Il Vangelo di Matteo
Un’introduzione generale all’opera matteana

Il Vangelo secondo Matteo è una narrazione: l’Evangelista testimonia la sua fede nel Figlio di Dio raccontando la storia di Gesù, dalla nascita alla Risurrezione, parlando del suo insegnamento, delle sue azioni prodigiose, della sua sofferenza. Non vede però in Gesù un illustre defunto del quale ricordare con rispetto la saggezza o le gesta, ma il Signore vivo ed elevato presso il Padre, accessibile solo attraverso il racconto della sua esistenza terrena. Non sono né la pietà né le esperienze spirituali a rivelare Dio, ma il ricordo di una vicenda concreta e accaduta nella Storia: parlando di Gesù di Nazareth, Matteo dà volto a un Dio che illumina la vita dell’uomo e la libera in vista di un impegno.

L’Autore è stato identificato nel II secolo con l’Apostolo Matteo; questa interpretazione, che ha delle ragioni, è oggi però messa in discussione: si può affermare con una certa sicurezza che il redattore dell’opera sia un giudeo-cristiano della seconda o terza generazione, ben versato nella cultura e nella teologia giudaiche, e con una buona conoscenza della lingua greca. Come fonti avrebbe avuto il Vangelo secondo Marco, la cosiddetta fonte Q (una raccolta, essenzialmente, dei detti di Gesù) e – alla base – una tradizione che si potrebbe far risalire effettivamente all’Apostolo Matteo. Tenendo conto delle allusioni alla distruzione di Gerusalemme e del rapporto conflittuale tra giudaismo e Cristianesimo (70 dopo Cristo), la data della redazione finale dovrebbe collocarsi intorno agli anni Ottanta in Siria, in particolare ad Antiochia.

La struttura del Vangelo ricorda un po’ quella di un tempio greco: troviamo una base (i quattro capitoli iniziali, che riguardano la genealogia di Gesù, l’episodio dei Magi, la figura di Giovanni il Battista, l’inizio dell’attività pubblica di Gesù); su questa si innalzano cinque colonne (i cinque grandi discorsi di Gesù); le colonne reggono l’architrave (il racconto della Passione e della morte di Gesù); l’architrave sorregge il timpano (la scoperta della tomba vuota e le apparizioni del Risorto). Il Vangelo si chiude con il comando che Gesù dà ai discepoli di portare il suo messaggio di salvezza a tutti gli uomini, accompagnato dalla promessa: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo [o: “dei tempi”]» (Vangelo secondo Matteo, 28, 20).


Il volto di Gesù

Possiamo iniziare questa «escursione» nel Vangelo secondo Matteo tenendo come punto prospettico l’epilogo, a motivo della sua ricchezza tematica:

«Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano.

E Gesù, avvicinatosi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le Nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» (Vangelo secondo Matteo, 28, 16-20).

Puntiamo l’attenzione, in particolare, su alcune parole.

«Sul monte»: non è una mera indicazione geografica, ma serve a presentare Gesù come il compimento delle promesse del Primo Testamento. Gesù porta a compimento la speranza d’Israele, e il Vangelo sollecita il lettore in due direzioni.

La prima è la linea «tipologica», che racconta la storia di Gesù attraverso il richiamo a grandi personaggi dell’antica alleanza, primo fra tutti Mosè (Gesù viene presentato come il nuovo Mosè: vedi per esempio l’infanzia, capitoli 1 e 2, le tentazioni, capitolo 4, i capitoli 5-7), e poi Geremia, forse Salomone, ma precisando che Gesù è superiore a tutti.

La seconda è la linea della citazione diretta: sono abbondanti le citazioni, esplicite o implicite, e in particolare le cosiddette «formule di compimento» (per esempio 1, 22: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta»); si vedano anche le citazioni in Matteo 4, 1-11: sono tutte citazioni del Deuteronomio, una serie di discorsi attribuiti a Mosè.

«Insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato»: Gesù è presentato come il Maestro della comunità. Matteo è molto interessato alle parole di Gesù e alla sua dottrina: i discorsi sono più numerosi e più sviluppati che negli altri Vangeli. Ci sono cinque grandi discorsi che sono stati definiti una sorta di Pentateuco «cristiano»: il discorso della montagna (capitoli 5-7), il discorso missionario (capitolo 10), il discorso in parabole (capitolo 13), il discorso ecclesiale (capitolo 18) e il discorso sulla fine o discorso escatologico (capitoli 24-25).

Il discorso della montagna, destinato sia ai discepoli che alle folle, è sicuramente il più famoso, anche per il tema delle beatitudini nell’introduzione generale. In realtà l’«orizzonte» è molto più ampio: vi si trovano norme per il rapporto con il prossimo, per quello con Dio e per quello con le cose. Il centro del discorso è la preghiera del Padre Nostro, e il centro delle invocazioni della preghiera è «dacci oggi il nostro pane quotidiano» (6, 11): per gli Ebrei, il compito di procurare il pane era il compito specifico del padre!

