I catari
Storia di un’eresia che costrinse la Chiesa ad un profondo rinnovamento morale

Dopo le grandi contese trinitarie e cristologiche che caratterizzarono i primi secoli cristiani, fra IV e VIII secolo, per un lungo periodo, fino alla metà del XII secolo, non abbiamo traccia di eresie, al di là di casi peculiari e circoscritti ispirati per lo più dal desiderio di uniformarsi all’insegnamento di monaci e di eremiti. La rinascita ereticale che imperversò tra XII e XIV secolo nella Francia Provenzale e Occitana e nell’Italia Centro-Settentrionale, primi fra tutti i movimenti ereticali del catarismo, valdismo e quello apostolico o dolciniano, fu assai diversa rispetto a quella dei primi secoli del Cristianesimo. Quanto le prime eresie erano, infatti, il frutto di vere e proprie dispute filosofiche e teologiche appartenenti ad ambienti acculturati ed eminentemente bizantini, tanto le eresie del Basso Medioevo erano diffuse all’opposto tra i laici di media condizione.

Per spiegare un fenomeno di così vasta portata come l’eresia medievale, non possiamo esimerci dal considerare la rinascita economica, e quindi sociale, che, a partire dai primi decenni del secolo XI, si manifestò in Europa. Conseguenze immediate furono la riforma della Chiesa e quella monastica, che dettero il via ad un processo rinnovatore, un vero e proprio humus spirituale ed etico, che coinvolse tutta la società medievale, e con essa anche la vita religiosa, capace di risvegliare la coscienza religiosa e civile dei laici, attratti dagli ideali di coerenza morale e di ritorno alla purezza evangelica. A partire dal secolo XI, ed in particolar modo in quello successivo, sono evidenti i segni di questo rinvigorimento in tutta l’Europa: la popolazione aumenta di numero, sorgono nuovi centri abitati, le città rinascono a nuova vita e in esse si formano e si sviluppano nuovi ceti sociali. Ovunque, ma in particolare nell’Italia Centro-Settentrionale e nella Francia Provenzale, ci sono uomini nuovi che, spinti da spirito di iniziativa, da sete di guadagno e da desiderio di libertà, percorrono le strade d’Europa, e con loro servi della gleba che fuggono dal feudo per affrancarsi nella città.

Tutto questo accadde nel complicato e confuso scenario di un rivolgimento politico che fu la «Lotta per le Investiture», che coinvolse i due principali attori politici del tempo: l’Impero ed il Papato. I «burgenses» iniziano, così, a spingere dal basso e a ritagliarsi spazi fino ad allora preclusi e a tradurre il loro anelito di cambiamento e di libertà anche in ambito religioso (e non poteva essere altrimenti, tenuto conto che la religione occupava ogni aspetto della vita sociale e comune di allora). Nel XII secolo, ispirata agli ideali evangelici ed apostolici, in antitesi ai costumi della Chiesa mondana e corrotta, si manifesta un po’ in tutta Europa una fervente attività religiosa popolare, promossa e sostenuta dalla predicazione itinerante di monaci (tra i quali ricordiamo il Monaco Enrico e Pietro di Bruys). Questi germi li ritroviamo già all’inizio della riforma monastica, dalla quale prese le mosse e si sviluppò la riforma gregoriana: già in quegli anni Oddone di Cluny metteva in evidenza come i cattivi costumi del clero concubinario fossero la causa per cui, tra la gente comune, si era cominciato a ritenere che un sacerdote indegno non potesse officiare la Messa e dare i sacramenti in quanto corrotto e, quindi, fuori dal corpo della Chiesa. È a questo intenso soffio di rinnovamento spirituale che dobbiamo anche le prime e spontanee spedizioni di vaste fasce di popolo che precedettero la Prima Crociata e che, senza alcuna assistenza da parte delle autorità, si avviarono verso la Palestina, attratte dal miraggio della terra del Signore, per liberarla dagli infedeli.

