Autunno di un Impero
Il principe di Metternich, il Feldmaresciallo Radetzky e il crepuscolo dell’Austria

La storia, come da proemio della grande opera manzoniana, può essere definita «una guerra illustre contro il tempo»: ecco un’espressione spesso aderente alla realtà, nella misura in cui il riferimento alle memorie passate intenda sottrarre all’oblio uomini e cose che ebbero un ruolo importante in vicende d’epoca, ma che non per questo sono ininfluenti in chiave attuale. L’assunto può essere condiviso sempre; a più forte ragione per la storia europea degli ultimi due secoli, che conviene rileggere in tale ottica, anche alla luce delle pur modeste celebrazioni per il centosessantesimo anniversario dello Stato Italiano.

È arduo esprimere giudizi storici alla luce di proposizioni avversative o dubitative, ma non è azzardato sostenere che senza l’epopea napoleonica e il trionfo del principio di nazionalità da un capo all’altro del Vecchio Continente, sia pure sull’onda delle armate francesi, il processo unitario sarebbe stato ancora più lungo e difficile di quanto effettivamente accadde per un intero secolo, dai moti del 1821 alla Vittoria del 1918. Infatti, la difesa dell’Antico Regime espressa dal Congresso di Vienna e dalla Santa Alleanza fu suffragata da un conservatorismo pervicacemente convinto di avere nell’altare, ancor prima che nel trono, il principio fondamentale del suo sistema politico.

Proprio per questo, è giusto approfondire ulteriormente quella storia, in cui le fedi opposte, per utilizzare un’espressione cara a Benedetto Croce[1], trovarono paladini di assoluta eccellenza; e fare in modo che l’ineluttabile scorrere del tempo non stenda un velo sull’affrancamento di tanti popoli oppressi, a cominciare da quello italiano che «risorse» fra tante contraddizioni e non poche deroghe alla giustizia e all’«ethos» ma seppe soddisfare egregiamente la sua sete di indipendenza e alla fine, anche quella di unità, quali presupposti di un pur difficile progresso umano e sociale.

Non sembra meno giusto estendere l’esame alle stesse vicende personali dei protagonisti sia dell’una, sia dell’altra sponda. Ebbene, dando per scontata una sufficiente conoscenza dei meriti e dei limiti di Cavour, Garibaldi e Mazzini, per citare soltanto i maggiori protagonisti di parte italiana, va posta in luce l’importanza di un approfondimento, scevro da pregiudizi, del ruolo di quanti sostennero fino in fondo il vecchio ordine costituito, anche quando si resero conto, loro malgrado, del carattere ormai ineluttabile del nuovo. In proposito, il pensiero non corre tanto ai Sovrani che finirono per essere rimossi dall’esercizio del potere, anche se in qualche caso potevano avanzare qualche merito (si pensi a Leopoldo di Lorena o allo stesso Francesco II), quanto ai personaggi che ne furono supporto politico, diplomatico, militare, ideologico.

In questo senso, sono esemplari le figure di Metternich[2] e di Radetzky[3], ancor più di quella del principe di Talleyrand, uomo di grande capacità mediatrice ma compromesso con la Rivoluzione e con il bonapartismo prima dell’approdo all’Antico Regime.

Oggi, nel nostro inconscio collettivo il Metternich si ricorda semplicemente per avere definito l’Italia quale mera «espressione geografica» con un giudizio tanto più riduttivo perché espresso verso la fine della sua parabola politica, quando il principio di nazionalità appariva destinato a vincere; e perché incapace di riconoscere i fondamenti culturali e civili dell’unità italiana, da Dante e Petrarca in poi. Quanto al Feldmaresciallo Radetzky, la sua memoria è legata soprattutto a quella della celebre Marcia che gli fu dedicata dopo Custoza, e non certo a una lunga esperienza pubblica, non solo militare. Sia l’uno che l’altro, scomparsi in età molto avanzata verso la fine degli anni Cinquanta del XIX secolo, furono i difensori di un mondo avviato inesorabilmente al tramonto, sia pure edulcorato dai fasti della Corte Viennese.

Metternich, grande regista della politica estera austriaca, soprattutto nella stagione aurea dei Congressi Europei di Aquisgrana, Karlsbad, Troppau, Lubiana e Verona[4], che seguirono nel breve termine quello di Vienna, non avrebbe gradito la svolta orleanista del 1830 ma si sarebbe ritirato in preda alla delusione soltanto nel 1848, ben oltre la settantina, quando l’impetuosa ventata rivoluzionaria europea avrebbe ripudiato le Monarchie di diritto divino e aperta la strada verso nuove esperienze costituzionali, a cominciare da quella piemontese.

