Le indagini archeologiche sulle persecuzioni dei Cristiani a Roma
(I-IV secolo)

Nell’arco dei secoli si sono sovente confrontate tra loro due diverse correnti di pensiero. Da una parte si presentava Roma come la città dei martiri (con riferimento al I-IV secolo). E si sviluppava un culto che dalle catacombe si prolungava nelle chiese urbane dedicate a chi aveva testimoniato la fede in Cristo fino allo spargimento del proprio sangue. Venne perfino costruita un’edicola sacra all’interno dell’anfiteatro Flavio, e poi la piccola chiesa di Santa Maria della Pietà al Colosseo. Dall’altra, si cominciò a mettere in discussione il numero dei martiri, le loro storie (contestando le «fontes») fino a negare completamente il martirio di cristiani nel Colosseo. Le conclusioni, in definitiva, disegnavano ombre sugli studi cattolici e sulle consuetudini, e arrivavano a sollevare ampie riserve sull’ubicazione del sepolcro dell’Apostolo Pietro nell’«ager Vaticanus».[1] A questo punto, qual è la verità?


Le prime evidenze

Nel momento in cui le ricerche archeologiche hanno assunto caratteri sempre più scientifici, ci si è resi conto di un fatto: l’antica Roma è stata anche una città di martiri cristiani. Si tratta, però, di specificare meglio le risultanze degli scavi e degli studi condotti ad esempio nella necropoli posta vicino all’antica via Cornelia, nelle catacombe (San Callisto, San Sebastiano, Sant’Ippolito, Priscilla...), nelle chiese paleocristiane, al Palatino (graffito), nell’area del teatro di Balbo (chrismon segnati su lucerne[2]), nel Colosseo[3] (graffito), nel «cryptoporticus» posizionato nella zona compresa tra Via Lucullo e Via Friuli (area di proprietà dell’ambasciata USA; chrismon).


Roma nel I secolo dopo Cristo

Nel contesto delineato, occorre cercare di comprendere com’era Roma nel I secolo dopo Cristo (nel periodo cioè delle persecuzioni neroniane). Partendo da un contesto politico, è utile ricordare una prima successione di Imperatori. Sono quelli della dinastia giulio-claudia: Augusto (27 avanti Cristo-14 dopo Cristo), Tiberio (14-37), Caligola (37-41), Claudio (41-54) e Nerone (54-68). Negli anni dell’ultimo Imperatore non era stato ancora costruito né l’anfiteatro Flavio (inizio lavori con Vespasiano nel 72 dopo Cristo, inaugurato con Tito otto anni dopo), né l’anfiteatro castrense (risale agli inizi del III secolo dopo Cristo). Esisteva il Circo Massimo (le prime installazioni in legno risalirebbero al VI secolo avanti Cristo) e il teatro di Balbo (13 avanti Cristo). Sul piano religioso diverse norme speciali garantivano la protezione del culto ebraico nell’Urbe. Gli Ebrei[4] erano esenti dal partecipare al culto dell’Imperatore. Questo avveniva non sul piano formale (perché a livello legale non esisteva nessuna esenzione di questo genere), ma di fatto. Le autorità si accontentavano di una forma di omaggio indiretta. Quest’ultima si manifestava nelle iscrizioni in formule come «Deo aeterno pro salute Augusti» (si trovano ad esempio nella sinagoga ad Ostia), e simili. Unitamente a ciò, gli Ebrei erano dispensati dal dovere di festeggiare le festività pagane, salvo quelle in onore dell’Imperatore (ma erano esenti dalle manifestazioni cultuali). Nell’ambito del sistema viario, i Romani avevano costruito più percorsi. Tra questi, ai fini del presente studio, si ricordano la Via Clodia (orientata verso la Toscana), la Via Triumphalis (conduceva a Veio) e la Via Cornelia (verso Caere-Cerveteri).


La Via Cornelia

Le vie romane servivano principalmente per fini militari e commerciali, ma anche per facilitare in genere i collegamenti tra zone diverse dell’Impero. Ai lati di queste strade si trovavano di frequente monumenti, trofei, «horti»[5], abitazioni di vario tipo. Vi erano pure posizionate delle aree mortuarie. Qui, venivano sepolte persone di ogni ceto sociale. La Via Cornelia, in particolare, attraverso la Porta Cornelia (posizionata in prossimità del ponte Elio), si lasciava alle spalle l’Urbe e si snodava verso Ovest, lungo il muro settentrionale del Circo di Nerone. Proprio in quel tratto iniziale era posizionata anche una necropoli.[6]


Il Circo di Nerone

Quello che viene denominato Circo di Nerone fu in realtà un progetto realizzato nel 37 dopo Cristo dall’Imperatore Caligola[7]. Quest’ultimo, per segnarne la spina, fece collocare un obelisco egizio prelevato da Alessandria d’Egitto dove decorava il Forum Julii. L’ippodromo per un lungo periodo fu adibito ad uso privato e non pubblico. L’opera venne realizzata nell’area degli «Horti di Agrippina». La proprietaria del terreno era infatti la madre di Caligola, Agrippina Maggiore.[8] Quando quest’ultima morì, il possedimento passò in eredità a Nerone (33 dopo Cristo). Questi, fece ristrutturare il Circo. La struttura, in gran parte di legno con murature leggere integrate con opere di giardinaggio, rimase sempre una proprietà privata. Comunque, in talune occasioni, l’Imperatore utilizzava il Circo per rendersi popolare con la gente dell’Urbe. Ai «giochi» del tempo (specie corse di cavalli, bighe e quadrighe) potevano così assistere i cittadini controllati da militari. L’Imperatore era invece protetto dai pretoriani (guardie del corpo).


Il sistema carcerario del tempo

L’ordine pubblico a Roma era controllato dalla corte pretoria (la comandava un prefetto) e dalla corte urbana (agli ordini di un prefetto urbano). In seguito, nell’ambito dell’organizzazione militare, furono istituiti tra il II e il III secolo i «frumentarii». Si trattava di guardie che procedevano agli arresti. Provenivano dalle legioni. Svolgevano un servizio di sicurezza e di spionaggio. Le persone che erano colpevoli di reati erano rinchiuse in luoghi di segregazione. Per i nemici dello stato esisteva un carcere chiamato Tullianum (in seguito «Mamertino»), a ridosso della Via Sacra nel Foro. Esistevano poi diverse altre carceri pubbliche sulle quali la documentazione rimane deficitaria. La conferma della loro esistenza si ricava anche da un brano del politico e giurista Ulpiano (morto nel 228 dopo Cristo) che riporta un rescritto dell’Imperatore Adriano, quando quest’ultimo si stava occupando di formalizzare i regolamenti per la gestione dei carcerati. Il brano, in particolare, riguardava i «pannicularia», cioè la gestione degli effetti personali dei carcerati. Inoltre, dall’inizio del III secolo dopo Cristo esistevano dei funzionari (i «commentarienses») che avevano compiti di polizia penitenziaria.