La condanna del clero corrotto e mondano del secolo XI, pronunciata non solo da attivi riformatori, ma anche da Vescovi e monaci, ebbe come conseguenza la riscoperta della vita apostolica, semplice e pura, della Chiesa dei primi secoli. Il Vangelo è una costante, una fonte di riferimento pressoché unica, e quella più largamente citata, da parte di tutti gli eretici e i riformatori popolari del Basso Medioevo, tanto tra gli eretici di Arras e di Monteforte, quanto nella dottrina di Pietro di Bruys o in quella di Arnaldo da Brescia. È a questo che si deve l’origine dell’eresia medievale, non ad un tardivo risorgere della più antica gnosi. È a questa aspirazione ad una Chiesa più aderente ai dettami del Vangelo che si deve la costante opposizione di tutti i movimenti ereticali, dell’XI secolo come dei secoli successivi, alla Chiesa Romana, raffigurata quasi sempre nella meretrice dell’Apocalisse, o nella Babilonia della Prima Lettera di Pietro. Anche il movimento patarino che condusse una lotta decisa contro il clero concubinario e simoniaco, tendeva decisamente verso una Chiesa di popolo e ispirata soprattutto alla parola del Vangelo, ripudiando la Messa celebrata e i sacramenti impartiti da sacerdoti.

Le eresie medievali non sono qualcosa di estraneo, avulso dal contesto dottrinario, ma si inseriscono, a modo loro, nella società del Basso Medioevo, che è indubbiamente tutta cristiana. Sono, anzi, il prodotto di quel lungo processo di trasformazione e sviluppo della società cristiana (la «Christianitas») e delle sue istituzioni, che raggiunse il suo culmine nel XIII secolo. Il messaggio evangelico viene visto come altro dalla Chiesa, intesa come istituzione e gerarchia ecclesiastica, opulenta e ricca, compromessa con i potenti ed essa stessa potente. Risulta evidente l’inadeguatezza degli uomini di Chiesa e bassa la credibilità di molti dei suoi predicatori. Ed è a questa parte della società (soprattutto cittadina) che gli eretici si rivolgono, ispirandosi al messaggio salvifico del Vangelo. Da qui il loro impegno concreto con atti di carità, di assistenza ai bisognosi, ai malati, ai poveri, che fu una costante in tutti i movimenti, dando luogo ad un Cristianesimo «sociale».

Altra costante comune tra i vari movimenti ereticali è il sostenere di essere gli unici e legittimi rappresentanti, e quindi eredi, di Cristo e degli Apostoli, contro la legge della Chiesa e la sua tradizione, contrapponendo l’«Ecclesia Dei» all’«Ecclesia diaboli» (è la sequela del Cristo, o il Vangelo «sine glossa»). E non è un caso se, agli occhi di molti contemporanei, gli eretici vengono percepiti come i veri «Cristiani», i «boni Cristiani». Lo stesso Bernardo da Chiaravalle, morto nel 1153, uno dei più influenti predicatori e difensori dell’austerità del suo tempo, ritenne che fu proprio il diffuso malcontento popolare, sia dei ricchi che dei poveri, per la corruzione del clero regolare, una delle ragioni principali della straordinaria popolarità che conobbe il catarismo, che annoverava tra le sue fila molti esponenti della nobiltà occitana e provenzale, a quel tempo la più civile d’Europa.

Spinti da questo malessere religioso e da un’ansia di partecipazione, che, comunque, rimase sempre circoscritta alla sfera religiosa, senza assumere quasi mai i connotati di una contestazione sociale (casomai riscontrabile in alcuni movimenti del Basso Medioevo, in ogni modo sempre «a latere»), molti tra quelli che si sentivano delusi dalla Chiesa, si rivolsero alla lettura della Bibbia e delle Sacre Scritture, piuttosto che ai Padri della Chiesa o ai sacerdoti. Tra loro ci furono uomini come Pietro Valdo, Wyclif, Huss e Martin Lutero che sostennero che in quei testi non vi era segno o menzione di quei dogmi sui quali la Chiesa basava la propria continuità e il suo potere. Non vi erano riferimenti - dissero - ai sacramenti, al purgatorio, ai pellegrinaggi, alle indulgenze o alla venerazione delle reliquie. Ma il Papato (e come poteva esser altrimenti?) si rifiutò sempre di venir incontro a queste esigenze di rinnovamento, trasformando molti di questi riformatori in eretici, dove, in termini teologici, di eretico poteva esserci ben poco.

