Antiche professioni di fede cristiane
Formule di fede, acclamazioni, inni contenuti in particolare nell’epistolario paolino ci informano su quale fosse la fede delle prime comunità cristiane

In che cosa credevano i primi Cristiani? Per saperlo, è inutile riferirsi – come fanno purtroppo molte persone, anche di buona cultura – a quanto è scritto in romanzi di basso o nullo valore culturale, o in pseudo-saggi composti non da storici ma da «professionisti della penna», giornalisti, uomini politici, attori che spacciano per rivelazioni clamorose notizie inventate di sana pianta; chiunque sia interessato all’argomento (ma questo vale per qualsiasi ricerca storica) deve «in primis» riferirsi ai testi dell’epoca, inserendoli nel contesto culturale e religioso della società che li ha prodotti. È quello che faremo in questo breve articolo.

Numerosi passi del Nuovo Testamento, principalmente nelle Lettere di Paolo, contengono frammenti antichissimi (pre-paolini) di confessioni di fede vere e proprie, acclamazioni, inni e tramandano «la fede apostolica comune, precedente la riflessione paolina. Non sono la teologia paolina, ma la base da cui Paolo parte per costruirla. Numerosi indizi lo provano» (Bruno Maggioni in Introduzione alla storia della salvezza, Torino 1973, pagina 223). Questi frammenti non vogliono semplicemente fare una «cronaca» di certi avvenimenti, bensì destare una fede che è accettazione personale e vissuta dell’azione salvifica di Dio a favore degli uomini, nella storia.

Tra i vari passi che si possono citare, ne esamineremo tre: la Prima Lettera ai Corinzi 15, 1-11, che riveste un’importanza tutta particolare, la Lettera ai Romani 1, 3-4, che è una «formula di fede», quasi un «credo» in miniatura, e la Prima Lettera a Timoteo 3, 16, un «inno», il cui contesto originario è quello delle celebrazioni liturgiche.


Prima Lettera ai Corinzi 15, 1-11

«Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!

Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è stato risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come all’aborto. Io infatti sono l’infimo degli Apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la Sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto».

Il brano è stato scritto nell’anno 56 dopo Cristo, e rappresenta una delle pagine più antiche (forse addirittura la più antica in assoluto) che abbiamo sulla risurrezione di Gesù; Paolo inoltre richiama la sua precedente predicazione a Corinto (anni 51-52), ma anche allora egli aveva semplicemente trasmesso «alla lettera» ciò che lui stesso aveva ricevuto, quindi bisogna risalire o al tempo della sua permanenza ad Antiochia (verso il 40), o addirittura al tempo della sua conversione (35 circa). Questa data è la più probabile, per ragioni sia linguistiche che stilistiche, e si colloca ad un tempo vicinissimo all’«evento fondatore» della Chiesa (Gesù viene ucciso nell’anno 30).

Ciò che fa problema agli abitanti di Corinto non è tanto la risurrezione di Gesù, quanto la risurrezione dei morti: probabilmente i Corinzi, di cultura greca, sono debitori della mentalità dualistica del tempo, in base alla quale la morte è considerata come il momento della separazione dell’anima dal corpo, quest’ultimo visto come prigione perché tutto ciò che ha a che fare con la materia è caduco, è destinato alla dissoluzione, è fonte di male e di infelicità; ciò che alcuni di essi rifiutano è la risurrezione dei corpi.

Paolo fa notare, citando Menandro, proprio un noto esponente della cultura greca, che «se i morti non risorgono, allora “mangiamo e beviamo, ché domani morremo”» (Prima Lettera ai Corinzi 15, 32): se non v’è risurrezione dei morti, viene meno un elemento fondamentale della speranza cristiana, non c’è più vera salvezza, per cui tanto vale dedicarsi allo stile di vita pagano, alla cura di sé e del proprio piacere, prima che tutto si dissolva. L’annuncio di Paolo è invece incentrato sull’affermazione che Gesù, quel medesimo Gesù che è morto sulla croce, è vivo, è risorto (in tutta la Sua realtà personale, quindi anche con il Suo corpo, benché trasformato), aprendo così per chi crede in Lui un futuro di vita e di speranza.

