L’Editto di Milano
Il 15 giugno del 313, l’Imperatore Romano Costantino emanò un famoso Editto di tolleranza verso le religioni presenti nell’Impero. Ma perché? Chi ne furono i beneficiari? E quali i risultati?

Questo mese ricorrerà il millesettecentesimo anniversario della promulgazione dell’Editto di Milano, col quale veniva accordata ai Cristiani la libertà di culto, e veniva posto fine alle persecuzioni contro di loro. Questo, perlomeno, è ciò che sa, o ritiene di sapere, la gente comune. Come spesso accade, la realtà è un po’ diversa. Cerchiamo di fare un poco di ordine.

Innanzitutto, è necessario che facciamo un passo indietro. Nel 296 iniziò, ad opera dell’Imperatore Gaio Valerio Aurelio Diocleziano, l’ultima e più terrificante persecuzione contro i Cristiani, che raggiunse il suo acme negli anni 303-305. Terrificante, anche perché la moglie e la figlia di Diocleziano (Prisca e Valeria) erano catecumene; e perché giunse inattesa, dopo dieci anni di regno di Diocleziano caratterizzati da una benevola tolleranza. Si cominciò forse per influsso di Galerio, che era figlio di un sacerdote pagano e, divenuto Cesare nel 293, nel 298 impose ai suoi militari il sacrificio agli dèi di Roma, pena la radiazione dall’esercito.

(Vale la pena osservare che proprio mentre iniziava questa persecuzione, nel 300 il popolo armeno si convertiva in massa al Cristianesimo).

Nel 302 anche Diocleziano impose alle sue truppe lo stesso sacrificio, ponendo non pochi problemi di coscienza ai molti soldati scelti, che erano Cristiani.

Fu un crescendo: il 24 febbraio 303 fu emanato il primo Editto di persecuzione. Esso ordinava la distruzione degli edifici di culto cristiani, la consegna dei libri liturgici, l’obbligo al clero di sacrificare agli dèi di Roma, pena la morte o «ad metallas», l’esclusione dai servizi pubblici di coloro tra gli impiegati che non avessero sacrificato. Fu in quegli anni terribili che nacque una categoria di «lapsi», i cosiddetti «traditores», che cedettero e consegnarono i libri contenenti la Parola di Dio e quelli della Divina Liturgia. Anche se non sempre questo avvenne, e si ricorse spesso a dei sotterfugi: a Cartagine il Vescovo Mensurio fece consegnare non i libri sacri, ma alcuni libri di eretici, profittando della confusione che avevano i funzionari imperiali al riguardo; il Vescovo Paolo di Cirta (Costantina) in Numidia, invece, consegnò senza particolari problemi i libri liturgici, mentre il Vescovo Felice di Thibiuca rifiutò decisamente di farlo e per questo fu fatto decapitare dal proconsole Anulino. Fu anche, questo, il tempo dei martiri più famosi: Agnese, Sebastiano, i martiri di Abitinia (304).

Nell’estate del 303 si ebbe il secondo Editto, che fu connesso con l’incendio del palazzo imperiale di Nicomedia, visto come un segno dell’irritazione delle divinità contro l’Imperatore (ma anche come un attentato dei Cristiani). In seguito a questo secondo Editto, la stessa moglie e la figlia di Diocleziano furono costrette al sacrificio e «isolate» da chiunque (praticamente, mandate in esilio). Seguì l’arresto di tutti i membri del clero, che però fu subito interrotto, perché le carceri non bastavano a contenerli, tanto che si propose un’amnistia, purché si sacrificasse. Ma bisogna notare che in Gallia e in Britannia, soggette a Costanzo Cloro (il padre di Costantino, nominato Cesare e poi divenuto Augusto nel 305), i decreti non furono di fatto applicati, segno che non tutti condividevano la linea intransigente e persecutoria di Diocleziano, e non temevano di manifestarlo pubblicamente.

