L’infanzia di Gesù
Come vanno letti i primi capitoli dei Vangeli scritti da Matteo e da Luca

Da qualche anno, vanno di moda i libri che trattano la storia delle religioni, ed in particolare della religione cristiana, argomento perlopiù sconosciuto al grande pubblico (a parte scarni residui delle lezioni di catechismo, dispersi in qualche recondita piega della memoria). Purtroppo, a scrivere questi testi sono per la maggior parte non teologi o storici, ma una vasta pletora di giornalisti, romanzieri, professionisti della penna o aspiranti tali, ideologi politici, pseudo filosofi, attori, veline, liberi pensatori (liberi da che cosa? A giudicare dalle castronerie che scrivono, liberi di non pensare quando scrivono…) ed altra gente che non ha idea di come vada letto un testo sacro (e nella fattispecie la Bibbia), e che legge i Vangeli come leggerebbe la «Gazzetta dello Sport» o il «Corriere della Sera». Quando addirittura non sciorina a piene mani «sensazionali rivelazioni» che non si sa da dove saltan fuori.

Nelle prossime pagine, vorrei fare un esempio di come ci si deve accostare ad un testo sacro (ma si potrebbe usare il criterio con qualsiasi scritto antico): interrogandolo nel contesto in cui fu composto, senza manipolarlo, soprattutto senza pretendere che ci dica quello che noi vorremmo che ci dicesse.

Dato che fra poco è Natale, cerchiamo di capire perché Matteo e Luca, che ci hanno parlato dell’infanzia di Gesù (Vangelo secondo Matteo, 1,1 – 2,23; Vangelo secondo Luca, 1,1 – 2,52 e 3, 23-38), hanno scelto di riportare alcuni fatti ed eventi. A cominciare dalla Sua nascita.

Nella Bibbia si trovano diverse narrazioni di nascite di personaggi importanti: Isacco (Genesi, 21, 1-7), Giacobbe (Genesi, 25, 25-26), Mosè (Esodo, 2, 1-10). È possibile parlare di un genere letterario, il cui senso fondamentale comunque non è quello documentaristico, e neppure può essere imparentato con i racconti propri delle mitologie greche e latine: bensì è quello di mettere in luce come anche questi avvenimenti si inseriscano nella storia della salvezza, e quale funzione avranno in essa i personaggi in questione.

A proposito di Gesù, il Nuovo Testamento afferma che la Sua nascita avviene nella pienezza dei tempi (Lettera ai Galati, 4, 4; confronta la Lettera agli Efesini, 1, 10), cioè come inizio del tempo della realizzazione piena della volontà salvifica di Dio, il tempo del «compimento».

Le genealogie che Matteo e Luca inseriscono nei loro Vangeli aprono da questo punto di vista una serie di prospettive: non dimenticando che, nel mondo ebraico, non solo la comunanza di sangue, ma anche semplicemente quella «genealogica» (giuridica) indica comunanza di destino, di passato, di presente e di futuro. Per Matteo, Gesù è l’erede di tutte le promesse fatte da Dio al Suo popolo, da Abramo a Davide, e rinnovate dopo l’esilio: queste promesse si adempiono, e si adempiono in Lui. La parola di salvezza di JHWH (Dio), rivolta al popolo di Israele e che si inserisce nella storia dell’umanità attraverso le traversie storiche di questo popolo, non viene smentita: trova la sua realizzazione in questo «figlio di Davide, figlio di Abramo» (Vangelo secondo Matteo, 1, 1). E la storia di questo popolo è una storia anche di infedeltà, di debolezze, di persone la cui condotta non fu sempre irreprensibile davanti a Dio: è in questa storia che Gesù entra, per portarvi la salvezza promessa da Dio.

Ma il popolo di Dio è solo lo strumento concreto perché la «grazia» di JHWH si manifesti e arrivi a tutti gli uomini: il destinatario delle promesse di Dio non è il popolo ebraico, ma l’umanità intera. Per cui si deve risalire nella genealogia non solo fino ad Abramo, ma fino ad Adamo (come fa Luca: Vangelo secondo Luca, 3, 23-38): è tutta la storia dell’umanità, con tutto il suo carico di peccati, di debolezze, di infedeltà che trova in Cristo il suo giudice e salvatore. La nascita di Gesù è l’inizio di un «mistero» che non ha origine «dal sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio» (Vangelo secondo Giovanni, 1, 13): già qui è radicalmente implicato quell’amore che amerà gli uomini «fino alla fine» (Vangelo secondo Giovanni, 13, 1).

E già il comportamento degli uomini davanti a questa nascita fa presagire quale sarà il destino di questo Bambino, quali saranno le opposizioni che dovrà superare; anche in questo senso la Sua venuta nel mondo è un «compimento», perché chiarisce la vera «natura» dell’uomo e quello che c’è nel cuore di ciascuno.