Diamo ora qualche indicazione per la lettura del brano delle beatitudini: «Beati i poveri in spirito [chi si affida a qualcun altro, si consegna per fede], / perché di essi è il Regno dei Cieli. / Beati gli afflitti, / perché saranno consolati. / Beati i miti, / perché erediteranno la terra. / Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, / perché saranno saziati. / Beati i misericordiosi, / perché troveranno misericordia. / Beati i puri di cuore, / perché vedranno Dio. / Beati gli operatori di pace, / perché saranno chiamati figli di Dio. / Beati i perseguitati per causa della giustizia, / perché di essi è il Regno dei Cieli. / Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Vangelo secondo Matteo, 5, 3-12).

Innanzitutto, bisogna precisare che le beatitudini sono la descrizione, il ritratto di un’unica personalità: Gesù Cristo; è solo a partire da questo dato, che si possono applicare anche al discepolo.

In secondo luogo, sono il manifesto del Vangelo, ovvero sono la manifestazione dell’attuazione del Regno: suppongono che sia entrata nel mondo una forza nuova, capace di far vivere in modo nuovo.

Inoltre, rimarcano la tensione tra la situazione presente e l’avvenire escatologico: nella formulazione di ogni beatitudine è visibile una tensione fra la prima e la seconda parte, tra le situazioni negative (povertà, sofferenza, persecuzione) e quelle positive (possesso del Regno, consolazione, visione di Dio). Questa tensione mostra che le beatitudini non vogliono «indorare la pillola», né promettono interventi miracolosi che hanno lo scopo di cambiare le cose. Le situazioni restano quelle che sono, ma le beatitudini ne offrono criteri diversi di lettura: le condizioni sono quello che sono, ma la reazione di fronte a esse è radicalmente diversa. Il discepolo sa che, praticando le beatitudini, getta le basi del suo futuro escatologico, alla fine dei tempi. E la certezza di un futuro positivo trasforma già il presente. Senza dimenticare, poi, che il presente contiene già un «anticipo» del futuro.

Le beatitudini sono l’espressione più densa della paradossalità evangelica.

Infine, bisogna rimarcare la nota della gioia: si tratta di «beatitudini», appunto, non solo – e non tanto – di ideali, di capovolgimento di mentalità, di conversione. La gioia delle beatitudini trova il suo fondamento nella certezza di un futuro felice, in comunione con Dio e dono di Dio, e insieme nella gioiosa scoperta che già ora è possibile pregustare un nuovo modo di vivere.

«Si prostrarono innanzi»: è il gesto di adorazione del «Kyrios» («Signore»), titolo che qualifica il Figlio di Dio vivente nella comunità; è usato, in modo quasi esclusivo, dai credenti, perché gli estranei chiamano Gesù col titolo più semplice di «Rabbi» («Maestro»).

Anche l’uso del verbo «proskunéo» («prostrarsi», «adorare») connota la relazione con Gesù. Si possono vedere il Vangelo secondo Matteo 2, 1-12 (il brano dei Magi, figura dei lettori pagani che di fronte a Gesù compiono il gesto massimo dell’adorazione, ripetuto per tre volte); 14, 22-23; i racconti di risurrezione, 28, 9.17.

«Io sono con voi»: Gesù è l’Emmanuele, una presenza promessa, attesa, arrivata e viva (1, 23; 28, 20). In questa presentazione di Gesù come l’Emmanuele, si può forse anche avvertire l’eco della polemica contro il Tempio, luogo per eccellenza della Presenza di Dio (la «Shekinah»): il vero Tempio nel quale dimora il Padre è in realtà Gesù.

I luoghi dell’incontro con il Dio-con-noi vivente sono, in modo suggestivo, tre: i missionari, dai discepoli in avanti, che vanno di città in città ad annunciare il Regno (Vangelo secondo Matteo 10, 40: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato»); la comunità credente, e quindi la liturgia (18, 20: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, Io sono in mezzo a loro»); la portata universale (25, 40: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»; 25, 46: «E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna»). Si può notare, in questi passi, tutta la dialettica tra «comunità» e «universalità».

«Mi è stato dato [dal Padre]»: per quanto riguarda il rapporto con Dio, si possono mettere in risalto tre caratteristiche tipicamente matteane.

Innanzitutto, il Padre è qualificato come «Colui che è nei cieli» o «celeste»: l’espressione può alludere sia alla trascendenza (Dio è sempre al di là di ogni possibile concettualizzazione), sia alla capacità di dominare dall’alto ogni forza maligna (le «potenze dell’aria», spiriti che possono avere un influsso negativo sull’uomo, e che Dio domina perché è più in alto di loro).