L’incendio del 64 dopo Cristo

Nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 dopo Cristo nella zona del Circo Massimo scoppiò un violento incendio.[9] Non fu possibile spegnere le fiamme in tempi brevi. Questa calamità durò sette-otto giorni. Diverse regioni (quartieri) di Roma furono colpite (alcune distrutte). A questo punto si crearono dei gravi problemi. Da una parte era alto il numero di persone rimaste senza casa. Dall’altro, era necessario assistere i cittadini colpiti dall’evento nelle loro necessità primarie, e provvedere a una ricostruzione di più aree urbane. Quando si verificò il dramma Nerone non era nell’Urbe (stava ad Anzio). Una volta informato, raggiunse la capitale e dette ordine di organizzare i soccorsi. Furono messe a disposizione degli abitanti di Roma zone ove alloggiare (sia pure in modo precario), e ci si preoccupò di distribuire viveri. Malgrado tali interventi (ai quali si aggiunsero nuovi criteri edilizi), si diffuse tra la popolazione la convinzione che l’incendio era di natura dolosa. In molti pensavano a una strategia mirata: far crollare il valore di vaste aree cittadine con successivo loro acquisto a basso prezzo. L’ideatore di tale piano fu individuato nello stesso Nerone. Era noto infatti che il Monarca intendeva farsi costruire un grande palazzo non lontano dal Palatino.[10]


Le accuse ai Cristiani

I rapporti trasmessi all’Imperatore informavano delle tensioni esistenti tra la popolazione. Si profilava il rischio di una rivolta (fatto non inusuale nell’Urbe[11]). Per evitarla era necessario trovare un capro espiatore. Non si potevano accusare i senatori. La nobiltà era intoccabile. L’esercito era da tutelare. Esistevano poi diverse comunità protette. Tra queste quella degli Ebrei (presenti a Roma dal II secolo avanti Cristo). Allora chi colpire? Furono così individuati i Cristiani. Costituivano infatti l’anello più debole della catena. Limitati nel numero, non presenti in posti di potere, erano stati accusati in più occasioni di comportamenti non degni di un «cives romanus» (riunioni segrete con fini immorali). Per diverse persone del tempo era arrivata l’occasione per neutralizzare una setta di individui che gli Ebrei rigoristi consideravano eretici. I Cristiani, infatti, provenivano dal mondo ebraico (di cui avevano conservato alcune usanze) ma, in modo graduale, si stavano allontanando dal mondo della sinagoga per professare una diversa dottrina (cristocentrica) e per celebrare dei nuovi riti («Fractio panis»).


Gli arresti e i processi

Cominciarono a questo punto gli arresti e le detenzioni. Ma i militari come riuscirono a individuare i Cristiani, visto che questi non avevano segni distintivi? Qualche accertamento, probabilmente, era stato fatto in occasione del precedente provvedimento dell’Imperatore Claudio[12] che espulse (momentaneamente) i Giudei da Roma «impulsore Chresto» (49 dopo Cristo). In questo caso, però, non si fece una netta distinzione tra Ebrei e Cristiani. Quest’ultimi, infatti, non erano ritenuti membri di una religione autonoma ma parte integrante dell’ebraismo (setta minoritaria). Nel 68 dopo Cristo, al contrario, avvenne un fatto nuovo. Furono catturati i Cristiani ma non gli Ebrei. Viene da chiedersi: come fecero le autorità del tempo a distinguere esattamente i Cristiani dagli Ebrei? Riguardo a questo interrogativo esistono più ipotesi. Una delle tesi evidenzia il fatto che – in precedenza – Ebrei ortodossi, non potendo condannare i seguaci di Cristo, erano ricorsi ai tribunali del tempo. L’iniziativa, però, non aveva avuto l’esito sperato perché i Romani in materia religiosa erano tolleranti, non interessati ai confronti teologici. Comunque, dalle denunce, risultavano dei nomi con l’indicazione delle abitazioni. Un’altra tesi preferisce indicare una possibile azione di delatori. I potenti del tempo avevano una rete di informatori (anche infiltrati). In tale contesto, in tempi che si ritiene diversi, subirono l’arresto anche gli Apostoli Pietro e Paolo. La tradizione successiva ha voluto indicare nel carcere Tullianum (poi Mamertino) il luogo di detenzione degli Apostoli. Ma gli storici rimangono in genere di diverso avviso. Tale edificio era riservato ai nemici dello stato. Pietro, umile pescatore di Galilea, non poteva essere considerato nemico dello stato. Inoltre, Paolo era «cives romanus». Si trovava già sotto custodia (confronta gli Atti degli Apostoli). E dopo la seconda condanna venne, quasi sicuramente, scortato direttamente dal tribunale al luogo del supplizio (in località Aquae Salviae).


L’esecuzione di Pietro

Sulle modalità dell’uccisione di Pietro non esistono resoconti contemporanei. Il fatto che fosse stato crocifisso a testa in giù risale a documenti successivi (non in sintonìa con la prassi romana). Permangono piuttosto degli interrogativi: 1) dove vennero posizionati i pali destinati ai condannati? 2) Che fine facevano i corpi degli uccisi? 3) Dove Pietro ebbe la prima sepoltura?

1) Per rispondere al primo quesito è utile ricordare due punti:

– i Romani avevano l’abitudine di crocifiggere i condannati lungo le strade più importanti del tempo (specie quando si trattava di nuclei di individui). Si pensi, ad esempio, a quanto avvenne dopo la repressione della rivolta di Spartaco e dei suoi gladiatori (73-71 avanti Cristo);

– l’agonia dei condannati, i loro tormenti, le grida, il sangue: tutto doveva essere osservato a distanza ravvicinata. La gente del tempo aveva uno «spettacolo» da vedere, ma memorizzava anche un «memento», un messaggio: chi andava contro lo stato avrebbe ricevuto «quel» trattamento. Tenendo conto di ciò, si può presumere una crocifissione dei Cristiani soprattutto nel primo tratto della Via Cornelia. In tale contesto, è da escludere un posizionamento dei pali «dentro» il Circo di Nerone perché quest’ultimo era un’area caratterizzata da una simbologia astrologica[13], oppure sul colle Gianicolo (non avrebbe consentito un’osservazione «de visu» delle agonie legate alla «crucifixio» o alla «vivi crematio» («damnatio ad flammas»).[14]

2) Per rispondere al secondo quesito è necessaria una premessa:

– esisteva una «damnatio memoriae» nei casi più eclatanti (personaggi politici apicali caduti in disgrazia);

– chi era condannato a morte con accuse infamanti aveva come prospettiva una fossa comune anonima (i Cristiani furono addirittura accusati di odiare il genere umano);

– in talune realtà minori la salma del condannato era restituita a possibili richiedenti.