Il brano inizia con una dichiarazione solenne: Paolo precisa qual è il fulcro della fede cristiana, che lui non ha inventato, ma ricevuto: che Gesù è morto (un fatto storico, che accomuna la Sua sorte a quella di tutti gli uomini) per i nostri peccati – è finito sulla croce perché, pur essendosi fatto uomo per portare la salvezza agli uomini immersi nel peccato, è stato respinto e ha scelto di condividere fino alle estreme conseguenze la sorte degli uomini, legata al peccato e alla morte, mostrando così fino a che punto giunge la volontà di salvezza di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice continuamente proclamata dalle Scritture, già nel Primo (o Antico) Testamento (Dio è Colui che è alleato del Suo popolo, che non lo abbandona nonostante le sue infedeltà, che non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva). Paolo inoltre precisa che Gesù fu sepolto: per gli Ebrei, chi è sepolto è definitivamente morto, diviene polvere e non appartiene più alla comunità dei viventi.

Ma Gesù «è stato risuscitato»: l’immagine è quella del «risveglio» di un dormiente o del «rizzarsi» di uno che giace a terra, ma la risurrezione di Cristo non è la semplice rianimazione di un cadavere, il ritorno allo stato di vita precedente (come Lazzaro, o il giovane di Nain) – il Risorto dopo la Sua morte è in uno stato di vita del quale noi non abbiamo esperienza, per cui non ne possiamo parlare se non per immagini, che vogliono far intuire una realtà, non certo descriverla. E la menzione che è avvenuto il terzo giorno (nel Primo Testamento il terzo giorno era spesso considerato come il giorno della liberazione, della salvezza, della vittoria sulla morte e su ogni forma di schiavitù, dopo un intervallo di smarrimento, di crisi, di «prova»: il terzo giorno Giuseppe libera i suoi fratelli dal carcere, il terzo giorno Dio appare sul Sinai e stringe un’alleanza con il Suo popolo, il terzo giorno Giona viene liberato dal ventre della balena…), questa menzione, dicevamo, non intende precisare una data, ma suggerisce che la risurrezione di Gesù è l’evento decisivo di salvezza, di liberazione: Dio interviene a salvare chi si è affidato alla Sua volontà fino a dare la vita, non lascia il giusto nella morte, ma lo fa risorgere, inaugurando così il tempo della salvezza definitiva. Anche la risurrezione di Gesù è quindi secondo le Scritture: la Bibbia parla della potenza di Dio come di una potenza di vita e di salvezza che non si arresta di fronte a nessun ostacolo, che anche dalla morte e dal nulla sa far scaturire la vita.

Poi Gesù «si è fatto vedere», «si mostrò», «apparve»: non si tratta di un semplice farsi vedere, ma di un andare incontro all’uomo, di un entrare in dialogo con lui. Il Risorto si mostra nelle apparizioni come una persona che prende l’iniziativa di un contatto personale, in vista di un compito da svolgere da parte dei discepoli ai quali si richiede il coinvolgimento personale, la testimonianza vitale. Il linguaggio è quello narrativo, quello che si riferisce a fatti reali, ad avvenimenti fuori discussione quanto a veridicità ed a controllabilità storica: in questo senso si muove anche la lista dei personaggi che vengono citati, tutti testimoni oculari, la cui attendibilità è fuori discussione, alcuni conosciuti personalmente da Paolo.

Abbiamo innanzitutto Cefa (Simon Pietro) e i Dodici, il gruppo di discepoli che Gesù aveva costituito attorno a Sé durante la Sua vita terrena, e la cui testimonianza godeva di particolare autorità all’interno della prima comunità cristiana; poi sono menzionati cinquecento «fratelli» (qui «fratelli» sta per «Cristiani», «credenti»), molti dei quali sono ancora viventi, quindi possono essere direttamente interpellati (con tutta evidenza, erano persone di cui si sapeva il nome). Questa apparizione non è ricordata altrove nel Nuovo Testamento; viceversa, Paolo non menziona le donne (citate nei Vangeli) come destinatarie delle apparizioni: per i dubbiosi di Corinto erano necessarie testimonianze sicure, indiscutibili, e la testimonianza femminile, allora, non godeva di questi requisiti. Si menzionano quindi Giacomo (evidentemente «Giacomo, il fratello [cugino] del Signore»), che occupava una posizione influente in particolare nella Chiesa di Gerusalemme, di cui con Pietro e Giovanni era una delle «colonne», e «tutti gli Apostoli», non solo i Dodici già precedentemente ricordati ma anche altre persone, soprattutto, sembra, alcune figure di missionari, note nella Chiesa primitiva, che hanno particolarmente contribuito alla diffusione del vangelo di Cristo nel mondo di allora. Paolo cita se stesso come ultimo, riferendosi verosimilmente al suo incontro con il Cristo sulla via di Damasco: un incontro «fisico», a «tu per tu», non un’«illuminazione»; dal momento che Paolo era stato, fino a quel momento, un persecutore dei Cristiani, la sua chiamata e l’efficacia della sua predicazione mostrano con particolare evidenza la forza e la gratuità della potente azione di Dio.