Radetzky, autentica gloria dell’esercito imperiale, ferito più volte in battaglia, Comandante supremo austriaco nella Prima Guerra d’Indipendenza Italiana, sarebbe stato ancora più longevo: nominato Governatore del Lombardo-Veneto nel 1849, alla non tenera età di 83 anni, si sarebbe distinto negativamente per l’iniquità di un regime assolutista capace di portare sulla forca un enorme numero di patrioti, tra cui Antonio Sciesa e i Martiri di Belfiore, con una strategia fuori dalla storia (eppure, sarebbe stato necessario aspettare sette anni prima che Vienna comprendesse che il Feldmaresciallo era ormai «rimbambito» e si decidesse a sostituirlo con il giovane Massimiliano).

La tentazione di sostenere che Metternich non avesse tutti i torti quando negava che l’Italia fosse una Nazione, è tornata più volte alla ribalta, non senza qualche apparente fondamento, ma non si deve dimenticare che l’idea dello Stato unitario, almeno fino a Gentile, è stata patrimonio di minoranze illuminate o meglio delle «élites» politiche cui fecero riferimento Roberto Michels e Gaetano Mosca[5], senza che le maggioranze riuscissero a esprimere, neppure approssimativamente, solidi principi federali né tanto meno legittimisti (con qualche rara eccezione nel Mezzogiorno e soprattutto in Toscana dove nel collegio di Firenze il plebiscito per l’annessione fece registrare il 5% di voti per il Regno separato, contro lo 0,1‰ del Veneto). Dal canto suo, il Radetzky, che pure aveva sposato un’Italiana nella persona della contessina Strassoldo (e che in tarda età non avrebbe disdegnato le grazie di una popolana milanese), non fece troppo onore alle sue 37 onorificenze, in prevalenza estere, dimostrando un’assoluta incapacità di governo, proporzionale al grande coraggio e allo stesso acume strategico che aveva manifestato sui campi di battaglia.

Si diceva che senza l’apporto di Napoleone il percorso italiano verso l’indipendenza e l’unità sarebbe stato verosimilmente più lento. Ebbene, non è un paradosso aggiungere che contributi di qualche significato all’accelerazione del processo siano venuti anche da personaggi per vari aspetti agli antipodi del Bonaparte come Metternich e Radetzky, chiusi in una visione arcaica del potere, lontani anni-luce da una moderna visione del patto sociale, insensibili alle aperture illuministiche, inutilmente fiduciosi nel potere coercitivo delle forche o dei ceppi dello Spielberg in cui languirono patrioti come Pietro Maroncelli e Silvio Pellico.

Non è improbabile che i due grandi protagonisti della decadenza siano stati in grado di presentire la fine, ma in ogni caso si deve riconoscere a entrambi la coerenza di un comportamento che muovendo dalla rigida fedeltà all’Antico Regime non consentiva di prescindere da siffatta, inderogabile «Grundnorm». In effetti, riuscirono bene nell’intento di conservare le vecchie strutture imperiali, che forse sarebbero riuscite a sopravvivere in tempi più lunghi se non fossero state catafratte dal principio di nazionalità, e poi dalla Grande Guerra, quale punto di non ritorno capace di distruggere dalle fondamenta, a distanza di un intero secolo, l’edificio rigidamente conservatore, e talvolta indubbiamente reazionario, che era stato edificato con il Congresso di Vienna.

Carlo I d’Asburgo, salito al trono alla scomparsa di Francesco Giuseppe, avvenuta nel 1916 in pieno conflitto mondiale, fu l’ultimo Imperatore, destinato a regnare per un solo biennio e scomparire ancor giovane, in odore di santità, quasi a riscattare limiti e colpe di un sistema che non era stato privo di qualche alone romantico ma non aveva avuto la capacità di comprendere i nuovi valori patriottici e nazionali e la loro inconciliabilità con uno Stato in cui coesistevano – non senza difficoltà – popoli appartenenti a una dozzina di etnie.

L’autunno dell’Impero ebbe una grandezza tragica tutta sua, simboleggiata dalle tante sventure della Casa Regnante e dal celebre motto del Feldmaresciallo Radetzky, secondo cui l’Austria si sarebbe ridotta alla funzione di «Lager»: tuttavia, il doveroso riconoscimento di tale grandezza non consente di eclissarne le ombre né tanto meno di sublimarne le forti responsabilità storiche nell’allegria formale delle note che, per tradizione ormai inveterata, chiudono nel tripudio di tanti ignari il concerto viennese di Capodanno.