Nel caso dell’Apostolo Pietro si trattava di una persona anonima per il potere romano. Era inserito in un gruppo di condannati accusati di avere in odio il genere umano. Venne quindi trattato come un qualunque malfattore. Inoltre la sua agonia non ebbe alcun conforto perché le guardie del tempo consentivano di osservare i crocifissi ma non di avvicinarsi a loro.

3) Per rispondere al terzo quesito è necessario tener presente alcune criticità:

– per recuperare la salma del martire era necessario interagire con chi era preposto alla sorveglianza;

– per deporre il corpo di Pietro in un luogo capace di rispettare la memoria si dovevano evitare le guardie che circondavano l’area del Circo (presenti specialmente nei pressi del ponte di Nerone).

Considerando quindi il contesto indicato, la scelta non poté che orientarsi su una prassi diffusa (pagare i soldati per riprendere il corpo del martire). Si individuò contemporaneamente un punto (il più vicino possibile) adatto a scavare una buca (per deporre la salma). Utilizzando la necropoli pagana della Via Cornelia non si perse tempo e si riuscì a non attirare l’attenzione di qualche possibile delatore. La tomba di Pietro rimase in quel periodo molto povera per più motivi: per l’urgenza di seppellirlo (lo scavo fu poi coperto con un tetto di mattoni, «a cappuccina»), e per la persecuzione che proseguì ancora per qualche anno solo all’interno delle mura dell’Urbe.


Gli eventi successivi

Le persecuzioni neroniane si protrassero oltre il 64 dopo Cristo. I Cistiani non furono quindi eliminati in un’unica occasione. La logica sottesa a tale fatto è che occorreva dimostrare al popolo (rimasto senza un’abitazione) che la politica governativa continuava ad essere inflessibile verso chi si era reso colpevole di gravi reati. In tale contesto, si comprende allora la tendenza degli storici a collocare la decapitazione di San Paolo intorno al 67 dopo Cristo. Solo quando il Cristianesimo divenne una religione non avversata dall’Imperatore (accordo di Milano del 313 dopo Cristo tra Costantino e Licinio) si poté sviluppare un culto pubblico ai martiri (i cui sepolcri rimanevano comunque noti). Tale orientamento fu caratterizzato da processi di memoria («traditio» e scritti) e da momenti liturgici (celebrazioni).[15] Tra il 318 e il 322 venne edificata la basilica di San Pietro. Da questo momento in poi si snoda una storia secolare. Negli anni compresi tra il 1939 e il 1949 furono eseguiti nell’area sottostante la basilica vaticana di San Pietro una serie di scavi che consentirono di individuare una necropoli[16] e il sepolcro dell’Apostolo Pietro. In seguito, l’epigrafista Margherita Guarducci studiò (1952-1965) un muro, posizionato accanto al succitato sepolcro, caratterizzato da un elevato numero di graffiti.[17]


Le evidenze archeologiche

Dagli studi succitati emersero una serie di dati non deboli:

– per costruire la basilica costantiniana non si utilizzò (come sarebbe stato ovvio, e sicuro per la solidità della nuova costruzione), lo spazio piano tra Gianicolo e Vaticano (che era stato occupato dal Circo), ma si volle fare corrispondere il punto centrale della basilica, all’intersezione tra navata centrale e transetto, con la sepoltura dell’Apostolo;

– non utilizzando lo spazio piano succitato, si dovette affrontare un gravoso lavoro ingegneristico. Fu necessario realizzare una vasta piattaforma artificiale, da un lato tagliando le pendici del colle Vaticano, dall’altro seppellendo e utilizzando come fondamenta le strutture della necropoli sviluppatasi lungo il lato settentrionale del circo tra I e IV secolo. Ciò poteva essere motivato solo da una ragione di particolare importanza (sepolcro di Pietro);

– l’asse di simmetria dell’intera basilica costantiniana coincide con quello del parallelepipedo fatto edificare dall’Imperatore per proteggere la tomba di San Pietro e il muro dei graffiti;

– la posizione della fossa dell’Apostolo rimane anomala rispetto alla collocazione delle tombe del tempo. Tale fatto attesta la fretta dello scavo, la povertà dei mezzi, e l’esigenza di un luogo abbastanza nascosto;

– in seguito, vennero posizionate varie tombe vicino al sepolcro di San Pietro. Tali lavori, comunque, rispettarono sempre l’area prospiciente il punto di sepoltura dell’Apostolo;

– il ritrovamento di una colonnina, sopra la tomba di Pietro, conferma quanto già indicato dal presbitero romano Gaio in uno scritto indirizzato all’eretico Proclo. Quest’ultimo, seguace del Frigio Montano, vantava la presenza a Ierapoli di Frigia della tomba dell’Apostolo Filippo. Affermava Gaio: «Io posso mostrarti i trofei [tà trópaia] degli Apostoli [Pietro e Paolo]. Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa [di Roma]» (Eusebio, Historia ecclesiastica, II, 25, 7);[18]

– su un piccolo frammento di intonaco (centimetri 3,2 x 5,8), proveniente dal cosiddetto «muro rosso» sul quale si addossò l’edicola, vennero incise le seguenti lettere greche: PETR[...] ENI[...]. Il graffito è stato interpretato con la frase «Pétr[os] enì» (= Pietro è qui), oppure, sempre nella prospettiva della presenza di Pietro, con un’invocazione a lui rivolta: «Pétr[os] en i[réne]» (= Pietro in pace);

– nel «muro dei graffiti» (della metà del III secolo), posto accanto al sepolcro di Pietro, si legge il nome di Pietro in forma monogrammatica. L’epigrafista Guarducci interpretò i graffiti come invocazioni di pellegrini per i propri defunti, rivolte a Cristo, Maria e Pietro;

– nel mausoleo pagano dei Valerii (non distante dalla tomba di San Pietro) è stata individuata (e fotografata) un’epigrafe (seconda metà del III secolo) con una preghiera all’Apostolo Pietro: «Petrus roga Iesus Christus pro sanc(tis) hom(ini)b(us) chrestia(nis) (ad) co(r)pus tuum sepultis».[19]

– la Guarducci, attraverso il signor Giovanni Segoni (un operaio della «Fabbrica di San Pietro»), poté anche acquisire una cassetta contenente delle ossa umane. Quest’ultime erano state ritrovate in un loculo del «muro rosso». Risultarono (analisi del Professor Correnti) pertinenti a un solo uomo, di corporatura robusta, morto in età avanzata. Erano incrostate di terra e mostravano di essere avvolte in un panno di lana colorato di porpora e intessuto d’oro[20]; rappresentavano frammenti di tutte le ossa del corpo ad esclusione di quelle dei piedi;[21]

– sotto l’attuale altare papale si trovò una successione di monumenti e di altari: uno sotto l’altro, uno dentro l’altro. Ciò significava che quel luogo («della Confessione») era stato da secoli oggetto del culto di Pietro.