Significativo in questo senso è anche il successo che conobbe l’escatologia di Gioacchino da Fiore (morto nel 1202). Sua è l’interpretazione della storia del mondo in tre distinte ere, ognuna delle quali preceduta da un lungo periodo di gestazione: l’era del Padre (o della Legge), l’era del Figlio (o del Vangelo), e l’era dello Spirito, che aveva stimato che sarebbe iniziata intorno al 1260, numero simbolico più volte citato nell’Apocalisse di Giovanni (11,3 e 12,6) e sarebbe durata fino alla venuta dell’Anticristo e del Giudizio Universale. In quell’anno, così denso di significati per Gioacchino, non si sarebbe verificata la parusia (ovvero il secondo ritorno di Cristo sulla Terra), ma l’avvento di un’era di concordia e di fine della gerarchia della Chiesa. Particolarmente famoso fu il suo commento dove veniva affermato che prima che ciò potesse avvenire, dovevano verificarsi alcuni prodigi, primo fra tutti la venuta di un grande maestro, un «nuovo Elia», e un nuovo ordine di monaci che avrebbero diffuso lo Spirito nei più remoti angoli della Terra, convertendo al Cristianesimo persino gli Ebrei. Questa nuova interpretazione dei testi escatologici provocò una miriade di esegesi e trattati pseudo-gioachimiti in cui si cercava di identificare i segni premonitori che indicassero il principio di questa nuova era. Possiamo citare i Francescani appartenenti alla corrente degli Spirituali (o fraticelli) che identificavano il loro movimento con il nuovo ordine di monaci che avrebbero dovuto guidare la comunità cristiana nell’era dello Spirito. Oppure all’Imperatore Federico II, che, scomunicato per spergiuro, bestemmia ed eresia, da più parti venne identificato con l’Anticristo. E non fu un caso se, verso la fine del 1260, l’anno che Gioacchino aveva indicato come inizio dell’era dello Spirito, si ebbe la prima manifestazione pubblica di flagellanti, che da Perugia si estesero un po’ in tutta Europa.

La lotta tra inquisizione ed eretici si presenta, essenzialmente, come lo scontro tra l’autoconservazione dell’istituzione e le istanze individuali, o di piccoli gruppi, per appropriarsi il diritto alla predicazione (non esiste e non si ha percezione di un’anti-Chiesa ereticale, intesa come altra e nuova istituzione, sostitutiva di quella esistente). Gli stessi manuali inquisitoriali non preparano e non sostengono gli inquisitori ad una lotta contro una controistituzione, ma semplicemente contro degli errori, dottrinari e comportamentali, individuali. Per l’inquisizione, l’eresia è tale perché in contrasto con i principi della dottrina e della morale stabiliti dal magistero ecclesiastico, non perché realizza un’istituzione alternativa alla Chiesa. Il suo scopo è accertare se le affermazioni eretiche siano veramente credute da chi le sostiene, o se sono frutto dell’ignoranza, perché la vera eresia (dal greco «haeresis», ovvero «scelta») è frutto di una scelta consapevole e libera.

L’aspetto dottrinale e l’assetto teorico e morale che stavano dietro non ricoprivano per gli inquisitori un ruolo importante. All’inquisizione non interessava in alcun modo stabilire che cosa fosse eresia; non ha mai cercato il dialogo. Il suo era un fine esclusivamente di accertamento e di repressione, partendo dal presupposto esclusivo ed autoritario che «extra Ecclesiam nulla salus». Con la Chiesa orientata in quegli anni verso il conformismo religioso ed una rigida istituzionalizzazione dei fedeli, ogni interpretazione o atteggiamento «extra Ecclesiam» era definito illegittimo e causa di perdizione, e di conseguenza eretico. Agli occhi di un inquisitore, quasi sempre un frate predicatore od uno minore, discutere era già di per sé un errore poiché la verità che gli era stata affidata da difendere era certa ed immutabile, meno che mai suscettibile di aggiustamenti. Gli inquisitori non si sforzano mai di capire questo «malessere ereticale», così come le istanze pauperistiche e la richiesta di un rinnovamento integrale della Chiesa, unita ad una maggiore partecipazione alla vita religiosa da parte dei laici.

Un atteggiamento mentale di questo genere fece sì che le varie forme di dissenso religioso venissero incasellate in schemi già noti, quasi sempre ascritte ad un rifiorire del manicheismo, ricostruendo, in questo modo, uno spaccato della devianza religiosa del Duecento e Trecento frammentato e contraddittorio, nella maggior parte dei casi lontano dalla realtà. Ad aggravare ulteriormente la conoscenza delle fonti storiche, è che i documenti che ci sono giunti e che parlano dei vari movimenti sono soltanto quelli riportati dalla parte avversa, dalla penna, cioè, dei controversisti e degli inquisitori cattolici che espongono le dottrine degli eretici in aperta polemica contro di essi. Interessati ad evidenziare solo quei caratteri esteriori che permettevano loro di riconoscere se un movimento religioso era o no conforme alla dottrina della Chiesa, nei vari manuali, trattati e costituzioni pontificie ed imperiali, i cronisti descrivono indistintamente le eresie secondo canoni prestabiliti; tratti comuni sono il turpiloquio, la sodomia, l’incontinenza sessuale e la stoltezza dei loro seguaci.