L’anno dopo, nell’estate del 304, il terzo Editto, mentre Diocleziano era malato (l’Imperatore abdicherà il 1° maggio del 305 e morirà a Spalato il 3 dicembre 316). Per questo terzo Editto il Cristianesimo fu dichiarato di nuovo e formalmente «superstitio illicita» (è «religio licita» solo ciò che è approvato dal Senato: è lo Stato che decide quelle che sono le religioni «vere»): pertanto, chi non avesse sacrificato sarebbe stato condannato a morte. Ma, ancora una volta, l’applicazione di questo nuovo Editto fu discrezionale: fu, infatti, applicato nelle zone di Galerio (Bitinia, Frigia, Siria, Egitto, Palestina); Costanzo Cloro lo applicò in parte; Massimiano, Cesare per l’Italia e l’Africa, fece una repressione crudele, mentre Massimino Daia, Cesare di Galerio, in Egitto (dopo il 305) arrivò a condannare alla tortura anche i bambini.

Ma perché Diocleziano, uno dei maggiori statisti ed amministratori dell’antichità, e molti altri uomini politici, si accanirono tanto contro i Cristiani?

Per saperlo, bisogna far riferimento al concetto di «pace».

Per noi, la pace potrebbe essere definita molto semplicemente (e semplicisticamente) come «assenza di guerre»; ma, come ha fatto opportunamente notare don Francesco Braschi, dottore della Biblioteca Ambrosiana di Milano, nel suo intervento su Ambrogio e Costantino ieri, Chiesa e Stato oggi tenutosi a Desio il 6 marzo 2013, questo concetto di pace era estraneo alla mentalità di un uomo del IV secolo: per lui, la pace era la «pax deorum et hominum» («pace degli dèi e degli uomini»), ovvero la giustizia delle relazioni tra la sfera intramondana e gli uomini, e tra gli uomini tra loro. Il pio, colui che possiede la «pietas», è colui che ha una relazione corretta con la divinità e con i suoi simili; la cosa peggiore è che uno manchi a questa relazione, sia cioè «ateo», termine che potremmo tradurre con «empio». L’Imperatore è colui che si occupa di mantenere questa pace: il potere civile ha dentro di sé il concetto di relazione con la divinità.

Diocleziano da un lato recupera il concetto di «mos maiorum»[1] (i costumi degli antenati: è ciò che hanno creduto i nostri antenati che ha fatto grande Roma), dall’altro introduce il concetto orientale degli dèi che entrano nel mondo degli uomini (Ercole e Giove manifestano coloro che sono degni di reggere l’Impero). Rifacendosi alla religione romana più arcaica, Diocleziano rinforza la componente sacrale dell’Impero: la venuta del Sovrano diventa la venuta della divinità, perché è attraverso l’Imperatore che la divinità si rende presente (in origine si sacrificava al genio dell’Imperatore, perché l’Imperatore veniva accolto fra gli dèi solo dopo morto). Questo concetto (da non confondere con l’Incarnazione nella religione cristiana) è ciò che i Cristiani non possono accettare. Ed è ciò che determina le persecuzioni.

La situazione di persecuzione anticristiana cambiò radicalmente per la salute di Galerio che, roso da una terribile malattia (una cancrena inguinale, che lo porterà alla morte), decise di chiedere anche ai Cristiani di pregare per lui. Aveva pensato che se il suo compito di strenuo difensore dell’Impero e di devoto agli dèi non gli portava la salute era perché nell’Impero c’era una massa di persone («questi folli dei Cristiani») costretta all’ateismo perché impedita nel proprio culto (a causa della consegna dei libri liturgici), e che con questo comportamento attirava sull’Impero le ire degli dèi. Meglio allora concedere loro libertà di culto, perché smettano di essere degli uomini irreligiosi (la religiosità è coessenziale, insita nell’uomo: la religiosità, espressa nella preghiera, era uno dei fattori che permettevano la vita dell’Impero). Così il 30 aprile 311 pubblicò l’Editto di Nicomedia (detto anche di Sardica o di Serdica, dalla città ove fu promulgato), insieme anche a Costantino e Licinio. Esso decretava la sospensione degli Editti di Diocleziano; concedeva libertà di culto e di riunione ai Cristiani e restituiva alle comunità i beni non ancora alienati dopo la confisca precedente; infine ordinava la ricostruzione delle chiese abbattute in forza dei decreti precedenti.