La tomba dell’Apostolo Paolo

Dopo i ritrovamenti avvenuti presso l’antica necropoli della Via Cornelia (attualmente posizionata sotto la basilica vaticana di San Pietro), è stato possibile effettuare una serie di indagini anche nell’area ove venne sepolto San Paolo. In particolare, nel sarcofago dell’Apostolo è stata praticata una perforazione per inserire una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. Inoltre, piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. In seguito, nel 2009, presso le catacombe di Santa Tecla, posizionate vicino all’attuale basilica romana di San Paolo fuori le Mura, è stato ritrovato un dipinto (fine del IV secolo) che raffigura il volto dell’Apostolo san Paolo. Quest’ultimo è rappresentato con l’aspetto di un filosofo, lo sguardo pensoso, la fronte alta, la calvizie incipiente, la barba appuntita.


L’immagine di Pietro e Paolo

La raffigurazione degli Apostoli Pietro e Paolo è stata individuata in diverse catacombe (per esempio in quella dei Santi Marcellino e Pietro, lungo l’antica Via Labicana oggi Via Casilina). Di particolare interesse è pure la lastra sepolcrale marmorea ritrovata nella catacomba di Sant’Ippolito. Tale reperto colpisce per la sua semplicità. L’autore, infatti, rappresentando i volti delle due «colonne della Chiesa», ha inteso presentare due volti che non attestano «autorità» ma «fraternità». Tale impostazione dell’opera la si può comprendere in base a due motivi. Da una parte, la realtà della Chiesa di Roma, in quel momento, non aveva ancora sviluppato un’articolata dottrina riconducibile agli insegnamenti (comunque già diffusi) dei due Apostoli. Dall’altra, si è voluto evidenziare una «vicinanza» dei due testimoni di Cristo per evidenziare il fatto che, dopo il «Concilio di Gerusalemme» del 46 dopo Cristo (ove emerse una discordanza di posizioni tra Pietro e Paolo sul tema della circoncisione), le due «colonne» dell’Urbe avevano operato in unità d’intenti.


I ritrovamenti. Le invocazioni agli Apostoli Pietro e Paolo

Nelle indagini condotte presso le catacombe romane di San Sebastiano (fine Ottocento/Novecento) venne individuato anche un semplice e quasi dimesso cortile porticato su tre lati («triclia»). Dagli anni 250-260 dopo Cristo e fino a circa il primo decennio-ventennio del IV secolo (cioè fino alla costruzione della basilica costantiniana che vi si sovrappose), tale luogo fu molto frequentato. I visitatori erano richiamati da una tradizione che in quel sito aveva fissato una memoria degli Apostoli Pietro e Paolo. Le infrastrutture della «triclia» (pozzo, canalizzazione, banchi in muratura), e soprattutto le circa 500 iscrizioni graffiate sull’intonaco delle pareti, indicano in questo ambiente un centro di culto funerario. I Cristiani vi consumavano il pasto rituale del «refrigerium». E lasciavano testimonianza scritta di un atto devozionale compiuto in onore di Pietro e Paolo. Tale venerazione è legata a un motivo storico. Nel 250 dopo Cristo, durante la persecuzione dei Cristiani voluta dall’Imperatore Valeriano, le salme dei due Apostoli vennero collocate nell’area delle catacombe di San Sebastiano. In tal modo furono protette da profanazioni. Dopo 50 anni, le reliquie dei due martiri tornarono nei sepolcri di origine.[22]


I ritrovamenti. «Alessameno adora Dio»

Nel 1856, durante una campagna di scavi al Palatino, presso l’edificio denominato «Paedagogium» (luogo di preparazione dei servitori che lavoravano nel palazzo imperiale), fu rinvenuto un graffito particolare (prima metà del III secolo dopo Cristo). Si tratta di un uomo crocifisso con la testa di asino. In basso, alla sua sinistra, una figura maschile lo guarda. Tra le due figure una frase in greco: «Alessameno adora Dio». Tale ritrovamento fece fin dall’inizio comprendere che si era in presenza di una testimonianza storica significativa. Attestava infatti, nel generale clima persecutorio del tempo, comportamenti derisori verso i Cristiani. Osservando l’immagine si possono estrapolare dei dati:

– il reperto conferma l’accusa rivolta ai cristiani di adorare una testa di asino (confronta ad esempio Tertulliano: Ad Nationes, I, 14,1);

– la posizione del crocifisso è di tipo dispregiativo (la figura è osservata dalla parte posteriore);

– le posizioni delle mani di Alessameno (una in alto e una in basso) accentuano l’elemento derisorio;

– il tipo di tunica indossata da Alessameno riconduce a quella dei servitori che lavoravano nei palazzi dei nobili (ciò attesta la presenza di Cristiani tra quanti lavoravano nel palazzo imperiale e in sedi adiacenti).


I ritrovamenti. Le iscrizioni di Papa Damaso

Mentre nel periodo avverso alla nuova religione si univano alle azioni oppressive scritti oltraggiosi e blasfemi, in tempi successivi fu possibile promuovere un’azione mirata a esaltare la testimonianza dei martiri, e a individuare i luoghi della loro sepoltura. Rilevante in merito fu l’iniziativa di Papa Damaso I (Santo; pontificato: 1° ottobre 366-11 dicembre 384). Egli compose pure un certo numero di brevi epigrammi su vari martiri e Santi, e degli inni (Carmina). Nel corso di alcune indagini venne individuato nelle catacombe di San Sebastiano anche l’epigramma dedicato al martire romano Eutichio. Si riporta qui di seguito il testo.

«Eutichio martire i crudeli ordini del tiranno
non meno che i mille modi di far male dei carnefici
poté allora vincere e lo mostrò la gloria di Cristo.
Allo squallore del carcere segue nuovo tormento per le membra;
frammenti di coccio fan sì che il sonno non venisse;
dodici giorni passarono, non gli dan nulla da mangiare;
e gettato in una voragine il santo sangue lava
tutte le ferite inferte dal tremendo potere di morte.
Di notte nel sonno turban dei sogni la mente,
indica quale luogo nascondesse le membra del Santo.
Si cerca, e trovato si venera, protegge, concede ogni cosa.
Damaso ne ha celebrato il merito, tu venera il sepolcro».[23]

Il testo è significativo sul piano storico perché fornisce alcuni dati: 1) l’esistenza di carceri ove i prigionieri attendevano la sentenza; 2) il degrado ambientale degli ambienti riservati a chi era sottoposto a misura detentiva; 3) la privazione del cibo; 4) la collocazione dei perseguitati in una «voragine» (simile a quella del Tullianum).