Il confine tra ortodossia ed eresia era sottile: numerosi sono gli atti di processi inquisitoriali da cui risulta che ci sono eretici che non si rendono conto affatto di essere tali, che partecipano attivamente agli atti di culto, celebrano i Santi, chiedono indulgenze, si confessano, fanno atti di penitenza e di carità come qualsiasi altro fedele ortodosso. In molti casi il loro è semplicemente un tentativo per professare più intensamente la propria spiritualità, quasi un divenire eretico per condurre un’esistenza più coerentemente cristiana, come dimostrano i vari movimenti pauperistici e penitenziali improntati all’«exemplum» della vita evangelica. La predicazione di Gherardo Segalelli, ad esempio, riscosse così tanto successo a Parma non perché portasse elementi teologicamente nuovi, ma perché «era un buon uomo e diceva belle parole». Le verità dottrinali non vengono mai messe in discussione (tranne forse per il caso dei catari): si diventa eretici solo perché ci si rifiuta di sottomettersi alle ingiunzioni papali e all’obbedienza romana.

La scelta eterodossa fu quasi sempre una scelta intellettuale e morale del singolo, mai di una comunità, spinta dalla necessità di obbedire al dettato della propria coscienza, originando nella maggior parte dei movimenti di dissenso una religiosità essenziale e scarna che puntava ad una piena responsabilizzazione di ogni Cristiano nel suo rapporto diretto con Dio e limitando, laddove era possibile, l’intermediazione della Chiesa. Era questa la loro vera «pericolosità sociale»; la loro credibilità era strettamente legata ad atteggiamenti il più possibile vicini al messaggio apostolico ed evangelico, e quindi «ortodosso» per ampi strati della società civile e che, implicitamente, metteva in dubbio la credibilità dell’istituzione ecclesiastica. Si badi bene, però, mai gli eretici si propongono come contestatori dell’ordine cittadino, comunale o nobiliare. Negli stessi movimenti troviamo, infatti, a braccetto il mercante, il contadino o l’artigiano, a dimostrazione che raccoglievano il consenso tra i ceti sociali più diversi. Le istanze e rivendicazioni politico-sociali, casomai e se ve ne sono, vengono dopo, molto dopo (caso a parte, ma comunque sempre ascrivibile a questo contesto, è quello della vicenda dolciniana quando il movimento apostolico si saldò con le comunità rurali e montanare dell’Alta Valsesia in aperto contrasto con i comuni di Novara e Vercelli e il Vescovo di quest’ultima città).

Parlare di eresie ed eretici medievali significa, ovviamente, parlare di sconfitti ed emarginati (molti uccisi, in maniera più o meno atroce, per mano dell’inquisizione). È una storia di «dimenticati», di uomini che hanno subito repressioni ed umiliazioni di ogni genere, che hanno conosciuto l’emarginazione, relegati nell’oblio. Più che di eresia, se non intesa come scelta del proprio credo, del proprio modo di comportarsi e rapportarsi con la società del tempo, si tratta di Cristiani «senza una Chiesa propria», nella maggior parte dei casi desiderosi di un ritorno alla Chiesa primitiva di Cristo e degli Apostoli. Sono utopisti che vogliono seguire nudi il Cristo nudo (come Francesco d’Assisi), che guardano al passato come fine ultimo della propria azione, giungendo al paradosso che la Chiesa in nome di Cristo, spesso e volentieri, ha represso dei veri Cristiani. La loro è una vita tutta rivolta all’ideale della «simplicitas», semplicità e purezza dello spirito, lontano da incrostazioni materiali e da gerarchie. È un ideale che accomuna personaggi come Francesco d’Assisi, giullare di Dio, Gioacchino da Fiore oppure Gherardo Segalelli; è un ideale che farà dire a Dolcino che «si può pregare Dio in una stalla o in una foresta come in una chiesa consacrata, anzi meglio» e che «Dio è di tutti». Anche se non perfettamente consapevoli, sapranno comunque abbattere barriere e creare piccole comunità di «uguali» (basti pensare al ruolo di pari dignità che, quasi in ogni movimento ereticale, hanno assunto le donne).