Note

1 Secondo la tesi di Benedetto Croce (Storia d’Europa nel secolo decimonono, ottava edizione, Laterza, Bari 1953), le fedi opposte sono le forze contrapposte alla «Religione della Libertà» che per il grande pensatore e storico costituisce il fenomeno maggiormente innovativo dell’epoca contemporanea, anche sul piano morale. Nondimeno, quelle fedi, alla resa dei conti, non sono prive di analoga dignità, perché corrispondono a precise esigenze spirituali e materiali dei popoli: socialismo, comunismo, democrazia, lo stesso cattolicesimo (Ibidem, pagine 21-42). Ciò, pur dovendosi riconoscere al movimento liberale, nella visione del Croce, una sorta di primazia riveniente dalla sua disponibilità al dialogo e al confronto, mentre gli altri, sia pure in modi diversi, avevano in programma di «abbattere il sistema stesso liberale» tanto da poterne avere ragione «se non nel solo modo a cui, in ultima analisi, nella politica si fa ricorso, con la “extrema ratio” della forza la quale è momento necessario di ogni atto e di ogni assetto politico» (Ibidem, pagina 40). Conclusione realistica ma oggettivamente amara per il filosofo della Libertà.

2 Klemens von Metternich (1773-1859), appartenente a nobile famiglia tedesca, a iniziativa del padre si trasferì in giovane età dalla nativa Coblenza a Vienna, onde sfuggire al «pericolo» francese. Entrato in diplomazia, pose le basi del trattato austro-prussiano di Potsdam (1805), divenne Cancelliere e Ministro degli Esteri (1809) e assunse un ruolo leader nella complessa strategia anti napoleonica, ma non senza promuovere il matrimonio di Bonaparte con Maria Luisa d’Asburgo. Dopo Waterloo fu protagonista del Congresso di Vienna, assertore del nuovo sistema europeo e soprattutto della Santa Alleanza (Austria, Prussia e Russia) che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella politica continentale fino al 1848, quando Metternich, a seguito dei moti liberali che avevano interessato anche Vienna, fu congedato da Ferdinando I per riparare in Inghilterra e poi in Olanda. Sarebbe rientrato soltanto nel 1851 per un tramonto privo di effettiva rilevanza politica.

3 Johann Josef von Radetzky (1766-1858), nativo della Boemia, divenne ufficiale dell’esercito asburgico a soli vent’anni e fu protagonista di una rapida carriera militare durante le guerre contro Napoleone, distinguendosi con vari atti di valore e con la predisposizione del piano per la vittoria di Lipsia (1813). Reazionario convinto, nel 1831 fu destinato in Italia per fronteggiare i moti liberali, e cinque anni dopo ebbe la nomina a Feldmaresciallo, oltre all’incarico di governatore militare della Lombardia, lasciato nel 1848 a seguito delle «Cinque Giornate» di Milano, per assumere la guida delle forze imperiali, battute a Goito ma vittoriose a Custoza e trionfatrici a Novara, nell’epilogo della Prima Guerra d’Indipendenza Italiana. Assunto l’incarico di governatore generale del Lombardo-Veneto, lo assolse con inusitata durezza per lasciarlo in età molto avanzata, guadagnando la triste fama di impiccatore.

4 I Congressi della Santa Alleanza successivi a quello di Vienna si tennero nel volgere di un quinquennio (1818-1822) dal primo di Aquisgrana all’ultimo di Verona. Gli scopi principali consistevano nel promuovere e nell’implementare la politica reazionaria dei maggiori Stati Europei, quali Austria, Francia, Prussia e Russia, con risultati a danno precipuo dei patrioti, e in primo luogo di quelli italiani, costretti all’emigrazione in luoghi più accoglienti. Nel solo 1821, come da testimonianza del vecchio storico della Restaurazione Georges Weill (L’éveil des nationalitès et le mouvement libéral, Presses Universitaires de France, Paris 1930) i fuorusciti in fuga dall’Italia furono circa 2.000, che andarono a rifugiarsi prevalentemente in Inghilterra e in Svizzera, mentre qualcuno, come Vincenzo Gioberti, fu ospite dell’Olanda.

5 Gaetano Mosca, Storia delle dottrine politiche, Laterza, Bari 1933. Il concetto di gerarchia tende a prevalere, nel pensiero del celebre cattedratico, su quello del «consenso – presunto o reale – della volontà popolare» in ogni epoca storica, ben s’intende con gli aggiustamenti e i «contemperamenti» del caso. D’altra parte, all’epoca della prima uscita dell’opera di Mosca (poi oggetto di altre edizioni fino al secondo dopoguerra) quel concetto fruiva di ampie preferenze nella scienza politica dell’epoca, e non soltanto in Italia.

(giugno 2021)

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