Il fuoco greco
Terribile arma di offesa e di difesa

Nell’antichità un’arma di offesa che ebbe una certa diffusione fu il cosiddetto «fuoco greco», che fu di grandissima rilevanza durante l’Impero Bizantino nella seconda metà del VII secolo dopo Cristo; in particolar modo, ebbe un grande successo nelle battaglie navali, dove gli esiti furono veramente terrificanti e disastrosi. Si trattò di un’evoluzione tecnologica di estremo valore, che fu apprezzata e adottata in tutta Europa. Secondo Teofane, un religioso e storico bizantino, vissuto nell’VIII secolo, l’invenzione del fuoco greco si deve a un abitante di Eliopolis, città del Libano, di nome Callinico, un architetto libanese esperto in armi, che nel 672 preparò una miscela, chiamata «fuoco marino», con la quale i Bizantini potessero liberarsi dagli attacchi delle orde arabe del Califfato, che scorrazzavano nel Mediterraneo portando rovine e morte; e invero fu proprio così che andò a finire.

Comunque, chiunque sia stato, un alchimista o un gruppo di alchimisti, resta il fatto che, come è stato dimostrato dagli eventi storici, il suo uso fu estremamente vantaggioso per i Bizantini, cioè per le truppe dell’Impero di Costantinopoli (l’attuale Istanbul), quando riuscirono a opporsi in modo eccellente alle invasioni degli Arabi, che furono ingloriosamente ricacciati. Infatti, durante il secondo assedio da parte degli Arabi (717-718), proprio grazie a quest’arma, essi dovettero tornare alle loro magioni, come si dice, «con le pive nel sacco». Però non si può ignorare che già nell’Iliade di Omero si parla di un fuoco, non meglio specificato, che non si poteva spegnere, proiettato contro le navi greche.

Pure i Bulgari e gli Avari (un popolo dell’Asia Centrale) ebbero modo di apprezzare negativamente la novità. Gli alchimisti bizantini sapevano benissimo cosa stessero facendo, perché conoscevano a fondo gli ingredienti e ciò che da essi si poteva conseguire. E nemmeno Roma era all’oscuro in merito a quest’arma bellica.

Quale fosse esattamente la formula, non è noto. Comunque, fonti dell’epoca riportano che il fuoco greco fosse costituito da una miscela formata da salnitro (KNO3), zolfo (S), calce viva o ossido di calcio (CaO), nafta e pece. Per il reperimento del salnitro e dello zolfo si è parlato in occasione della nota sulla polvere nera. L’approvvigionamento della calce viva non creava problemi: bastava trattare materiali calcarei (calcari compatti, marmi, travertini) in forni alla temperatura dagli 850 ai 960° C, perché in quelle condizioni si scomponessero, per calcinazione, in ossido di calcio e anidride carbonica, che si lasciava disperdere in atmosfera. Nota era pure la combinazione fra idrocarburi e pece, sostanze che si trovavano in natura proprio nei dintorni di Costantinopoli, affioranti dal suolo in aree del Mar Nero e molto maleodoranti.

Gli ingredienti erano conosciuti fin dall’antichità, compreso tutto il processo chimico atto a raggiungere i risultati ottenibili. Era nota la reazione chimica che avveniva quando all’ossido di calcio si aggiungeva acqua: infatti, dalla loro combinazione si ha la formazione della calce spenta (quella dei muratori di sempre, per intenderci) e uno sviluppo enorme di calore (oggi si sa che sono ben 1.136 kiloJoule le calorie che si sviluppano da un chilogrammo di calce viva). Con una tale energia termica, il salnitro è degradato e libera ossigeno (O2) che, come comburente, innesca la combustione della miscela nafta-pece. L’elevata temperatura della combustione, associata a quella della reazione fra ossido di calcio e acqua, fa sì che lo zolfo si ossidi, formando anidride solforosa (SO2), la quale a contatto con l’acqua forma acido solforoso (H2SO3) di forte tossicità. Quindi, oltre al fuoco che non si poteva spegnere e che faceva molto fumo, la tossicità ammorbava l’aria rovente e metteva in difficoltà le vie respiratorie. Il fuoco greco era un’arma temutissima, perché faceva terrorizzare la gente per la sua infiammabilità, da un lato, e per l’impossibilità di spegnerlo usando acqua, se non si sapeva in quale modo procedere, dall’altro. Un attacco navale con il fuoco greco non poteva non mettere nel terrore i nemici, perché, essendo ciò che è stata denominata nafta-pece nient’altro che una miscela di idrocarburi, una volta in acqua, questa per la bassa densità galleggiava e, non spegnendosi, incendiava le navi, facile preda, giacché, essendo esse di legno con l’impermeabilizzazione fatta con collante infiammabile, bruciavano e non lasciavano nessuno scampo a eventuali tentativi di mettersi in salvo a nuoto.