Il verbale del processo a San Giustino e compagni (II secolo)

Se il ritrovamento delle epigrafi è stato significativo sul piano storico (individuazione dei martiri sepolti), anche la conservazione di Acta riguardanti i processi contro alcuni Cristiani rimane utile perché (pur talvolta con aggiunte successive) fornisce diversi dati. Tra gli Atti, si ricorda il processo (presieduto a Roma dal prefetto Quinto Giunio Rustico[24]) al martire Giustino e ai suoi compagni. Attualmente gli studiosi possono utilizzare e analizzare tre fonti (A, B, C).[25] Si riporta qui di seguito l’interrogatorio (fonte A):

«[...] il prefetto domandò a Giustino: “Che genere di vita conduci?”.

Rispose Giustino: “Irreprensibile e incensurabile da chiunque”.

[...] “Quali principi pratichi?”.

[...] “Ho cercato di apprendere tutti i principi, ma ho aderito a quelli veritieri dei Cristiani, anche se essi non trovano il consenso di quanti hanno false opinioni”.

[...] “Sono quelli dunque i principi che trovano il tuo consenso?”.

[...] “Sì, poiché vi credo”.

[...] “Di che credenza si tratta?”.

[...] “Quella che ci rende devoti al Dio dei Cristiani, che riteniamo unico e originario autore della creazione del mondo intero, e al figlio di Dio Gesù Cristo, la cui venuta quale araldo della salvezza degli uomini e maestro di virtuosi precetti già era stata annunciata dai profeti. Ma riterrei di far torto alla sua divinità se dicessi di riconoscerlo quale mero profeta, poiché già è stato annunciato che costui, del quale ho detto, è il Figlio di Dio. Sappi infatti che da tempo i profeti hanno predetto la venuta del Figlio di Dio tra gli uomini”.

[...] “Dove vi riunite?”.

[...] “Dove ciascuno vuole o può.[26] Credi forse che sia possibile riunirci tutti nello stesso luogo?”.

[...] “Suvvia, dove vi riunite? In quale posto?”.

[...] “Da quando sono tornato per la seconda volta[27] nella città dei Romani, abito presso un certo Martino, sopra i bagni di Timiotino[28], non conosco nessun altro luogo di riunione se non quello. Se qualcuno voleva venire a trovarmi, lo mettevo a parte dei principi della verità”.

[...] “Insomma, sei Cristiano?”.

[...] Sì, sono Cristiano”.

Il prefetto Rustico domandò a Caritone: “[...] anche tu sei Cristiano?”.

[...] “Sono Cristiano, per comando di Dio”.

Il prefetto Rustico si volse a Carito: “ A te la parola, Carito”.

[...] Sono Cristiana, per dono di Dio”.

Il prefetto Rustico domandò a Evalpisto: “E tu, che cosa sei?”.

[...] Anch’io sono Cristiano e partecipo della medesima speranza”.

Il prefetto Rusticò domandò a Ierace: “Sei Cristiano?”.

[...] Sì, sono Cristiano, e venero il medesimo Dio”.

Il prefetto Rustico domandò: “È stato Giustino a farvi diventare Cristiani?”.

Rispose Ierace: “Lo ero da tempo”.

Peone si levò e disse: “Anch’io sono Cristiano”.

Rustico domandò: “Chi ti ha istruito?”.

Rispose Peone: “Me l’hanno trasmesso i miei genitori”.

Evelpisto disse: “Ascoltavo volentieri la parola di Giustino, ma è stato dai miei genitori che ho preso l’esser Cristiano”.

Rustico domandò: “Dove sono i tuoi genitori?”.

[...] “In Cappadocia[29]”.

Rustico a Ierace: “E i tuoi genitori dove sono?”.

“[...] Sono morti. Quanto a me, da parecchio tempo sono venuto via dalla Frigia[30]”.

Rustico domandò a Liberiano: “Non sarai Cristiano anche tu?”.

“[...] Sono anch’io un devoto Cristiano”.

Il prefetto fa a Giustino: “Se sarai fustigato e decapitato, credi che salirai in cielo?”.

“[...] Confido di ottenerlo con la mia perseveranza, se non cesso di perseverare. So che questo è riservato a quanti hanno vissuto rettamente, ma solo alla conflagrazione[31] del mondo”.

“[...] Comunque pensi che salirai in cielo?”.

Rustico disse: “Se non obbedite, sarete giustiziati”.

Ribatté Giustino: “È nei nostri voti di essere salvati, una volta giustiziati”.

Rustico sentenziò: “Quanti non hanno voluto sacrificare agli dèi siano fustigati e condotti all’esecuzione secondo la procedura di legge”.

I santi martiri, rendendo gloria a Dio, vennero al luogo solito delle esecuzioni[32] [...]».

Questo testo è importante perché: 1) è possibile sapere che Peone ed Evelpisto erano Cristiani fin dall’infanzia; che Evelpisto era discepolo di Giustino; che Evelpisto e Ierace provenivano dall’Asia Minore. Non si possiedono informazioni su questi martiri all’infuori del documento citato. 2) Peone probabilmente si era alzato tra il pubblico per unirsi agli imputati. 3) Prima dell’esecuzione della condanna era costume flagellare i criminali condannati.


Santa Cecilia (III secolo)

Nel contesto delineato, le indicazioni fornite da Papa Damaso, unitamente ad altre fonti quali la «traditio» e gli Acta, sono state molto utili per le diverse indagini effettuate «in loco». Quest’ultime sono riuscite a verificare più dati riguardanti un numero non debole di martiri. Si ricorda, al riguardo, lo studio del sepolcro della martire Cecilia nelle catacombe di San Callisto.[33] Il corpo della Santa venne poi traslato all’interno dell’Urbe. Dal 1977 Neda Parmegiani e Alberto Pronti hanno eseguito nel «titulus» trasteverino di Santa Cecilia accertamenti e rilievi accurati delle strutture sotterranee accessibili, e saggi stratigrafici. Tra i risultati, si ricorda l’accertamento di un ambiente termale in ottimo stato di conservazione proprio sotto la cappella ove la tradizione religiosa indicava il «calidarium» in cui la Santa titolare patì il martirio. Tale fatto imprime ulteriore forza a qualche aspetto topografico della complessa narrazione agiografica.


Sant’Agnese (fine III-inizio IV secolo)

La più antica testimonianza letteraria che ricorda la Santa (11-13 anni) è contenuta nel primitivo documento della Chiesa Romana, anteriore al 336, chiamato Depositio Martyrum. Il testo ricorda che il «dies natalis» di Agnese (il giorno del martirio e della nascita alla vita eterna) era il 21 gennaio. Il corpo della martire venne posizionato in una galleria al primo piano delle catacombe che da lei presero poi il nome.[34] Il cranio (e il resto delle ossa) venne poi spostato (al più tardi nel corso del IX secolo) nel «Sancta Sanctorum» in Laterano. In seguito, il Papa Pio X (1903-1914) donò la reliquia alla chiesa di Sant’Agnese in Agone (nei cui sotterranei è situato il presunto luogo del martirio dell’adolescente).