Questo è il testo dell’Editto: «Tra tutte le disposizioni che non abbiamo cessato di prendere nell’interesse e per il vantaggio della “res publica”» (cioè: lo Stato), «noi avevamo voluto prima di ora tutto riordinare secondo le antiche leggi e la disciplina dei Romani e curare anche che i Cristiani, che avevano abbandonato la religione dei loro padri, tornassero a nutrire buone intenzioni. Infatti, per certi loro motivi, erano stati presi da così grande ostinazione e follia da non seguire più quelle antiche istituzioni, stabilite in origine dai loro stessi padri. Al contrario essi si davano, secondo il loro arbitrio e come loro piaceva, leggi da osservare e in diversi luoghi attiravano a sé grande varietà di popolo.

E avendo noi pertanto pubblicato un editto per farli tornare alle istituzioni degli antenati, molti vi sono stati costretti dal pericolo, molti altri si sono ritrattati. Ma la maggior parte di loro perseverava nel suo proposito e noi ci rendevamo contro che essi non prestavano agli dèi il culto e gli atti di pietà dovuti e neppure veneravano il loro Dio per esserne impediti; alla luce della nostra infinita clemenza e nella nostra prassi costante di concedere il perdono a tutti gli uomini, abbiamo stabilito di estendere anche ai Cristiani e al più presto la nostra indulgenza, così che essi possano di nuovo esistere e riedificare i loro luoghi di riunione, a questa condizione, però, che nulla compiano contro l’ordine pubblico.

In un’altra lettera indicheremo ai magistrati come converrà che si comportino. In cambio della nostra indulgenza, i Cristiani dovranno pregare il loro Dio per la salute nostra, della “res publica” e loro propria, perché la cosa pubblica possa ristabilirsi ovunque prospera ed essi possano vivere senza timore presso i loro focolari».

Era ormai tempo, fallite le persecuzioni, che Costantino il 15 giugno 313 promulgasse il cosiddetto Editto di Milano. Contrariamente a quel che si crede, noi non possediamo il testo «ufficiale» dell’Editto, ma possiamo ricostruirlo poiché ci è rimasta la circolare di Licinio inviata al governatore della Bitinia, una regione periferica dell’Impero: «Noi Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendo felicemente convenuti a Milano per trattare di tutto ciò che riguarda l’interesse e la sicurezza dell’Impero, pensammo che tra le cose che esigevano maggiormente l’opera nostra, nessuna avrebbe portato tanto vantaggio alla maggior parte degli uomini, come il decidere in qual modo si debba onorare la divinità. Perciò abbiamo risoluto di accordare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità.

Noi credemmo che fosse un ottimo e ragionevolissimo sistema di non negare ad alcuno dei nostri sudditi, sia esso Cristiano o di altro culto, la libertà di praticare la religione che vuole; così la divinità suprema, che ciascuno di noi liberamente adora, ci vorrà accordare il suo favore e la consueta benevolenza.

È necessario dunque che l’Eccellenza Vostra» (ci si riferisce qui al governatore della Bitinia, cui la circolare è indirizzata) «sappia come noi vogliamo siano soppresse le restrizioni che nelle lettere giunte a cotesto ufficio, a proposito dei Cristiani, erano contenute, tutte poco favorevoli ed aliene dalla nostra clemenza; e sappia altresì come noi abbiamo deliberato che tutti coloro i quali osservano la religione cristiana, possano quindi innanzi farlo con tutta libertà senza essere in alcuna maniera molestati.

E volemmo che ciò le fosse noto con tutta la sicurezza possibile, affinché non ignori che noi abbiamo concessa ai Cristiani la libertà più completa, più assoluta, di praticare il loro culto. Ciò che noi concediamo a costoro, l’Eccellenza Vostra dovrà comprendere che noi lo concediamo anche agli altri, i quali avranno la libertà di scegliere e seguire quel culto, che essi vorranno, come è conveniente alla tranquillità del tempo nostro, affinché non si leda l’onore e la religione di alcuno.