Rispetto alle gerarchie ecclesiastiche, per questi eretici non ha importanza che l’uomo abbia o non abbia, che sia dotto oppure no. Niente di tutto questo ha per loro importanza, ma solo poter partecipare alla Parola di Dio, di un Dio che sa sorridere e accogliere, lontano dall’immagine di giudice terribile che spesso la Chiesa ha usato per incutere timore. Ogni comportamento «deviato» rispetto alla dottrina cattolica diviene eretico (di questa colpa non è neppure immune la Riforma protestante: un esempio su tutti è il processo e il rogo di Michele Serveto), così come ogni tentativo di seguire una propria strada, per finire ad estendere il crimine di eresia anche in campi che non sono propri degli articoli di fede (un esempio illuminante è la vicenda di Giovanna d’Arco). Ciò che accomuna questi movimenti è la professione di un Cristianesimo aperto e portato all’incontro di culture diverse, come quella popolare o contadina e quella della grande mistica, a partire da Margherita Porete, originando un intreccio complesso di esegesi e istanze sociali, teso alla ricerca di un mondo migliore.

Consapevoli o meno, gli eretici medievali hanno iniziato un percorso difficile, incerto in ogni suo passo, un percorso che attraverso i secoli è giunto fino a noi: l’idea di una tolleranza possibile tra le coscienze e le religioni. Hanno elaborato approcci religiosi diversi, ma non per questo minori, capaci di parlare alle coscienze. La libertà di pensiero, conquista relativamente recente del mondo occidentale, viene anche da costoro. È la stessa motivazione che ha spinto Galileo Galilei nella sua speculazione cosmica, o Giordano Bruno al rogo. È quello stesso spirito che «eppur si muove…» e che ha aperto la strada verso la libertà. Una libertà protesa a vivere secondo una scelta propria («airesis») e personale senza accettare passivamente verità incontrastate ed indiscusse; una libertà responsabile e che possiede una propria intelligenza, capace di investigare il mondo che la circonda. Una libertà negata nei tribunali dell’inquisizione che si sono succeduti nelle varie epoche storiche, dal martirio dei primi Cristiani ai campi di sterminio nazisti e ai gulag sovietici. Una libertà per cui molti, troppi, hanno pagato.

I catari fanno parte di un movimento ereticale diffuso in Europa tra il XII e il XIV secolo sulla cui etimologia sono state concepite due teorie: più probabilmente dal greco «kàtharoi», cioè puri, o più folcloristicamente dal latino medioevale «catus», gatto, un classico travestimento di Lucifero al quale gli eretici, durante i loro riti (secondo i loro detrattori), baciavano le terga.

L’appellativo «catharos» fu loro applicato a partire dal 1163 dall’abate Ecberto di Schönau che scrisse contro di loro. I catari chiamavano se stessi «boni homini», «boni christiani», «perfecti». Sono conosciuti anche più frequentemente come «albigesi» dalla città di Albi, una delle roccaforti catare in Francia. Furono chiamati anche: «pubblicani» o «pobliciani» o «populiciani», in riferimento all’eresia «paulician»; «bulgari», in riferimento alle presunte origini bogomile della loro dottrina.

Le origini del catarismo sono misteriose e pare siano una mescolanza tra le eresie neomanichee dei pauliciani (seconda metà del VII secolo) e dei bogomili (inizi del X secolo) diffuse nei Balcani, e il vecchio manicheismo in Francia e nell’Italia del Nord che affermavano la necessità di una riforma religiosa e morale della Chiesa.

Il catarismo si definisce come dualismo: due principi reggono la terra e il cielo, uno buono e uno cattivo. Il cattivo che ha creato il mondo è la materia, la carne difatti è colpita da maledizione, gli adepti della setta dovevano astenersi dalle relazioni sessuali e da tutti gli alimenti come carne, formaggi, latte. Forse è per questo motivo che l’Incarnazione venne negata perché se Cristo ebbe un certo ruolo nel sistema cataro, Gesù era di natura spirituale e non certo divina. La Passione è stata simulata e i Catari si scoprivano per il loro orrore di fronte al segno della Croce. Essi credevano nelle reincarnazioni. Erano proibiti il servizio militare e il giuramento. Il battesimo o «consolamentum» era un rito d’accoglienza che, attraverso l’imposizione delle mani, era conferito dai «continentes» e cancellava tutti i peccati, distinguendo i «perfetti» dai semplici credenti, in una via di povertà, di penitenza e di castità che faceva breccia sulle popolazioni in un’epoca nella quale certi chierici non praticavano nessuna di queste virtù. Certi della loro salvezza erano i «perfecti». Ogni caduta era irreparabile e portava al suicidio ottenuto lasciandosi morire di fame o tagliandosi le vene per fare uscire il sangue. Tutto ciò mise i catari in opposizione anche allo Stato.