San Sebastiano (III secolo)

Militare romano, Sebastiano venne ucciso perché Cristiano. Un dato storico certo è l’inserimento del suo nome nella Depositio martyrum, il più antico calendario della Chiesa di Roma (risalente al 354). Tale fatto ne testimonia il culto sin dai primi secoli. Anche se non è facile ricostruire i diversi momenti del suo martirio, si è propensi a pensare a una condanna a morte avvenuta attraverso una trafittura con frecce. Nei secoli successivi, molti pittori e scultori vollero «rappresentare» il martirio di questo soldato presentandolo vestito di poche vesti, di bella presenza, con tratti a volte quasi femminei. Si diffuse così, in taluni ambienti, l’opinione che Sebastiano fosse gay. E alcuni vollero indicarlo come «patrono» degli omosessuali. In realtà furono lasciati nell’ombra alcuni dati storici rilevanti che qui di seguito si riassumono:

– tutti i condannati a morte erano spogliati delle vesti;

– i commilitoni del militare dovevano a turno scagliare delle frecce per dimostrare la propria fedeltà all’Imperatore;

– l’agonìa del condannato veniva prolungata colpendo parti del corpo non vitali; si trattava di una tortura: la persona soffriva per il dolore e perdeva sangue, ma non moriva in tempi rapidi.


San Lorenzo (III secolo)

Il martirio di questo diacono (10 agosto 258) avvenne dopo l’uccisione del Papa Sisto II, mentre Daciano era il prefetto di Roma. Non vi sono dubbi sull’esistenza del Santo, sul fatto e sul luogo del suo martirio e sulla data della sua sepoltura. La salma di Lorenzo venne deposta in una tomba vicino alla Via Tiburtina, in un terreno di proprietà della vedova Ciriaca. Dalle fonti rimaste si deduce che esisteva a Roma una rete di assistenza. Il 19 luglio del 1943 un bombardamento aereo rovinò la basilica di San Lorenzo fuori le Mura. Un’opera di ricostruzione permise, comunque, di riedificare le parti andate distrutte. Nella catacomba di San Lorenzo (o di Ciriaca; distribuita su cinque livelli) vennero in seguito scoperti (1947-1949) i santuari di altri due martiri, Abbondio ed Erennio.


I ritrovamenti. Il nome di Pietro nel presbiterio costantiniano

Nel 1999 è stata ritrovata un’iscrizione di cantiere recante il nome di Pietro, rinvenuta sulla pedana del presbiterio dell’antica basilica romana di San Pietro (databile tra il 319 e il 326 dopo Cristo): «AT PETRU».

La scritta tardo-latina «At Petru» («ad Petrum») è un accusativo di luogo che indica la destinazione della pietra per la tomba del primo Papa.[35] L’eccezionalità dell’iscrizione sta nel fatto che reca il nome dell’Apostolo per intero, inciso in forma chiara e completa, con lettere alte circa 5 centimetri, e che si pone a poco più di due metri dal trofeo di Gaio, cioè dalla tomba di Pietro.


I ritrovamenti. Il chrismon nel cryptoporticus degli Horti Sallustiani

Gli «Horti» di proprietà di Gaio Sallustio Crispo (86-34 avanti Cristo; storico e senatore), erano costituiti da una villa suburbana e da giardini. Nella vasta area di verde c’erano padiglioni, porticati, statue, fontane, templi (uno dedicato a Venere Ericina), criptoportici, terme e ninfei. Nel 20 dopo Cristo l’intera zona fu acquisita dal demanio imperiale. Negli anni di Adriano (117-138), gli «Horti» vennero arricchiti e ampliati. Aureliano (270-275) vi costruì un ippodromo. Le criticità ebbero inizio con il «sacco di Roma» (410). Da quel momento iniziò una fase di decadenza.[36] La parte più conosciuta degli «Horti Sallustiani» si trova presso Piazza Sallustio (14 metri al di sotto del piano stradale). Consiste in un edificio (visitabile) che risale al periodo adrianeo, formato da un’aula circolare di 11 metri di diametro e 13 di altezza, sulle cui pareti si aprono due serie di nicchie.[37] Quasi certamente, il grande padiglione era una «coenatio» estiva. A seconda del numero degli ospiti si poteva utilizzare o meno una sala posteriore. La datazione di questo ambiente (desunta dai bolli laterizi) è posteriore al 126 dopo Cristo. Arretrato rispetto all’ingresso del corpo centrale del complesso, in direzione Nord, un edificio a più piani è stato identificato come un’«insula» di tipo signorile. Sono visibili tre locali, alcuni dei quali con mosaici a tessere bianche e nere e resti di affreschi, oltre ad una latrina.

Altre evidenze appartenenti ad edifici facenti parte degli «Horti» sono: un’imponente cisterna (epoca adrianea) realizzata su due piani[38], e un «cryptoporticus» affrescato (nel garage dell’ambasciata americana sul lato prospiciente Via Friuli). Infine, lungo Via Lucullo, è visibile un muro a nicchie.

Il «cryptoporticus», in particolare, corridoio di collegamento tra edifici, fu rinvenuto nel 1949 durante i lavori di costruzione di un garage nella zona compresa tra Via Lucullo e Via Friuli. Quarant’anni dopo, l’archeologa Silvia Festuccia sviluppò delle indagini per verificare il reale sviluppo planimetrico del sito. In seguito venne attuato un progetto di ricerca su iniziativa dell’ambasciata USA e dell’Istituto svedese di studi classici a Roma. Nell’ambiente in esame, la ricercatrice Anna Blennow, dell’Università di Göteborgs, ha studiato una serie di graffiti. Tale fatto è importante per due motivi: per l’individuazione di simboli cristiani, e per il fatto che tali reperti si fanno risalire alla fine del III secolo dopo Cristo.[39]


Il chrismon. Alcune ipotesi

Nell’indagine eseguita dalla Blennow è stato possibile evidenziare più graffiti. Risalgono probabilmente a fasi temporali diverse. Con riferimento a quella più antica (III secolo), la ricercatrice ha osservato pure un «chrismon» ed altri cristogrammi. Il monogramma di Cristo – Chi Rho – è una combinazione di lettere dell’alfabeto greco, che formano un’abbreviazione del nome di Cristo.

