a più riprese transitarono nel minuscolo Staterello Lucchese proprio in quegli anni?

Giuseppe Binda diverrà, una volta Console americano a Livorno, nel 1840, amico personale e collaboratore di Alexander Walewski, il figlio naturale di Napoleone I e di Maria Walewska. I patrioti risorgimentali italiani provenienti dai luoghi lucchesi di elezione dello stesso Binda saranno in grande sintonia a lungo con i Generali Córsi Franceschetti e Poli, entrambi accesi bonapartisti. Tra loro un nome fra tutti: l’avvocato Carlo Massei, mazziniano, la cui madre era una Burlamacchi, di tradizioni sia repubblicane che riformate. Possiamo andare a verificare che John Whishaw fu a lungo in corrispondenza negli anni 1817-1818 con Benjamin Constant. Il giurista francese, nemico in origine del Bonaparte, col rientro di Napoleone I dall’isola d’Elba, quindi prima della disfatta finale, era entrato nelle grazie dell’Imperatore Francese, che gli aveva proposto di redarre una carta costituzionale.

Queste particolari citazioni pongono in evidenza possibili legami e spiegazioni sull’ardire del Bonaparte a Sant’Elena nel sentirsi capace di lasciare l’isola. Le ipotesi di costituzione di un sottomarino da parte di Robert Fulton, che consentisse all’ex Imperatore di fuggire dal luogo della sua prigionia; i denari offerti allo stesso Fulton da Letizia Ramolino. L’impresa abortì sul nascere, ma ciò confermerebbe una qualche possibile intesa tra gli ambienti whig al di qua ed al di là dell’Oceano Atlantico e i Bonaparte stessi. Non possiamo ad ogni modo negarlo. I fatti avranno esito ben diverso rispetto alle mire imperiali, ma resta interessante riflettere su possibili scenari del tutto inconsueti della Prima Restaurazione. Di più. Nonostante la morte del Bonaparte e la celebre Ode manzoniana che ne immortalò definitivamente le gesta, furono in molti ed a lungo a credere che l’uomo deceduto a Sant’Elena non fosse il Bonaparte. Si moltiplicarono leggende di ogni tipo, ed anche storici accreditati d’impronta bonapartista come Diego Angeli, nobile fiorentino di origini lucchesi, amico del critico d’arte fiorentino, l’aristocratico Diego Martelli, anch’egli bonapartista per estrazione come tutta la sua famiglia che a lungo collaborò proprio col Bonaparte, ne furono coinvolti. Angeli scrisse che un personaggio misterioso il giorno della morte dell’Imperatore si era presentato a casa di Letizia Ramolino in Roma, per poi misteriosamente sparire, ed in molti ne ravvisarono il Bonaparte stesso. Frasi che non hanno nulla di storico in senso stretto ma che bene riflettono l’idea del momento storico e del peso politico dell’ex Imperatore Francese. Si volle cioè sottolineare che il nostro Risorgimento, vivo o morto che fosse il Bonaparte, era guidato dal suo spirito.

Ma solo il nostro Risorgimento? Direi l’intera primavera dei popoli del 1848. Quanto gli Inglesi dovettero misurarsi seriamente con la figura e lo spirito del Bonaparte negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo? Quanto i whig inglesi dovettero sempre in quel periodo al mito del Grande Córso?

Molto, direi; probabilmente non sarebbero riusciti a prendere il potere sconfiggendo i conservatori, senza la «presenza attiva» dei bonapartisti. Anche in questo caso poco si è scritto sul piano storiografico.


Note

1 Napoleone Bonaparte, note tratte dal Memoriale di Sant’Elena.

2 Ildebrando di Soana, alias papa Gregorio VII.

3 Fabrizio Dal Passo, Il Mediterraneo dei Lumi, Roma, CNR 2006.

4 Ibidem.

5 Ivi.

6 I riferimenti si possono trovare sia sul sito che più in generale in rete.

7 Archivio Storico di Lucca, Legato Cerù, fascicolo 18, riconducibile a Padre Gioacchino Prosperi, documento del 1846.

(novembre 2016)

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