Il Vangelo dell’Infanzia secondo Matteo
I primi anni della vita di Gesù narrati dall’Evangelista Matteo: un’interpretazione

Matteo scrive il «suo» Vangelo dell’Infanzia circa quarant’anni dopo la morte di Gesù. Il destinatario che dobbiamo immaginare, è una piccola comunità, lontana dalla potenza e dal fasto, che cerca di portare avanti nel tempo l’annuncio e la celebrazione del Signore risorto. Sono anni difficili anche a causa dello scenario che determina una situazione politica di tensione: nell’anno 70 infatti, il futuro Imperatore Tito entra in Gerusalemme radendola al suolo assieme al Tempio (per un Ebreo un segno come questo equivale alla fine del mondo!), e sempre nel 70 a Iamnia i capi religiosi di Israele decidono di accanirsi contro i Cristiani perseguitandoli pubblicamente. Pur nell’apparente poesia del Vangelo dell’Infanzia, è quindi da leggere fra le righe un orizzonte drammatico.

Cercando una visione d’insieme nel Vangelo secondo Matteo, si potrebbero isolare alcuni temi dominanti:

1) una notizia incredibile (il concepimento da Spirito Santo) sconvolge la vita di Giuseppe e lo lascia nel dubbio e nella tentazione;

2) una situazione di profondo degrado (Erode e la sua corte) viene riscattata dai Magi, che inaspettatamente si rivelano autentici cercatori di Dio;

3) una violenza cieca produce una uscita di scena (la fuga in Egitto) che diventa però principio di riscatto;

4) una quotidianità umiliante (il trasferimento a Nazareth) diventa possibilità di una vera esistenza intessuta di grandezza.

Ancora più sinteticamente diciamo che il Vangelo dell’Infanzia esprime «una storia nella storia». C’è una storia leggibile dall’esterno, visibile e materiale e ce n’è una che illumina il visibile da un punto di vista diverso, spesso doloroso, complesso e profondo. Potremmo dire che la Bibbia presenta la storia dal punto di vista dell’album di foto di famiglia. Questi Vangeli dell’Infanzia rileggono la storia della nascita di Gesù alla luce di un’esperienza di fede.

Al primo capitolo del Vangelo secondo Matteo, incontriamo il brano di apertura, l’enigmatico passaggio della genealogia di Gesù (1, 1-17): «Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il Re Davide.

Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Urìa, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.

Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo.

La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici». (I testi biblici riprodotti in quest’articolo concordano con la «editio princeps» del 1971).

Apparentemente insignificante per un contemporaneo, l’inserire la genealogia nasconde un obiettivo ben preciso: difendere l’origine davidica di Gesù (del tipo delle ricerche sull’albero genealogico per stabilire se si appartiene ad una famiglia nobile). Rilevanti sono soprattutto le quattro donne, oltre a Tamar, che vengono inserite nella lista (Racab, Rut, Betsabea e Maria), soprattutto le ultime due legate a vicende poco chiare. Racab e Rut sono donne di Moab e quindi pagane, considerate impure e non legate alla salvezza, tuttavia sono persone che hanno un forte spessore religioso. Da ricordare la bellissima frase detta alla suocera Noemi che invita Rut a lasciarla perché non è Israelita, forse una delle frasi più belle della Bibbia: «Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rut 1, 16-17).

Betsabea era la moglie di Uria. Nonostante il peccato commesso con il Re Davide, nascerà successivamente da lei Salomone, il Sapiente di Israele per eccellenza.

Maria, l’ultima della lista, rimane incinta prima del matrimonio, e il suo sposo promesso dovrà decidere se ripudiarla. La comunità cristiana, attraverso questo elenco abilmente congegnato, cerca di comprendere il procedere dei piani di Dio e come questi si tessano in modo enigmatico e in maniera umanamente non leggibile, di fronte ad un contesto che perseguita e deride.

