Il Sacco di Lucca e la diaspora templare
Troppe coincidenze e analogie

Invito a leggere un interessante libro di storia locale dello storico Palmiro Filippo Bini dal titolo Sei miglia e contado, pubblicato da Maria Pacini Fazzi in Lucca. A pagina 51 Palmiro Bini descrive con passione e professionalità il celebre Sacco di Lucca del 1314 come segue, a proposito del potere acquisito in Pisa in quel periodo da Uguccione della Faggiuola: «In balia di feroci discordie interne e di fazioni contrapposte (Guelfi Neri da una parte capeggiati dagli Obizi; Ghibellini, Guelfi Bianchi e fuoriusciti dall’altra, capeggiati dai Bernarducci e dagli Onesti) anche Lucca, dopo un simulacro di accordo con Pisa, finirà per cadere in mano al Faggiolano. Assalita e occupata, il 14 giugno 1314, non senza il tradimento dell’esule fuoriuscito bianco Castruccio Castracani degli Antelminelli e di una ventina di altre famiglie lucchesi, Lucca sarà sottoposta a uno dei saccheggi più rovinosi che la città abbia mai subito nel corso della sua storia (il famoso Sacco di Lucca). Verrà messa a ferro e fuoco e le devastazioni, le stragi e gli incendi dureranno due interi giorni, durante i quali saranno date alle fiamme almeno 1.400 case e andranno perduti per sempre anche tutti i documenti dell’Archivio Pubblico del Comune, tra cui gli statuti precedenti a quelli del 1308, e tutta la documentazione relativa alla prima età comunale e alla costruzione della seconda cinta muraria a partire dal 1275. Non solo, ma sarà pure trafugato il tesoro del Papa Avignonese Clemente V, custodito nella sagrestia di San Frediano, ammontante a un milione di scudi. Scriverà il Villani che la ruberia fu “sì grande che mai uomo non potrebbe dire”».

Ce n’è abbastanza per raccontare le reali vicende dell’Ordine Cavalleresco più discusso, chiacchierato, vituperato e ammirato della storia dell’Occidente.

Andiamo per gradi. Siamo nel 1314, e l’Ordine dei Cavalieri Templari da pochi anni è stato ufficialmente sciolto con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

Chi poteva scortare il tesoro papale rinchiuso proprio in quegli anni cruciali nella sagrestia di San Frediano in Lucca? Sicuramente dei cavalieri, di fiducia del Pontefice, che era proprio Bertrand De Got, il Francese accusato di non aver fatto abbastanza contro Filippo il Bello al momento dello scioglimento dell’Ordine. Cavalieri che dovevano ben conoscere Lucca, visto che si affidarono per nascondere l’impotente tesoro alla sagrestia della più antica e famosa basilica lucchese, con speciali e comprovate tradizioni esoteriche. Il tradimento di Castruccio e delle famiglie lucchesi a proposito del Sacco, di cui parla lo storico Bini: altro non sono che quelle famiglie al cui interno, con ogni probabilità, erano presenti valorosi cavalieri, non sappiamo per inciso a quale degli Ordini Cavallereschi appartenenti. Sappiamo però che il valorosissimo cavaliere Castruccio Castracani degli Antelminelli, di cui con solerzia e particolare enfasi ci parla anche nelle sue memorie Niccolò Machiavelli, era un traditore per eccellenza. Prima presente alla Corte di Edoardo I d’Inghilterra, poi alla Corte Francese di Filippo il Bello, proprio in quel 1314 diverrà l’ago della bilancia delle vicende toscane del periodo e l’anno successivo, nonostante la disfatta di Montecatini (1315) avrà la meglio sui suoi avversari. Si trasformerà così nel Signore di Lucca fino alla sua morte, avvenuta incidentalmente, per malattia, nel 1328, quando la sua stella era all’apice ed egli aveva buone probabilità di riuscire a creare, come desiderava, un forte Stato nel Centro e Nord d’Italia.

Lo storico Bini si affretta in nota, sempre a pagina 51 della medesima pubblicazione, a spiegare che Antelminelli era un’aggiunta fittizia di Castruccio, perché lui con la famiglia Antelminelli originaria non aveva nulla a che fare, ma apparteneva a una famiglia, i Castracani, di origini plebee.

Non tutti gli storici sono d’accordo con questa affermazione. Sono provati i legami dei Castracani con la schiatta longobarda dei Porcaresi e con i Da Corvaia, e qui invito a leggere anche in nota l’articolo che in passato su Castruccio ho scritto e pubblicato sul sito www.storico.org.