«Nella Prima Lettera ai Corinzi, scritta molto prima dei nostri Vangeli, ci è dunque tramandata un’antica testimonianza sulla risurrezione, che Paolo già a Corinto predicò come “vangelo” (annuncio di gioia), che egli stesso precedentemente aveva “ricevuto” e che “trasmise” fedelmente, in accordo con la predicazione degli altri Apostoli (versetto 11). Contenuto di questo vangelo è un evento unico, straordinario e non esprimibile adeguatamente nel nostro linguaggio: Cristo morì e fu sepolto; Egli è stato risuscitato poco dopo la Sua morte secondo le promesse di salvezza dell’Antico Testamento ed è apparso a persone di cui si fa il nome e la cui attendibilità per i Corinzi era fuori discussione. Solo la fedeltà a questa “parola”, predicata fin dall’inizio nella Chiesa, porta, secondo Paolo, la salvezza» (J. Kremer, La testimonianza di 1 Cor 15, 3-8 sulla risurrezione di Cristo, in Autori Vari, Dibattito sulla risurrezione di Gesù, Brescia 1969).

La risurrezione di Cristo apre un futuro di vita per tutto l’uomo, in tutta la sua realtà personale (compreso il corpo); è inoltre una salvezza che riguarda tutti gli uomini: il destino di Gesù è il nostro stesso destino. L’ultima parola di Dio è una parola di vita, non di morte: la vicenda dell’umanità intera non è nelle mani del caso o del destino, ma ha un senso, e un senso di vita, di salvezza; chi non ha capito questo, non ha capito l’elemento centrale della fede cristiana, anzi, non conosce Dio, quel Dio di cui parlano le Scritture e che non lascia nella morte coloro che fino alla morte si sono impegnati ad eseguire la Sua volontà: alla morte segue la risurrezione. Questo è il vangelo che Paolo annuncia!


Lettera ai Romani 1, 3-4

«…riguardo al Figlio Suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore».

Si tratta di una formula di fede antichissima, che Paolo ha inserito nella solenne apertura di questa sua lettera di presentazione ai Cristiani di Roma: la sua fede ha al centro «Gesù Cristo, nostro Signore», che manifesta pienamente Se stesso e tutta l’azione salvifica di Dio nei confronti degli uomini con la Sua risurrezione. Chi risorge non è però semplicemente un Dio in forma umana, ma un uomo preciso, vissuto in un certo modo, dotato di una inconfondibile individualità storica. Il Figlio si è fatto veramente uomo, è diventato uno di noi, partecipe della nostra vicenda terrena; è nato alla vita come nascono tutti i figli dell’uomo e in un popolo preciso, destinatario delle promesse di Dio: è della stirpe di Davide, e «Davide è tutta la storia di Israele e la speranza che un giorno possa trovare il proprio coronamento glorioso» (F. J. Leenhardt, L’épître de Saint Paul aux Romains, Neuchâtel-Paris 1957, pagina 22). L’esistenza umana e terrestre di Gesù sbocca sulla risurrezione che dà inizio alla vita che più non muore, quella alla destra del Padre.

L’idea è quella dell’esaltazione: secondo le promesse del Primo Testamento, il Messia viene riconosciuto come tale ed esaltato, intronizzato come dominatore sui popoli e sulla storia; la risurrezione di Gesù apre per tutti i popoli del mondo, per tutti gli uomini, un futuro di vita e di salvezza. Gesù, il Figlio, nascendo tra noi come uno di noi, rivela la potenza di Dio, la forza con la quale Dio sconfigge la morte, ed anche dal nulla sa far sorgere la vita.


Prima Lettera a Timoteo 3, 16

«Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà:
Colui che si è manifestato nella carne,
è stato giustificato nello Spirito,
è stato presentato agli angeli,
è stato annunziato alle nazioni,
è stato creduto dal mondo,
è stato elevato nella gloria».