Segue il famoso passaggio (1, 18-25) del «sogno di Giuseppe», che si sofferma sul concepimento di Gesù da Spirito Santo: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio

che sarà chiamato Emmanuele,

che significa Dio con noi.

Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù».

Al centro della scena vi è il dubbio di Giuseppe, che interpreta la difficoltà costitutiva per una mente umana normale di poter comprendere una notizia di questo tipo (nella Bibbia, la sterile che può generare è il tipico registro per affermare la «possibilità dell’impossibile», per esempio nel caso di Sara, di Anna, di Elisabetta…). Il segno che viene proposto è una generazione-non-da-uomo. Si vuol dire che ciò che l’uomo non può fare, Dio lo può fare: generare senza intervento di un uomo significa questo.

Prima di San Francesco la tradizione non ha mai osato rappresentare il presepe come lo conosciamo noi, ma metteva sempre Maria distante dal bambino, mentre Giuseppe non era al suo fianco, ma collocato in una scena parallela, dove era tentato da Satana che gli insinuava il dubbio sulla verginità di Maria. La nostra percezione di questo mistero va «rivista e corretta» per rivivere la difficoltà, con cui i primi Cristiani hanno percepito il concepimento di Gesù da Spirito Santo.

Il secondo capitolo, che prendiamo ora in esame, riparte con una notizia scandalosa: «Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del Re Erode. Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il Re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il Re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:

E tu, Betlemme, terra di Giuda,

non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda:

da te uscirà infatti un capo

che pascerà il Mio popolo, Israele”.

Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”.

Udite le parole del Re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro Paese» (2, 1-12).

Anzitutto l’introduzione dice molte cose: Erode è un «Re fantoccio» messo dai Romani, e non è di stirpe davidica. Ma questo è solo l’inizio. Erode infatti fa una domanda terribile per un Ebreo: fa chiamare gli scribi per informarsi dove doveva nascere il Messia. Dove nascerà il Messia, ai tempi di Gesù lo avrebbero saputo «anche i muri». È una delle prime nozioni del Catechismo, Matteo riporta al versetto 6 l’arcinota profezia di Michea (confronta Michea 5, 1): «E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il Mio popolo, Israele» (può servire un esempio per capire che cosa significa: è come se il nostro Presidente della Repubblica facesse chiamare alcuni Vescovi e chiedesse loro chi è Gesù di Nazareth, di fronte ad una delegazione di Indù). Questa ignoranza inammissibile di Erode è introdotta e sottolineata per indicare a quale livello di «bassezza spirituale» si fosse arrivati.

A questo va aggiunto il seguito. Sono dei pagani a dare l’annuncio a Gerusalemme che è nato il Messia. È una tale aggravante che non abbiamo nemmeno esempi contemporanei per comprenderne la portata. Nel Primo Testamento la formula sarebbe questa: «Il Messia verrà in Gerusalemme per salvare il Suo popolo, e di questo si darà notizia alle genti», nella versione di Matteo diventa invece: «Il Messia viene a causa dell’iniquità di Israele, è annunciato ai poveri di Israele, e riconosciuto dai pagani». È una prospettiva assolutamente inedita (confronta anche la Lettera ai Romani, 8-10).

Quanto ai Magi, chi sono? E quanti sono? Si sono spesi fiumi di inchiostro a proposito. Nell’antica Persia, i Magi erano studiosi dediti all’astrologia, alla magia e all’interpretazione dei sogni; qui, con ogni probabilità raffigurano la «tavola dei popoli», che rappresenta le razze della terra, formata da settanta o settantadue popolazioni. Infatti una tradizione vuole che i Magi fossero settantadue (questo avrebbe fatto felici i venditori di statuine per i presepi…). Altre interpretazioni riducono il numero a dodici, altre a quattro (il famoso quarto Re Magio, Artabano, distribuì il suo dono ai poveri e arrivò a Betlemme a mani vuote; la Madonna gli dirà, anticipando una frase di Gesù nel Vangelo secondo Matteo 25, 40: «Ogni volta che avete fatto questo ad uno dei miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me»). Noi siamo abituati a pensare a tre Magi semplicemente perché il Vangelo parla di tre doni, tutto qui. Interessante anche l’interpretazione popolare che ne vuole uno nero, uno bianco e uno meticcio, perché si avvicina all’idea che Matteo voleva comunicare. I popoli della terra sono qui rappresentati in questo gesto di omaggio al Signore del cielo e della terra: si direbbe che le persone lontane dai nostri ambienti siano portatrici di alcune verità e valori, più di quanto non lo possiamo essere noi. È una teoria presente già nella tradizione della Chiesa antica, non sempre presa in giusta considerazione.