D’altra parte non si diventava valorosi condottieri di ventura come Castruccio e uomini d’arme senza una comprovata tradizione familiare nel mondo delle armi. È vero, il padre di Castruccio era un banchiere, ma gli uomini d’arme, Templari docent, erano quasi sempre cavalieri e banchieri.

Castruccio dunque tradisce con alcune famiglie lucchesi la città, e si impadronisce qualche tempo dopo quel Sacco del potere cittadino. Anche il Papa Clemente V era stato a servizio, da Cardinale, del Sovrano Inglese, particolare coincidenza. E in qualità di suddito francese, poiché Francese di nascita, in un rapporto di amore/odio con Filippo il Bello.

L’Ordine Templare venne sciolto da Filippo il Bello perché quest’ultimo aveva troppi debiti con l’Ordine medesimo e dunque, di riflesso, con la Curia Pontificia.

Chiediamoci: ma quel tesoro papale così prezioso e vasto andò forse a finire nelle mani di quei cavalieri traditori, magari lucchesi, che lo scortavano? Tra questi anche il celebre Castruccio?

Forse Castruccio aveva fatto un accordo con Filippo il Bello. Attenzione, si tratta di ipotesi, ma non così campate per aria. Sicuramente, di agganci potenti Castruccio doveva averne, visto che si svincolò dal potere di Filippo il Bello e riuscì, diremmo noi, a mettersi in proprio qualche tempo dopo.

Filippo il Bello era potente ma pieno di debiti. E Castruccio di mosse vincenti ne conosceva e sapeva applicare. L’essere stato anche a servizio del Re Inglese era da questo punto di vista un valore aggiunto.

D’accordo con i suoi cugini lucchesi, cavalieri come lui, ma anche qui il condizionale è d’obbligo, avrebbe potuto convincere Filippo il Bello a un sostegno fuori campo e quel Sacco, a opera del Della Faggiuola, essere uno strumento per recuperare i preziosi pontifici di un Pontefice che si fidò, a mio avviso, di uomini che non furono di parola. Ma questo è un mio pensiero.

Con quei soldi i cavalieri lucchesi ex Templari che, come afferma lo storico Guido Mencacci in Templari a Lucca, continuarono dopo lo scioglimento dell’Ordine a fare quanto facevano prima, si «pagarono» le grazie di Filippo il Bello?

E Castruccio Castracani la sua ascesa politica? Chi può dirlo, ma gli elementi per pensarlo ci sono tutti.

Veniamo a Bertrand De Got. Solo un Papa «rammollito», inetto, o qualcosa di diverso?

Mi sono sempre chiesta in che misura gli interessi papali che Bertrand De Got rappresentava nella sua veste di Pontefice coincidessero con i suoi interessi personali di Pontefice di origine francese, che sicuramente col Sovrano di quel paese doveva fare i conti come semplice «suddito». Forse, e anche qui si tratta di una supposizione, quella che spesso gli storici identificano come debolezza altro non era che un giusto compromesso dell’uomo Bertrand De Got con gli interessi della sua famiglia di origine. Perché affidarsi a cavalieri che probabilmente, anche per il fatto che Lucca stava sulla Francigena e rappresentava da sempre un porto sicuro, avevano fatto tappa col suo tesoro in San Frediano a Lucca?

Di sicuro sopraffatti dagli eventi e dalle mire espansionistiche e politiche di Castruccio Castracani, questi cavalieri si erano lasciati convincere a chiudere un occhio sul trafugamento naturale del grande tesoro papale? Verosimile.

Gli eventi imperversavano e tutto ciò non può essere trascurato. Per questo penso compiutamente che ci sia un nesso preciso tra queste illustri vicende e un Ordine Cavalleresco come quello Templare, sciolto sì ma non allo sbando, almeno apparentemente. Che nella città di Lucca continuò a trovare i suoi spazi, come lo storico Mencacci sottolinea. A questo punto, e il condizionale è d’obbligo, forse non così casualmente.

Per comprendere se queste osservazioni hanno un loro fondamento bisogna fare un salto temporale, io credo, al settembre 1541.

In quella data (pagina 81 del medesimo libro, citato, dello storico Bini) troviamo a Lucca un Papa e un Imperatore insieme (Paolo III Farnese e Carlo V) che vorrebbero forse di comune accordo, almeno in un primo momento, organizzare qui quello che poi sarà il Concilio di Trento. Ma ci mette lo zampino il Vescovo di Lucca, niente affatto intenzionato a far svolgere nella sua città l’evento, tanto che forse anche il Pontefice, visti i trascorsi della città medesima, ha un suo ripensamento. E infatti il Concilio, celebre, si svolgerà poi nella città di Trento.