Nella vita della primitiva comunità cristiana, uno dei luoghi caratteristici dell’annuncio è la liturgia: nell’assemblea di culto la comunità dei discepoli sperimenta e vive quello che predica, celebra quello che crede; le formule usate traducono la fede comune dei partecipanti alla celebrazione liturgica, e costituiscono quindi un’espressione significativa del modo con il quale i primi Cristiani leggevano il mistero da essi creduto ed annunciato. Ha scritto C. H. Dodd, in La predicazione apostolica e il suo sviluppo (Brescia 1973, pagina 83), che «quando la Chiesa diede un assetto stabile alla propria vita, il contenuto del kerygma [annuncio] entrò a far parte della “regola di fede” riconosciuta dai teologi del II e III secolo come presupposto della teologia cristiana. Dalla “regola di fede” a sua volta venne fuori il “credo”… Nello stesso tempo il kerygma esercitò un influsso moderatore sulla formazione della liturgia. Mentre la teologia progrediva oltre le posizioni stabilite da Paolo e Giovanni, la forma e il linguaggio della Chiesa orante restarono più aderenti al modello del kerygma. Forse proprio in alcuni punti delle grandi liturgie della Chiesa ci troviamo maggiormente vicini alla predicazione apostolica originaria».

È interessante allora accostare anche testi originariamente liturgici, rintracciabili nella produzione neotestamentaria; questo è il caso della Prima Lettera a Timoteo 3, 16, un inno (o frammento di inno) celebrativo-liturgico inserito solo in un secondo tempo nella lettera al discepolo e collaboratore di Paolo, Timoteo.

L’inno è tutto giocato sul parallelismo antitetico terra-cielo: il mistero della glorificazione di Cristo si realizza tra due sfere contrapposte («carne», «nazioni», «mondo» da un lato; «Spirito», «angeli», «gloria» dall’altro: mondo terrestre e mondo celeste), che accostate alludono al creato preso nella sua interezza. Si parla della manifestazione di Gesù nell’umiliazione della carne e nella gloria dello Spirito.

Questi pregnanti versetti, che coinvolgono il cielo e la terra, sono espressione dell’universalità della rivelazione salvifica di Dio in Gesù Cristo: in Lui si riconciliano il cielo e la terra.

Questo è il kerygma che viene annunziato: la sua diffusione trascende i confini angusti di una cultura e di una razza, per essere universale («nazioni» non abbraccia solo i pagani in quanto differenziati da Israele, unico «popolo di Dio», ma l’intera umanità, includendo perciò anche Israele, attraverso cui è giunta la promessa e la benedizione).

Al centro del «mistero della pietà» c’è il Cristo glorificato: dimorante nella gloria di Dio, ma la cui azione di salvezza penetra nel profondo tutto il mondo e tutta la storia.


Conclusione

Dai testi esaminati emerge chiaramente la centralità della Pasqua di Cristo nella vita di fede della prima comunità cristiana; questa centralità è evidente nella testimonianza della predicazione, nelle professioni di fede, nelle celebrazioni liturgiche… ciò cui si rivolge la fede degli Apostoli e dei primi discepoli non è la vicenda storica di Gesù, ma è la conclusione, la morte e risurrezione: quel Gesù che è stato crocifisso è risuscitato ed è vivo, per la nostra salvezza. Il Signore Gesù non ha abbandonato i Suoi discepoli dopo la Sua morte: Egli è ancora in mezzo a loro, e si è mostrato vivo in diversi modi. Ciò che i primi Cristiani credono nella fede, annunciano nella predicazione, celebrano nella liturgia e testimoniano nella vita, non è un coacervo inestricabile di verità astratte o una serie di avvenimenti slegati tra loro, ma ha un suo punto di riferimento originario, preciso e inconfondibile: la Pasqua di Cristo.

La «buona notizia» che ci è testimoniata è che Gesù, morendo, non è scomparso nel nulla, ma è giunto a Dio: Egli è vivo, assunto con tutta la Sua realtà personale in quella pienezza di vita che supera ogni nostra aspettativa, che sfugge ad ogni nostro tentativo di comprensione esaustiva. È con il Padre.

Ed ha aperto per noi la strada: là dove è Lui, saremo anche noi.

(marzo 2013)

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