Nonostante nel 1148 il concilio di Tours avesse condannato la dottrina catara e stabilito la prigione e la confisca dei beni per gli aderenti, la diffusione degli ideali del catarismo fu così veloce che nel 1167 a Tolosa si tenne il primo concilio dei catari.

Vari tentativi furono fatti dalla Chiesa per impedire la diffusione del catarismo: già nel 1143 San Bernardo di Chiaravalle vide fallite le sue predicazioni a Tolosa e nel 1165 un pubblico contraddittorio tra teologi cattolici e catari tenutosi a Lombez risultò inutile. L’azione di contrasto dei catari da parte della Chiesa iniziò in modo organico nel 1184 con la costituzione Ad abolendam di Papa Lucio III scritta in accordo con Federico Barbarossa. La svolta decisiva, però, iniziò nel 1198 con l’elezione di Papa Innocenzo III: inviò in Linguadoca legati cistercensi e nel 1207 nella zona di Tolosa predicatori del calibro di San Domenico di Guzmán e Diego d’Azevedo Vescovo di Osma.

Nel 1208 Papa Innocenzo III, in seguito all’uccisione a Saint-Gilles del legato papale cistercense Pietro di Castelnau, bandì una crociata contro i catari della Linguadoca guidata militarmente da Simon de Montfort e religiosamente da Arnaldo di Cîteaux.

Ai crociati si avvicendarono gli inquisitori domenicani e francescani la cui attività (che sarebbe durata circa cento anni: dal 1233 al 1325) era stata ufficializzata nel 1233 da Papa Gregorio IX come Inquisitio hereticae pravitatis. In seguito all’uccisione ad Avignonnet nel 1242 di due inquisitori (Arnaud Guilhem de Montpellier e Ètienne de Narbonne) e del loro seguito, fu sferrato il colpo decisivo all’ultimo baluardo della resistenza catara, la fortezza di Montségur, posta sotto assedio nel 1243 ed espugnata nel maggio del 1244. Grazie all’influsso dei catari del Nord Italia, si verificò una timida rinascita del catarismo in Francia a cavallo del XIII secolo per opera dei fratelli Guglielmo e Pietro Authier, Amelio de Perles e Pradas Tavernier. Ufficialmente l’ultimo cataro fu Guglielmo Belibasta che fu condannato al rogo nel 1321 per ordine dell’inquisitore Jacques Fournier, che sarebbe poi diventato Papa Benedetto XII.

Mappa eresie

I catari in Italia si svilupparono soprattutto nel Nord. I primi due Vescovi italiani furono Marco di Lombardia e Giovanni Giudeo. In seguito il movimento si suddivise in sei Chiese: Desenzano, Concorrezzo, Bagnolo San Vito, Vicenza o Marca di Treviso, Firenze, Spoleto e Orvieto. Ebbero per lungo tempo l’appoggio e la difesa delle fazioni ghibelline fino alla battaglia di Benevento del 1266 e la conseguente affermazione del partito guelfo degli Angioini. Nel 1276 i fratelli Mastino e Alberto della Scala con le loro truppe espugnarono la rocca di Sirmione dove si erano asserragliati numerosi «perfetti» insieme ai Vescovi di Desenzano e Bagnolo San Vito; i prigionieri furono portati a Verona dove furono bruciati il 13 febbraio 1278.

Il successo dei catari è da collegare al fatto che essi utilizzarono i difetti della cura pastorale medievale e l’appello dei riformatori a una Chiesa povera, per affermare la loro auto-redenzione dogmatica e il disprezzo del mondo come ascesi cristiana. Con il loro insegnamento e la loro ascetica riuscirono a sedurre molti. Nello stesso tempo essi costrinsero le forze cattoliche a una doppia difesa: a una formulazione dogmatica della comprensione cristiana del mondo (spiegazione dell’Antico Testamento, argomentazione filosofica, Scolastica) e a una reazione ascetica di vita evangelica (apostolato dei laici, cura pastorale delle parrocchie, Ordini mendicanti). Solo quando la Chiesa realizzò le due istanze, le teorie ereticali catare non poterono più aver presa sul popolo cristiano.

(febbraio 2013)

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