L’uso di lasciare graffiti sui muri con il segno del «chrismon» risale al periodo pre-costantiniano. Di probabile origine nella parte orientale dell’Impero Romano (ove era diffuso il greco), il «chrismon» venne utilizzato in contesti di uso privato, con inizio dal III secolo. Lo si trova anche in sarcofagi. La sua diffusione pubblica avvenne durante gli anni di Costantino (Imperatore dal 306 al 337). Da questo momento in poi lo si individua nelle chiese e basiliche cristiane, nelle monete, e sulle stesse lucerne utilizzate in ambienti domestici o di lavoro. In tale contesto, il fatto di trovare anche altri graffiti con il «chrismon» nel «cryptoporticus» succitato, pone allo storico un quesito: quale significato attribuire a questi cristogrammi? Si tratta di un semplice segno devozionale, apposto in modo augurale? È un simbolo di natura protettiva legato a un’invocazione? O è piuttosto un messaggio criptato attraverso il quale i Cristiani del tempo segnalavano la loro presenza ai correligionari? Chi scrive è dell’avviso che può trattarsi sia di un’invocazione, sia di un messaggio in codice. Da escludere comunque la tesi di un graffito apposto per passatempo. Al riguardo, occorre sottolineare il fatto che il III e l’inizio del IV secolo dopo Cristo furono segnati da persecuzioni anti-cristiane. Per tale motivo è spontaneo pensare a un pensiero di supplica rivolto a Cristo Salvatore, e all’esigenza di raggiungere in qualche modo i propri correligionari in pericolo. Occorreva, infatti, proteggere chi poteva essere già stato individuato dalla pubblica autorità (o chi correva il rischio di poter essere localizzato). D’altra parte, l’essenzialità del messaggio («Chi Ro») e la stessa posizione del graffito nell’ambiente del «cryptoporticus» (poco individuabile a una prima occhiata) sembrano confermare tale tesi.


I chrismon e la comunità cristiana del tempo

L’individuazione dei «chrismon» nell’area del «cryptoporticus» acquista un ulteriore significato se si colloca tale «messaggio» nell’ambito della più vasta mappa territoriale ove erano presenti nuclei di Cristiani, e se si tiene conto della stessa zona degli «Horti». 1) Nel periodo considerato (III secolo), la comunità cristiana si era certamente sviluppata secondo linee diversificate (lo attestano le stesse persecuzioni). In fase iniziale, un nucleo non debole di Cristiani si distribuì nella zona di Trastevere, «Trans Tiberim» (qui vi insiste pure una «memoria» riconducibile all’Apostolo Paolo). Tale gruppo, forse dopo il 64-67 dopo Cristo (persecuzioni di Nerone), si riorganizzò utilizzando ambienti diversi da quelli della comunità ebraica. Ciò ebbe il fine di acquisire un’autonomia sul piano religioso e organizzativo. In tal senso, la presenza cristiana si orientò probabilmente verso l’attuale area di Santa Maria in Trastevere, mentre altri seguaci di Cristo vissero (con possibile residenza) nell’area del Palatino (confronta il graffito di Alessameno), dell’Aventino, dell’Esquilino, nei terreni vicini alle attuali Via Cassia e Via Salaria, e in altri punti dell’Urbe. Tutto questo attesta un disegno insediativo che in modo graduale arrivò a utilizzare i più diversi ambienti della capitale dell’Impero Romano. In definitiva, quindi, il «chrismon» del «cryptoporticus» è anche segno di una presenza diffusa di Cristiani in più realtà urbane. 2) Unitamente a ciò, il fatto di trovare dei «chrismon» in un «cryptoporticus» di proprietà dei pubblici poteri, attesta che almeno alcuni Cristiani erano presenti in ambienti socialmente elevati. Probabilmente si trattava di servitori o di militari, ma non è da escludere un’adesione di autorità politiche alla nuova «religio».


I ritrovamenti. La crux tra i graffiti del Colosseo

Mentre nel 2012 si scoprivano a Roma – poco distante da Piazzale del Verano – delle gallerie catacombali posizionate lungo la Via Tiburtina (con individuazione di un «chrismon»), proseguivano nel frattempo i lavori di ripulitura del Colosseo grazie a una sponsorizzazione privata. Quando fu inaugurato dall’Imperatore Tito nell’80 dopo Cristo, l’anfiteatro Flavio si presentava al suo esterno di colore bianco (i marmi ricoprivano la facciata). All’interno, l’edificio era dipinto con vari colori. In tale contesto, archeologi e restauratori hanno scoperto (2013) alcuni metri quadrati di decorazioni policrome rimaste intatte. Ciò è avvenuto su una galleria intermedia al terzo livello, a 30 metri d’altezza dal livello stradale.[40] Dopo la sorpresa iniziale, legata al fatto che la galleria fungeva da passaggio secondario, e dove c’erano anche degli urinatoi, gli studiosi hanno individuato strati di iscrizioni finora nascosti dalla sporcizia accumulata e dalla calcificazione. Le scritte in rosso, sbiadite dall’antichità, si confondono tra i graffiti in nero, lasciati dai visitatori dell’anfiteatro in tempi moderni. In tale contesto, in un punto dell’intonaco, è stata individuata una «crux». Al riguardo, occorre sottolineare che in più ambienti del Colosseo sono già state individuate delle croci.[41] Questi segni, però, hanno una datazione tarda. Il reperto ritrovato, al contrario, sembrerebbe collocarsi in epoca antica. Se così fosse, potrebbe attestare un gesto cristiano di «pietas» (affidamento a Dio dei morenti nell’arena). Tale ipotesi trova supporto anche da un dato storico. Se, da una parte, l’anfiteatro Flavio non fu edificato per le persecuzioni anti-cristiane, dall’altra, non si può escludere la presenza di Cristiani tra i condannati a morte. Si pensi infatti alla vicenda del Vescovo Ignazio di Antiochia. Questo martire fu condannato «ad bestias». Morì nell’anno 107 dopo Cristo in occasione delle feste organizzate per la vittoriosa campagna militare dell’Imperatore Traiano contro i Traci. Prima di raggiungere l’Urbe, scrisse ai Cristiani di Roma invitandoli a non intervenire per sottrarlo al martirio.[42]


Note

1 In epoca romana, l’attuale zona del Vaticano si presentava come un’area sub-urbana ove erano presenti boschi, terreni incolti e ville di notevoli proporzioni. Essa faceva parte della XIV regione augustea, il Transtiberim, situata sulla riva destra del Tevere fuori le mura aureliane. Il Transtiberim includeva il Vaticano (a Nord), il Gianicolo (al centro), Trastevere e l’isola Tiberina (a Sud). Arrivava fino alla foce del Tevere.

2 Oggi conservati nel Museo Nazionale Romano della Crypta Balbi.

3 Termine ideato nel periodo medievale.

4 Finché esistette un Regno Giudaico con cui Roma era legata da rapporti di amicizia ed alleanza, gli Ebrei godettero generalmente dello status di stranieri appartenenti ad una cittadinanza riconosciuta, «peregrini alicuius civitatis». Non mancavano gli Ebrei con la cittadinanza romana («cives romani») o perché servi liberati (manomessi) da cittadini romani o per concessione speciale dei Governatori, talvolta in seguito a servizio militare; vi erano infine gli Ebrei nella posizione di schiavi dei Romani (servi).