È il Figlio che, con iniziativa gratuita e benigna, rivela il volto di Dio. Il testo più denso, dal punto di vista teologico è il Vangelo secondo Matteo 11, 25-27 definito – precisamente per il suo vocabolario pregnante - «un meteorite giovanneo» («In quel tempo Gesù disse: “Ti benedico, oh Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, oh Padre, perché così è piaciuto a Te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”»).

Il Padre mostra in Gesù un volto misericordioso: è qualificante, per il racconto di Matteo, la citazione – ripetuta due volte – di Osea 6, 6: «Voglio l’amore e non il sacrificio» (Vangelo secondo Matteo 9, 13; 12, 7). Nessun altro Vangelo, come Matteo, sottolinea la mitezza di Gesù, tanto che qualcuno ha definito Matteo come «dottore della misericordia».


Il Vangelo della Ekklesía

(Per quanto riguarda il termine «Ekklesía», vedere il Vangelo secondo Matteo 16, 18: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» e 18, 17: «Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea»).

Il Vangelo secondo Matteo si rivolge di certo a una comunità giudeo-cristiana, perché si ritrovano in esso tutta una serie di formule ed espressioni che rivelano la familiarità con l’ambiente culturale biblico e giudaico. È un Vangelo imbevuto di giudaismo: lo si ritrova nel vocabolario («Regno dei Cieli», «Carne e sangue», 16, 17; «legare-sciogliere», 16, 19 e 18, 18; «giustizia», «Legge e profeti», 5, 17 e 7, 12...); nei raggruppamenti di numeri fissi (1, 1-17: tre gruppi di 14; 4, 1-11: tre tentazioni; 6, 1-18: tre esempi di pietà ostentata...); nella presentazione di usi, tradizioni e costumi ebraici non spiegati perché già noti (5, 23; 15, 1-2, l’abitudine di lavarsi le mani prima di mangiare; 9, 21, il mantello di Gesù ha le filatterie al modo degli osservanti dell’epoca; 19, 3, la questione del divorzio per qualunque motivo; 23, 5.15.23...).

La vicenda di Gesù diventa per Matteo paradigmatica per risolvere il rapporto tra Israele e la Chiesa. Ci sono tre punti fondamentali da tenere presenti:

1) la fedeltà di Dio si compie in Gesù: Matteo cita di frequente il Primo (o Antico) Testamento per sottolineare in Gesù l’adempimento delle antiche profezie;

2) di fronte a Cristo, si fa chiara la fisionomia di una «generazione adultera e perversa» (12, 39; 16, 4) che gli si oppone con la sua incredulità e infedeltà;

3) l’Evangelista Matteo, con una sovrapposizione o lettura in trasparenza, salda la relazione storica di Gesù-Israele con quella della comunità che si trova ad affrontare l’ostilità e il boicottaggio del giudaismo farisaico. La Chiesa di Matteo non vuole rompere con la tradizione veterotestamentaria: rimane fedele alla Legge, rispetta il sabato, afferma la sua fedeltà al Primo Testamento che trova compimento nella persona di Gesù che nella sua predicazione lo ha ripreso nella sua sostanza e profondità; nello stesso tempo, parla greco e ripudia qualsiasi forma di esclusivismo etnico, aprendosi sia ai giudei che ai pagani convertiti. In questo, l’Evangelista riscontra continuità e simmetria.

Le conseguenze sono da una parte lo spirito polemico accentuato contro il legalismo farisaico (Vangelo secondo Matteo 23) e, dall’altra parte, la scelta missionaria universalistica (vedi il Vangelo secondo Matteo 2, 1-12: il ruolo dei Magi; 21, 43: «Sarà tolto il Regno di Dio»; 28, 19: «tutti i popoli»).

Per quanto riguarda il suo «vissuto ecclesiale», è tipica di Matteo la sottolineatura della presenza del peccato all’interno della comunità: si può vedere, per la ricognizione di alcuni di questi lati oscuri, il Vangelo secondo Matteo 18, 15.21-22 e 24, 10-12.48-51, come pure la parabola delle vergini (25, 1-13) e dei talenti (25, 14-30).

La risposta a questa situazione si articola in quattro punti:

1) la richiesta di un forte impegno etico, del «fare» a cui corrisponde la «salvezza». Chi è chiamato da Gesù è introdotto in un progetto di vita strutturata e concreta, la fede in Lui si incarna e si traduce nel fare (7, 21: «Non chiunque mi dice “Signore, Signore”, entrerà nel Regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»; 12, 49-50: «Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: “Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”»);

2) l’enfasi sul giudizio e sulla ricompensa (25, 31-46);

3) la polemica contro ogni falsa sicurezza, perché non ogni chiamato è «automaticamente» un eletto (vedi la parabola in 22, 1-14). Dall’appartenenza alla Chiesa sembra derivare più un accrescimento di responsabilità che una garanzia di salvezza;

4) il richiamo alla presenza salvifica del Risorto (28, 20) e l’insistenza a sanare la «poca fede» (6, 30; 8, 26; 14, 31; 16, 8; 17, 20).