Questa è l’umanità della quale Gesù è entrato a far parte: il suo «mistero» rivela quello dell’uomo, abolendo le false apparenze, le false sicurezze (la Legge, la discendenza da Abramo, il potere, le ricchezze).

Matteo anticipa quello che succederà nella vita di questo Bambino, quando il popolo di Dio non lo vorrà riconoscere e lo perseguiterà: Egli è venuto per tutti, ma proprio a Gerusalemme incontrerà le ostilità più profonde. È il tema ricorrente dell’episodio dei Magi[1] (simboli dei popoli del mondo, dell’intera umanità che giungerà ad adorare il Signore), della fuga in Egitto (il persecutore, adesso, è Erode; poi saranno gli stessi Giudei), della strage degli innocenti: il popolo di Dio è un popolo peccatore, infedele alle promesse, che non sa scorgere l’azione di Dio nella storia, e vi si oppone. Per questo il vero popolo di Dio non è più caratterizzato dalla discendenza secondo il sangue da Abramo, ma dalla capacità di muoversi ad adorare il Re dei Giudei (confronta il Vangelo secondo Matteo, 8, 11 e seguenti).

Per Luca questa disponibilità è tipica dei «poveri» (Vangelo secondo Luca, 2, 8-20): per loro è l’annuncio del Vangelo, e loro saranno i primi «annunciatori» di questo avvenimento (Vangelo secondo Luca, 2, 18; confronta anche la «povertà» della sterile Elisabetta e della vergine Maria, i tre cantici di Zaccaria, Maria e Simeone, che richiamano tutta la tematica dei «poveri di JHWH»…).

Anche in questo senso la nostra «carne» è «carne di peccato» (Lettera ai Romani, 8, 3): perché svelerà le resistenze più inaspettate davanti a questo Bambino.

L’episodio successivo, che a noi dice poco o nulla ma per un Ebreo del tempo era fondamentale, è quello della circoncisione, ovvero il rito mediante il quale l’Israelita veniva incorporato al suo popolo (Genesi, 17; confronta gli Atti degli Apostoli, 7, 8). Da una parte era il segno che anche per il bambino che veniva circonciso valevano le promesse fatte da Dio ad Abramo e alla sua discendenza; dall’altra era il segno dell’accettazione, da parte dell’uomo, della volontà di JHWH e delle esigenze della Sua Alleanza. Gesù quindi entra definitivamente a far parte del Suo popolo, «compiendo» le prescrizioni della Legge: e la Sua vita sarà un ratificare le esigenze del patto stipulato da Dio con Abramo.

Però la circoncisione non ha valore solo come gesto esteriore: è la circoncisione del cuore che conta (Geremia, 9, 24-25), e solo per questa via l’uomo può davvero possedere la salvezza operata da Dio per lui. Così sarà per Cristo: sarà attraverso la Sua «ubbidienza» che salverà davvero il Suo popolo (Lettera agli Ebrei, 3, 1 e seguenti). Inoltre, il sangue della circoncisione non era senza legami con il sangue dell’agnello immolato a Pasqua: è al sangue dell’agnello pasquale versato sugli stipiti delle porte che viene attribuito il passaggio benigno di JHWH che salva i «circoncisi» dalla morte (Esodo, 12).

L’assoggettarsi di Cristo alla Legge non è mai da leggere in chiave puramente esteriore: Egli è il «compimento» della Legge non perché la completa, aggiungendo precisazioni che prima mancavano, ma nel senso che ne vive le esigenze ultime.

La presentazione di Gesù al Tempio fonde insieme due diverse prescrizioni legali che erano, nella legislazione ai tempi di Gesù, ben distinte: una era la legge della purificazione, riguardante la madre che aveva partorito, l’altra era la legge del primogenito.

Secondo la prima prescrizione la puerpera, dopo la nascita sia del primo che degli altri figli, era considerata impura, e dopo quaranta od ottanta giorni dalla nascita del bambino doveva recarsi a Gerusalemme e qui, davanti alla porta di Nicanore, consegnare nelle mani del sacerdote il sacrificio prescritto consistente, per i più poveri, in due piccoli colombi o due tortore (Vangelo secondo Luca, 2, 24): ma non si dice che la donna dovesse essere accompagnata dal marito, e tanto meno dal bambino.

Secondo la legge del primogenito invece (Esodo, 13, 12 e seguenti), essendo questi proprietà di Dio doveva essere «riscattato» con il pagamento da parte del padre di cinque sicli a qualsiasi sacerdote in tutto il Paese; ancora una volta, non sembra giustificata la presenza di Giuseppe e del Bambino a Gerusalemme. Non solo: Luca, nel suo racconto, non parla di prezzo del riscatto, bensì solamente del sacrificio prescritto dalla legge della purificazione.