5 È stato possibile ricostruire gli antichi giardini romani studiando i resti delle radici delle piante e le pitture dei giardini (in dimore signorili esistevano raffigurazioni di giardini).

6 P. Zander, La Necropoli di San Pietro, Fabbrica di San Pietro – Editore De Rosa, Città del Vaticano – Roma 2015.

7 Regnò per meno di quattro anni (dal 37 al 41, anno della sua morte).

8 Agrippina «maior», per distinguerla dalla figlia Agrippina «minor» (madre di Nerone).

9 Nell’antica Roma erano frequenti gli incendi per il diffuso utilizzo di materie combustibili (per esempio legna).

10 Ciò sarebbe avvenuto con la costruzione della Domus Aurea.

11 Negli anni del suo potere, Nerone dovette affrontare la rivolta di Gaio Calpurnio Pisone (65 dopo Cristo). Inoltre, morì suicida (6 giugno 68 dopo Cristo) a causa di una ribellione dei pretoriani che elessero nuovo Imperatore Servio Sulpicio Galba.

12 Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico fu Imperatore dal 41 al 54 dopo Cristo.

13 Esisteva in particolare una simbologia astrologica. L’arena rappresentava la terra, e il fossato che circondava la pista, il mare. L’obelisco («spina») simboleggiava il sole alla sommità del cielo. I sette giri di pista della corsa dei carri riproducevano l’orbita dei sette pianeti e il susseguirsi dei sette giorni della settimana. Le dodici porte delle rimesse dei carri che si affacciavano sul circo figuravano i luoghi dello zodiaco.

14 Sia Marziale (in Epigrammi, Liber X, 25) che Giovenale (in Satire, VIII, 235) fanno riferimento al tormento della cosiddetta «tunica molesta». Si trattava di un indumento impregnato di sostanze infiammabili, avvolto intorno al corpo del condannato.

15 Confronta anche: http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01031997_p-68_it.html.

16 Ventidue edifici sepolcrali.

17 M. Guarducci, I graffiti sotto la Confessione di San Pietro in Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1958.

18 Gaio aveva indicato dei «trofei». Quello di San Pietro era una piccola edicola appoggiata a un muro intonacato e dipinto in rosso (il cosiddetto «muro rosso»). Si trattava di una mensa sorretta da due colonnine di marmo con una nicchia in corrispondenza dello spazio tra le due colonnine. Sul pavimento, al di sotto di un chiusino, c’era una tomba nella nuda terra. L’edicola, databile al II secolo, venne identificata dagli scavatori con il «trofeo di Gaio», noto da un passo di Eusebio di Cesarea che riporta le affermazioni del presbitero Gaio (anni del Pontificato di Papa Zefirino, tra il 198 e il 217).

19 M. Guarducci, Cristo e San Pietro in un documento precostantiniano della necropoli Vaticana, 1953, pagina 18.

20 Una situazione che si è ripresentata anche durante le indagini riguardanti la tomba dell’Apostolo Paolo.

21 È da ricordare che i Romani, quando volevano affrettare la morte di un condannato, gli tagliavano i piedi. Il crocifisso, non avendo più un sostegno dal basso, moriva dissanguato e per asfissia.

22 Le indagini effettuate non hanno infatti individuato nelle catacombe un luogo che attesti una conservazione delle reliquie dei due Apostoli dopo le persecuzioni anti-cristiane.

23 Epigrammata damasiana, 21.

24 Rustico (100-170) fu prefetto di Roma dal 163 al 167. Esponente dello stoicismo. Maestro di Marco Aurelio (Imperatore dal 161 al 180).

25 Atti e Passioni dei martiri, introduzione di A. A. R. Bastiaensen, testo critico e commento a cura di studiosi vari, Fondazione Lorenzo Valla, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2014 (7 edizione). Confronta le pagine 52-57. E il commento agli Acta Iustini a cura di A. Hilhorst, pagine 391-396.

26 Risposta fornita in modo da sviare le indagini dei persecutori.

27 Un dato importante per gli storici.

28 Il luogo non è stato identificato dagli storici.

29 Regione storica dell’Anatolia.

30 Regione storica dell’Anatolia Centrale.

31 Esplosione del mondo: cioè la fine dei tempi.

32 Gli storici non sono riusciti a identificare questo luogo.

33 Sepolta all’inizio nelle catacombe di San Callisto. Nell’821 le sue spoglie vennero traslate nella basilica a lei dedicata. Durante i lavori di ristrutturazione effettuati nel 1599 dal Cardinale Paolo Emilio Sfondrati, (nipote di Papa Gregorio XIV), fu aperto il sepolcro di marmo e nella ulteriore cassa di cipresso che esso racchiudeva si ritrovò il corpo quasi integro della Santa, vestito di bianco e con il segno delle ferite sul collo.

34 Le catacombe, alle quali si accede da un ingresso situato presso il nartece, si sviluppano su tre livelli in quattro regioni, delle quali l’unica pre-costantiniana è la Regio I. Quest’ultimo settore è databile alla seconda metà del III secolo, vi è stata localizzata la tomba di Agnese.

35 P. Filacchione – C. Papi, Archeologia cristiana, LAS, Roma 2015, pagina 63.

36 In questo complesso furono rinvenute opere marmoree come il Trono Ludovisi, l’acrolito Ludovisi, l’obelisco Sallustiano, i due gruppi del Galata morente e del Galata suicida, frammenti di una colossale statua di Apollo e fregi a girali d’acanto con sfingi.

37 La volta è «a spicchi». Simmetrici, ai lati dell’aula, vi sono due vestiboli rettangolari: fungevano da ninfei e sulle pareti scorreva acqua. Dalla sala circolare si accede ad una sala rettangolare con una nicchia nella parete di fondo. L’ambiente ha una copertura formata da due volte a botte sovrapposte e poteva essere isolato dall’aula centrale con delle tende.

38 Si trova all’interno del Collegio Germanico.

39 Unexpected voices. The graffiti in the cryptoporticus of the horti sallustiani, and papers from a conference on graffiti at the Swedish Institute in Rome, 7 march 2003, edited by Olof Brandt, Acta Instituti Romani Regni Sueciae , Series in 4°, LIX, Stockholm 2008.

40 La zona dovrebbe essere riaperta al pubblico in tempi non lunghi.

41 Su questo punto confronta R. Rea, Graffiti e targhe proprietarie, in Autori Vari, «Rota Colisei. La valle del Colosseo attraverso i secoli», a cura di R. Rea, Electa, Milano 2002, pagine 231-239.

42 Lettere di Ignazio di Antiochia. Lettere e martirio di Policarpo di Smirne, Città Nuova, Roma 2009.

(novembre 2017)

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