L’episodio seguente, è altamente drammatico: lo intitoliamo infatti «la fuga». L’idea della fuga è decisamente quella più antipatica. La Chiesa ha sempre digerito male questa «faccenda», soprattutto nei momenti di «splendore apparente»: «Essi [i Magi] erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”.

Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:

Dall’Egitto ho chiamato il Mio Figlio» (2, 13-15).

La finalità di questo brano sembra soprattutto legata al possibile parallelo dei «due Giuseppe». Uno è Giuseppe lo sposo di Maria, l’altro ben più importante è il figlio di Giacobbe-Israele. Nessuno di noi è cresciuto in una sinagoga e il nome di Giuseppe non ci dice niente, ma per i primi Cristiani è stato uno dei registri per presentare il personaggio di Gesù. I capitoli dal 37 al 50 del Genesi raccontano la vicenda di Giuseppe, il figlio amato che viene venduto ad una carovana per invidia dai fratelli e portato in Egitto; là diventerà il tesoriere del Faraone e salverà, dall’Egitto, la sua famiglia dalla carestia, oltre ad ottenere la riconciliazione coi suoi fratelli. Con questa apparente digressione sottolineiamo il parallelo che viene cercato: Giuseppe va in Egitto con Gesù ma tornerà con il nutrimento e la pace (questa interpretazione ha fatto molta fortuna nella tradizione e compare spesso negli affreschi a partire dall’Alto Medioevo). L’altra interpretazione è legata alla citazione di Osea: «Quando Israele era giovinetto, / Io l’ho amato / e dall’Egitto ho chiamato Mio Figlio. / Ma più li chiamavo, / più si allontanavano da Me; / immolavano vittime ai Baal, / agli idoli bruciavano incensi. / Ad Efraim Io insegnavo a camminare / tenendolo per mano, / ma essi non compresero / che avevo cura di loro. / Io li traevo con legami di bontà, / con vincoli d’amore; / ero per loro / come chi solleva un bimbo alla sua guancia; / Mi chinavo su di lui / per dargli da mangiare» (Osea 11, 1-4). Oltre ad essere un testo commovente, ricorda la liberazione del popolo per mano di Mosè, e qui sicuramente viene insinuato un parallelo fra Mosè e Gesù: Giuseppe porta Gesù in Egitto, ma tornerà di là come un nuovo Mosè e libererà il suo popolo dalla schiavitù (questa interpretazione è la più ricalcata dalla tradizione del Cristianesimo nascente).

L’episodio successivo è la «strage degli innocenti»: «Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi. Allora si adempì quel che era stato detto per mezzo del profeta Geremia:

Un grido è stato udito in Rama,

un pianto e un lamento grande;

Rachele piange i suoi figli

e non vuole essere consolata, perché non sono più» (2, 16-18).

Probabilmente i bambini morti furono una ventina in tutto (computo che si deduce conoscendo il numero classico di un piccolo villaggio come Betlemme ai tempi di Gesù, visto che ogni sinagoga prevedeva un numero massimo di abitanti, coincidenti con i posti a sedere per uomini adulti). Interessante soprattutto la citazione di Geremia, perché è un «classico» del Nuovo Testamento. Sul testo infatti appare una citazione evidentemente negativa (Rachele piange…), ma per chi legge, abituato a meditare sulla Scrittura, si apre tutto un altro contesto che scalda il cuore. Metto qui sotto alcuni spezzoni di Geremia, per capire come funziona una citazione di questo tipo. I Vangeli sono intessuti di questo modo particolare di citare la Scrittura, che apre prospettive profonde.