Inoltre a proposito dei Cristiani ordiniamo, che se i luoghi dove essi avevano prima l’uso di radunarsi, dei quali già si parlò nei documenti costì pervenuti, sono stati per l’addietro alienati o dal fisco o da qualche privato, subito, senza alcun prezzo o formalità, vengano restituiti. Coloro poi che questi luoghi avessero ricevuto in dono, debbono quanto prima restituirli ai Cristiani. Che se costoro o altri che li avessero comprati, si attendessero qualche segno della nostra benevolenza, chiedano pure, poiché anche ad essi nella nostra benevolenza sarà provveduto. Tutte queste cose debbono subito e senza alcun indugio essere consegnate alla comunità dei Cristiani. Ma poiché costoro non avevano solamente questi luoghi in cui si radunavano, ma possedevano ancora collettivamente molti beni, comandiamo che tutto ciò venga subito loro ridato, sempre con le condizioni sopraccennate, che coloro cioè che senza alcuna pretesa restituiscono, si attendano una ricompensa dalla nostra benevolenza.

In tutte queste cose s’adoperi l’Eccellenza Vostra affinché a vantaggio dei Cristiani sia subito messa in pratica questa legge, e si favorisca così la pubblica tranquillità. Quel favore divino che già abbiamo sperimentato in così gravi imprese, ci assista in ogni tempo per il benessere dell’Impero.

E affinché la benevolenza nostra non sia più da alcuno ignorata, sia cura dell’Eccellenza Vostra di farla pubblicare in ogni luogo sì che tutti universalmente la possano conoscere».

Francobollo

Francobollo per il millesettecentesimo anniversario dell’Editto di Milano

Come si può notare, Costantino in realtà non fece che riprendere l’Editto di tolleranza di Galerio di due anni prima o, se vogliamo, non fece che ripetere il senatoconsulto di Tiberio al contrario: il Cristianesimo era accolto tra i culti ammessi nell’Impero. Fu la sua interpretazione a favore dei Cristiani che caso mai portò alla loro affermazione. Va rilevato che, propriamente, anche Costantino rimase nell’ambito della tolleranza: il Cristianesimo era religione solamente riconosciuta e non di fatto favorita; Costantino non fece altro che riconoscere al Dio dei Cristiani la possibilità di essere onorato come qualsiasi altra divinità; nemmeno l’Editto servì a far cessare le persecuzioni locali, che sono certe fino al 323.

Scopo della libertà religiosa era la benevolenza della divinità nei confronti dell’Impero: si riconobbe che non spettava all’Imperatore (allo Stato) decidere quali erano le divinità che si dovevano adorare, ma non veniva abolito il delitto di empietà (non venivano tutelati gli atei); era comunque la prima volta che lo Stato non decideva sulla religione da seguire: si de-sacralizzava perché non determinava più il fattore religioso. Questo ha un grande significato anche per la società di oggi.

La scelta di Costantino fu anche frutto di un calcolo politico: essendo ormai impossibile impedire la diffusione del Cristianesimo ricorrendo alle persecuzioni, era più redditizio – anche per la realizzazione delle sue ambizioni di potere – avere come alleati i Cristiani con la loro forza morale, che poteva ridare vigore alla società romana in decadimento. Sarà solo in seguito che alla Chiesa verranno concessi nuovi privilegi. Non a caso la professoressa Marta Sordi afferma che l’Editto di Milano è «sulla linea della tradizione romana» (Marta Sordi, L’Impero Romano-Cristiano al tempo di Ambrogio, Medusa, Milano, 2000, pagina 45), poiché propriamente parlando, è la concessione ai Cristiani della libertà di professare la loro religione, in modo che la loro divinità possa essere adorata come essa desidera e, conseguentemente, possa benedire anch’essa l’Impero. È, in altre parole, nella linea della ricerca della «pax deorum» («pace degli dèi»), che è fondamentale per il benessere del mondo.


Nota

1 Gli Ebrei erano liberi di praticare la loro religione in quanto si attenevano a questo concetto di seguire i «mos maiorum», i costumi dei loro antenati; non potevano essere costretti a cambiare i propri costumi perché fin dai tempi dei Maccabei avevano stabilito un patto in tal senso proprio con l’allora nascente potenza di Roma, e comunque si presentavano come un popolo ben identificato. Del resto, nel Tempio non mancavano mai di offrire sacrifici per l’Imperatore, e pagavano con regolarità un tributo all’erario. I Galilei (cioè i Cristiani) iniziano ad essere perseguitati quando gli Ebrei cominciano a non considerarli più come loro, cioè come Ebrei.

(giugno 2013)

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