Una pagina comunitaria: il piccolo e la correzione fraterna

Leggiamo l’inizio del capitolo 18 del Vangelo secondo Matteo; si tratta di una quarta «colonna» del Vangelo, ossia l’importanza del motivo comunitario per Matteo, collocata nel contesto della sequela del Crocifisso e incentrata su due temi, la vera grandezza e la medicina del perdono: «In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: “Chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli?”. Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel Regno dei Cieli.

E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.

Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!

Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.

Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. È venuto infatti il Figlio dell’uomo a salvare ciò che era perduto.

Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.

Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assemblea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano [...]”» (Vangelo secondo Matteo 18, 1-17).

Il primo quesito riguarda il mondo dei bambini e dei piccoli e una particolare attenzione che si trova solo in Gesù. Tre sono le frasi che possiamo sottolineare:

1) «diventare come bambini» (confronta i versetti 3 e 4, ma anche il Salmo 131 e il Vangelo secondo Matteo 19, 13-15; 21, 15-17). Ciò che caratterizza il bambino e che deve essere recuperato dall’adulto è proprio il non essere ancora adulto, l’indeterminatezza nei riguardi del proprio futuro e la conseguente disponibilità a venire educato e cresciuto per diventare quello che non è ancora. Si tratta, in breve, dell’apertura fondamentale alla conversione, non come conquista umana ma come ricezione di un dono e ubbidienza a una guida. Non si tratta, come sarebbe fin troppo facile leggere, di una presunta «innocenza originaria», ma di un atteggiamento radicale di confidenza;

2) «chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio» (versetto 5). Il bambino, in questo senso, è chiaro simbolo di carenza di potere, di forza e di autorità. Sono rarissimi gli aneddoti del Talmud in cui un rabbino abbia a che fare con un bambino o mostri interesse per lui, dato che una cosa simile è vista solo come una perdita di tempo: «Rabbì Dosa b. Archinos disse: “Il sonno del mattino, il vino di mezzogiorno, le chiacchiere scambiate coi fanciulli e il soffermarsi nei luoghi d’incontro del popolino fanno morire l’uomo”»;

3) «chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli» (confronta i versetti 6 e 7). Piccolo, in questa accezione, è ogni credente in Gesù che può essere messo in crisi o rischia di perdersi per l’infedeltà o la noncuranza degli altri membri della comunità. Matteo non precisa in che cosa consista il dare scandalo, ma dall’insieme del suo Vangelo si intuisce che la crisi di perseveranza di molti è provocata dall’incoerenza pratica dei Cristiani che trascurano l’attuazione dell’amore, sintesi della volontà del Padre.

Il secondo quesito riguarda la correzione fraterna, ossia la qualità della relazione. La Chiesa è vista da Matteo come una comunità di fratelli, e di fronte al fratello che pecca ogni singolo credente non deve lasciare nulla di intentato al fine di riguadagnarlo alla comunione ecclesiale: non si tratta di mettere in atto procedure giuridiche, ma di compiere passi amichevoli, sollecitazioni fraterne, capaci di creare intorno a chi ha gravemente mancato un clima favorevole alla sua conversione. Anche in questo caso si possono mettere in luce tre punti:

1) prima istanza (18, 15): un incontro a tu per tu per ricondurre all’amicizia con Dio (è questo il senso di «avrai guadagnato il tuo fratello»);

2) seconda istanza (18, 16): il ricorso ai testimoni – secondo la prescrizione di Deuteronomio 19, 15 –, in vista di una valutazione obiettiva della gravità del caso;

3) terza istanza (18, 17): il «dillo all’assemblea» potrebbe sottintendere la presenza di un’autorità, cioè di un capo, o di un collegio di anziani, oppure l’intervento diretto della comunità nella sua totalità. Infine, «sia per te come un pagano e un pubblicano» è da considerare come una scomunica (ottica disciplinare) o un rinnovato impegno all’accoglienza (ottica pastorale)? In base alla visione di Matteo e al tono del suo Vangelo, la seconda ipotesi sembra la più plausibile!

La vita della comunità sta tra due estremi che la qualificano: un passato di perdono dei propri peccati, un futuro di misericordia del Padre necessaria per entrare nel Regno; il presente non può essere altro che tempo di fraterno scambio di perdono senza alcun limite.


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(dicembre 2022)

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