La miscela incendiaria era inserita in grandi otri di terracotta o di pelle, e per mezzo di tubi di rame, grazie alla pressione esercitata dai piedi degli artiglieri su una pedana, era spruzzata direttamente contro le imbarcazioni nemiche; se si vuole, si trattava di un lanciafiamme primordiale, ma efficace. In alternativa, si lanciavano contro gli avversari attraverso le petriere, particolari dispositivi di lancio, un po’ simili ai moderni mortai.

Oggi, è nota la norma per spegnere il fuoco greco: basta utilizzare aceto, urina o sabbia, e il gioco è fatto. Ma a onor el vero, è corretto ricordare che nel trattato Liber Ignium ad Comburendos Hostes, scritto da un certo Marcus Graecus nel Medioevo, è riportato che le modalità di spegnimento del fuoco greco sono quelle appena indicate: usare aceto, sabbia o urina. Più semplice di così! Già, quante volte la soluzione è lì, pronta per essere concretata, ma se non la si conosce... E così fu proprio il segreto a far furoreggiare l’arma e a darle il lustro che si è meritato.

È comunque bene chiarire un fatto: il fuoco greco non fu la prima arma incendiaria in carico degli eserciti del passato; invero, si sa che già i Greci, i Romani e alcuni popoli del Medio Oriente possedevano miscugli contenenti petrolio o bitume e zolfo, che utilizzavano per incendiare navi e costruzioni nemiche, lanciando da distanza proiettili incendiari (granate, bombe, frecce o altro).

Inoltre, andando ancora più indietro nel tempo, si sa che già attorno a un millennio di anni prima di Cristo si sapeva utilizzare il fuoco come si desiderava. Quindi, potrebbe pure darsi che Callinico non avesse fatto altro che perfezionare ciò che altri avevano inventato, rendendolo più pratico ed efficace contro il nemico, ma meno pericoloso per coloro che lo maneggiavano; o magari sono stati gli alchimisti e gli artificieri bizantini a compiere la positiva variazione.

I Bizantini, che detenevano la paternità del fuoco greco, ne tenevano scrupolosamente ben stretto il segreto per cui la sua scoperta non ebbe nessuna diffusione. Ecco perché la formula non è giunta sino a noi: non esiste nessuna documentazione che la descriva. Alcune centinaia di anni dopo la sua invenzione si sa che l’Imperatore Costantino II, nella sua opera De Admistratio Imperio raccomandava ai suoi eredi di non rivelare mai a nessuno la formula di questo strumento bellico che «è stato mostrato e rivelato da un angelo al grande Imperatore Cristiano, Costantino».

Comunque, in un documento manoscritto antico che si trova nella biblioteca di Wolfenbüttel, città della Germania, è stata descritta l’arma che lanciava il fuoco greco dalla prua dei dromoni, tipo di navi in uso in quel periodo: si trattava di un recipiente di rame con dentro la fiamma, in cui era versata la miscela per riscaldarla; quando era pronto, il miscuglio incendiario era aspirato da una parte di un tubo di bronzo per mezzo di sifoni ed espulso dall’altra.

Un fatto importante di tutta l’operazione, era che nessuno degli operatori (esclusi l’Imperatore e pochi artigiani qualificati) conosceva a fondo il sistema, nel senso che ognuno ne conosceva solamente una parte; per questo era impossibile che potesse essere venduto o rivelato al nemico. D’altra parte, la formula era tenuta gelosamente segreta anche perché la legge avrebbe punito con la morte coloro che l’avessero svelata. Proprio per questo è stato riportato che nell’anno 814 i Bulgari, pur essendo riusciti a prendere 36 sifoni e anche una quantità di miscela incendiaria, non riuscirono a stanare un ragno da un buco, come si dice, per cui pur avendo la materia prima, non sapevano come sfruttarla, non essendo in possesso delle modalità d’uso.

In ogni modo, il fuoco greco ebbe un enorme successo per chi ne deteneva il segreto di fabbricazione; cioè era un’arma di difesa-offesa limitata a pochi popoli. Ecco che piano piano fu soppiantato da un’altra micidiale invenzione, quella della polvere nera, pirica o da sparo, come si preferisce. Quest’ultima, dotata di grande versatilità d’uso e diffusa com’è stata in tutto il mondo conosciuto, divenne il mezzo più idoneo nella risoluzione dei problemi di contrasto fra le genti, portando alle modalità di comportamento bellico attuale con le successive invenzioni e i conseguenti miglioramenti tecnico-tecnologici; tutto questo, però, non l’ha messa definitivamente in quiescenza, lasciandole un giusto spazio – meritato – nelle munizioni per la caccia e per la formazione dei fuochi pirotecnici.

(febbraio 2021)

Tag: Mario Zaniboni, fuoco greco, Impero Bizantino, Teofane, invenzione del fuoco greco, Callinico, fuoco marino, Impero di Costantinopoli, Iliade, Omero, il fuoco greco, Liber Ignium ad Comburendos Hostes, Marcus Graecus, Medioevo, Costantino II, De Admistratio Imperio.