Scrive lo storico Palmiro Bini: «Dopo aver accolto con il massimo degli onori e delle solennità sia l’Imperatore Carlo V che il Papa Paolo III Farnese, che si erano dati convegno a Lucca nel settembre del 1541, la Repubblica – a sentire che il Papa era venuto nella determinazione di preferire Lucca, anziché Trento, come sede del Concilio – riusciva abilmente, accampando pretesti di ogni genere, a declinare tale preferenza. Intuitive le ragioni di questo cauto diniego: evitare non solo le insidie che avrebbe comportato l’afflusso in città di tanta e varia gente estranea, ma anche il pericolo che s’ingigantisse (?) oltre misura il sospetto di un’eccessiva tolleranza usata da parte delle autorità verso il movimento spirituale riformistico che si stava sempre più diffondendo in città e che interessava soprattutto esponenti del patriziato e del ceto mercantile lucchese. E in effetti, le idee della Riforma Luterana avevano trovato a Lucca un ambiente quanto mai disposto ad accoglierle, anche perché come già si è accennato, dopo la morte del Vescovo Felino Sandei, nel 1503, la Diocesi era rimasta allo sbando, essendosi succeduti fino al 1546 Vescovi tutti delle famiglie della Rovere e Riario Sforza (dunque romane o milanesi, comunque non lucchesi). Questi ultimi non avevano mai preso residenza in Lucca e nel contempo la Curia Lucchese si era disinteressata delle vicende politiche della città medesima».

Tutto casuale? Anche qui non direi.

È interessante notare che i membri curiali della Curia Lucchese appartenevano quasi sempre a famiglie potenti della città, ma non alle più in vista, queste ultime spesso di origine mercantile. Evidentemente la Curia aveva un suo bacino d’utenza in famiglie sì nobili o d’estrazione nobiliare, ma non mercantile. I mercanti, nobili parvenu, erano dediti prevalentemente alle questioni politiche e non religiose. Ciò spiegherebbe la dicotomia che poteva in qualche modo agevolare la città sia nelle sue pratiche politico-economiche che religiose. Una sorta di «date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» «ante litteram».

I Papi, evidentemente a loro modo, agevolarono questa prospettiva della città. A noi contemporanei sfugge il perché di queste scelte, che tali erano, e non semplici casualità. A ogni modo circa il Concilio del 1541, sia il Papa che l’Imperatore diedero ragione al Vescovo e non se non se ne fece nulla.

Tutti d’accordo insomma, nel preservare cosa?

La storia di Lucca fu poi, effettivamente, la storia di fuoriusciti in Ginevra che mantennero legami familiari con la madrepatria. Di capitali persi, almeno in apparenza, perché portati all’estero proprio da quelle famiglie cittadine potenti costrette (?), con la Riforma, ad andarsene. Salvo poi non lasciare indubitabilmente a secco i familiari rimasti in città, che, come accade sempre a chi se ne va, aiutarono con rimesse. Perché un indebolimento economico fortissimo, uno scotto economico senza pari la città in quel frangente lo pagò. Ma, non dimentichiamolo, non solo mantenne la sua indipendenza politica fino al 1847, ma anche la sua indipendenza culturale e morale nonché religiosa. Qui mai prese piede il Tribunale della Santa Inquisizione né mai sopraggiunsero i membri dell’Ordine Gesuita.

Scrive in proposito sempre il Bini: «Sono anni, quelli dopo il 1530, in cui le intense relazioni di Lucca col mondo anglosassone, sia attraverso i mercanti (Agostino Balbani di ritorno dalle Fiandre, Niccolò Arnolfini eccetera) che tramite le case degli stessi Ordini Religiosi (qui presenti), avevano contribuito alla diffusione delle idee della Riforma».

Idee, aggiungo io, di stampo europeistico, poco provinciali, molto aperte ai tempi nuovi, alle celebri scoperte geografiche del periodo. A un modo di concepire la politica mercantilistico, posizione che Lucca, a partire dall’Alto Medioevo, aveva sempre sostenuto.

Ecco perché la storia si ripete, o forse mai ha smesso di avere un’unica matrice, quella che nel corso del XIII secolo e poi all’inizio del Milletrecento, avrebbe potuto far gridare allo scandalo chi amava lo «status quo» e che poteva intravvedere in condottieri come Castruccio una commistione di finanza e politica che poco aveva a che vedere con una visione statica della società.

Abili cavalieri dunque, abili banchieri, abili uomini d’arme, d’Altare e mercanti appassionati. Nulla di più suggestivo e insieme, dati i documenti, di più plausibile.

(marzo 2020)

Tag: Elena Pierotti, Sacco di Lucca, diaspora templare, Uguccione della Faggiuola, Castruccio Castracani, Filippo il Bello, Clemente V, Paolo III Farnese, Carlo V.