Probabilmente, il punto su cui riflettere è il significato della legge del primogenito (riguardante ogni uomo, perché il primogenito rappresentava tutta la famiglia): egli sarebbe destinato alla morte perché, prima della liberazione dall’Egitto, è nella schiavitù (quindi nella morte), ma Dio interviene a liberarlo, restituendolo alla vita. In ricordo, il primogenito viene offerto a JHWH: il quale lo libera, e lo restituisce ai genitori.

Il sacrificio pasquale è il segno di questo intervento di Dio; il sacrificio e il riscatto per il primogenito non sono il prezzo pagato a Dio perché lo liberi dalla morte, ma sono il segno della volontà «riscattatrice» e liberatrice di Dio.

Allora Maria e Giuseppe «presentano» questo Bambino al Tempio perché riconoscono che è «proprietà» di Dio, è direttamente implicato nella Sua volontà di salvezza: è «salvezza e luce per tutti i popoli» (Vangelo secondo Luca, 2, 30 e seguenti).

Sarà quanto verrà espresso da Gesù stesso dodicenne nel Tempio: Egli ha un particolare legame con «ciò che concerne il Padre Suo» (Vangelo secondo Luca, 2, 49). Gesù cresce «in sapienza e grazia» (Vangelo secondo Luca, 2, 52): e questa Sua crescita comporta una sempre più approfondita consapevolezza delle esigenze della Sua dedizione al Padre, e del particolare legame che lo lega a Lui, appunto come Suo «Padre».

Cioè anche qui ancora una volta si rivelano le «componenti» della Sua manifestazione agli uomini: da una parte Egli è sottomesso alla Legge come un qualunque giovane israelita (la Sua salita al Tempio per la Pasqua rientrava nell’educazione che ogni Ebreo riceveva perché, a partire dai tredici anni, fosse già abituato ad adempiere all’obbligo di recarsi a Gerusalemme almeno per la festa di Pasqua), parla con i dottori della vecchia Alleanza, ritorna con i Suoi a Nazareth; ma dall’altra Egli ha uno specialissimo rapporto con Colui che abita nella casa di Dio, perché è «Padre Suo».

Tutta la vita «privata» di Gesù è sotto il segno di questa tensione caratteristica. Egli è veramente uno di noi, nato e cresciuto in un popolo determinato, educato agli usi e costumi dei Suoi connazionali: non «nonostante» questo, ma «in» questo Egli è la rivelazione di Dio, il compimento delle promesse antiche, l’inizio di un nuovo popolo di Dio (Vangelo secondo Matteo), di una nuova umanità (Vangelo secondo Luca). Se teniamo presente che i Vangeli dell’infanzia sono fra i capitoli più elaborati della teologia neotestamentaria, si deve affermare che il loro genere letterario è praticamente agli antipodi di tutto quel tipo di letteratura che, di fronte ai personaggi famosi, ricerca segni straordinari già a partire dalla nascita: la sottolineatura non è nel senso della «straordinarietà», ma nel senso del «nascondimento».


Nota

1 Il termine Magi significa «uomini saggi», e l’Oriente da cui Matteo dice ch’essi venivano era la Persia. Grazie ad una vita austera e monogama, ad un migliaio di precise osservanze riguardanti i riti sacri e la purezza del cerimoniale, all’astensione dalla carne come cibo e ad un vestiario semplice e senza pretese, i Magi avevano acquistato anche tra i Greci un’alta reputazione di saggezza, e tra il proprio popolo un’influenza quasi illimitata: gli stessi Re Persiani erano divenuti loro allievi, e non avevano preso mai alcuna decisione importante senza prima consultarli. Fra di essi le classi più alte erano formate dai saggi, le più basse da indovini, stregoni, astrologi e interpreti dei sogni: la stessa parola «magico» deriva dal loro nome.
I doni che i Magi recavano a Gesù avevano un preciso significato simbolico: l’oro era il segno della regalità; l’incenso della divinità; la mirra, un profumo usato sui corpi dei morti, da una parte indicava il destino di Gesù – la morte sulla croce –, dall’altra richiamava l’«unzione» con cui il popolo d’Israele consacrava i Re e i profeti quali «inviati» da Dio. Quanto ai nomi dei Magi, essi non sono menzionati nel Vangelo secondo Matteo, mentre i Vangeli apocrifi parlano di Melco, Caspare e Fadizarda; nomi confermati da una recente scoperta archeologica: nel deserto egiziano è stata rinvenuta la parete di un antico monastero in cui erano scritti in rosso i nomi Gaspare, Belchior, Barhesalsa.

(dicembre 2013)

Tag: Simone Valtorta, Bibbia, Vangeli dell'infanzia, Cristianesimo, Dio, JHWH, Vangelo secondo Matteo, Vangelo secondo Luca, Erode, Magi, Natale, Natività, Tempio, Giuseppe, Maria, circoncisione.