«Ti ho amato di amore eterno, / per questo ti conservo ancora pietà. / Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, / […] e uscirai fra la danza dei festanti. / […] Poiché dice il Signore: / “Innalzate canti di gioia per Giacobbe, / esultate per la prima delle Nazioni, / fate udire la vostra lode e dite: / Il Signore ha salvato il Suo popolo, / un resto di Israele”. / Ecco, li riconduco dal Paese del Settentrione / e li raduno all’estremità della terra; / fra di essi sono il cieco e lo zoppo, / la donna incinta e la partoriente; / ritorneranno qui in gran folla. / Essi erano partiti nel pianto, / Io li riporterò tra le consolazioni; / li condurrò a fiumi d’acqua / per una strada dritta in cui non inciamperanno; / perché Io sono un Padre per Israele / […] Così dice il Signore: “Una voce si ode da Rama, / lamento e pianto amaro: / Rachele piange i suoi figli, / rifiuta d’essere consolata perché non sono più”. / Dice il Signore: / “Trattieni la voce dal pianto, / i tuoi occhi dal versare lacrime, / perché c’è un compenso per le tue pene; / essi torneranno dal Paese nemico”» (Geremia 31, 3-16).

Il capitolo si conclude con l’ultimo sogno di Giuseppe, che ritorna inaspettatamente a Nazareth (brutto posto, in tutti i sensi): «Morto Erode, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nel Paese d’Israele; perché sono morti coloro che insidiavano la vita del bambino”. Egli, alzatosi, prese con sé il bambino e sua madre, ed entrò nel Paese d’Israele. Avendo però saputo che era Re della Giudea Archelào al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nelle regioni della Galilea e, appena giunto, andò ad abitare in una città chiamata Nazareth, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: “Sarà chiamato Nazareno”» (2, 19-23).

Oggi, Nazareth è una moderna città di sessantamila abitanti. Ancora alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, sotto i portici delle vie e viuzze un numero sorprendente di falegnami esercitava il proprio mestiere in botteghe e laboratori aperti; qui venivano fabbricati gioghi di legno per buoi, aratri ed altri arnesi d’ogni genere, di quelli che si usavano al tempo di Gesù. Le donne, con le brocche in equilibrio sulla testa, andavano ad attingere l’acqua da un pozzo ai piedi di una collina, tuttora esistente, dove scaturisce una piccola sorgente: «Ain Maryam», «Fonte di Maria», si chiama da tempi immemorabili questa fonte, l’unica della zona.

Una volta era tutto diverso. L’Evangelista deve difendere questo tipo di scelta, che non funziona. Nazareth è in Galilea, e quindi appartiene ad una parte infedele di Israele, legata al paganesimo, ed è un villaggio insignificante, un mucchio di casette d’argilla situate a quattrocento metri d’altezza (un po’ più in su della località attuale), circondate da boschetti di palme dattilifere, fichi e melograni, da vigneti e da campi coltivati a grano e orzo; dinanzi ad essa serpeggiava la strada militare romana proveniente dal Nord attraverso i monti della Galilea, e pochi chilometri a Sud una pista carovaniera raggiungeva l’animata via commerciale Damasco-Egitto attraverso la piana di Jezrael.

Matteo fa i salti mortali e cita la frase «sarà chiamato Nazir», che non c’entra moltissimo (il Nazireato è un voto temporaneo che comporta alcune pratiche ascetiche, come non rasarsi i capelli e la barba). Questo per spiegare ulteriormente quale debolezza avesse la storia di Gesù, e quale sforzo di interpretazione abbiano fatto gli Evangelisti, per comporre i Vangeli.

(dicembre 2011)

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