Il tramonto del Medioevo
Un rivoluzionario mancato e un poeta di successo sono i personaggi che segnano il passaggio dal Medioevo ad un’epoca nuova

Nel XIV secolo, il Medioevo in Italia ha fine. Non si tratta di un evento inscrivibile in una data precisa, ma del trapasso da un modo di vedere l’Universo e l’Uomo che in esso vi è contenuto ad un modo diverso di intendere la realtà. Nel tempo stesso in cui la mentalità medievale declina, nasce un’epoca nuova, il Rinascimento, che farà del recupero del passato (e, nella fattispecie, della cultura classica greco-latina) più che un programma, un vero e proprio stile di vita. E, se rifare il passato è illusorio, la civiltà che nasce da questo sforzo sarà comunque luminosa e splendente.

Due uomini possono segnare i momenti di questo passaggio, due uomini che sono contemporaneamente gli «ultimi» medievali e i «primi» rinascimentali: uno è un perdente, l’altro è un vincente; uno tenterà di riportare Roma ai fasti del passato imperiale, l’altro farà rivivere quel passato imperiale nei suoi scritti. Entrambi idealisti e sognatori; ma la storia non può scorrere all’indietro, il passato non può tornare; può solo essere recuperato, nella memoria e in quello che ci può insegnare.


Cola di Rienzo

Nicola, figlio dell’oste Lorenzo detto Rienzo, più noto come Cola di Rienzo è, nel firmamento della Roma Papale, come una meteora: brilla per poco tempo, e poi scompare.

Nato a Roma nel 1313 o nel 1314, rimane presto orfano di madre ed il padre lo manda da parenti ad Anagni. Qui Cola si fa amiche le più dotte persone del luogo e può studiare, imparare; ama la lettura e per ore ed ore, ogni giorno, legge i testi degli antichi autori latini.

A venti anni torna a Roma e subito gli appare l’enorme differenza fra il passato e il presente. La Roma dei Cesari era grande, bella, eroica; quella attuale è sporca, misera e governata da uomini crudeli e senza scrupoli, preoccupati soltanto del proprio interesse. Ecco come viene descritta la condizione della Città Eterna nella Vita di Cola di Rienzo, opera di un anonimo cronista romano del XIV secolo (la descrizione è ovviamente «caricaturale», ma può dare comunque un’idea generale della situazione): «[…] la Cittate de Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non havea; onne die se commattea; da onne parte se derobava; non c’era reparo; li lavoratori quanno ivano fora a lavorare erano derobati, dove? su nelle porte de Roma; li Pellegrini, li quali viengono per merito delle loro anime alle sante Chiese, non erano defesi, ma erano scannati e derobati; li Prieti stavano per male fare.

Onne lascivia, onne male, nulla iustitia, nullo freno; non c’era più remedio; onne perzona periva; quello haveva più rascione, che più poteva colla spada.

Non c’era aitra sarvezza se non che ciascheduno se defenneva con parienti et con amici; onne die se faceva adonanza de armati».

Per colmo di sventura, Roma è senza Papa, senza una guida autorevole e sicura. Fin dal principio del secolo il Pontefice ha abbandonato la sua sede per riparare ad Avignone, sotto la protezione (e la prigionia) del Re di Francia.

Cola di Rienzo sogna di ridare a Roma un governo di saggi, togliendo di mezzo i tiranni. Egli vuole far capire al popolo da lui arringato nelle pubbliche vie che c’è possibilità di ritornare ancora ai tempi tanto gloriosi dell’Impero. Se egli fosse al governo della città, sarebbe capace di proteggere i poveri e i deboli.

Ben presto la figura alta ed esaltata di Cola diventa popolare; è un giovane notaio, sa parlare bene, sa infiammare gli animi. Nel 1342 è eletto Papa il Cardinale Pietro Roger de Rosières, col nome di Clemente VI, e allora Cola viene inviato in ambasciata ad Avignone per convincere il nuovo Papa a riprendere il suo posto in Vaticano. Nella città provenzale ha vari colloqui col Pontefice e diviene amico del poeta Francesco Petrarca che, come lui, desidera ardentemente il ritorno a Roma del Papa, lo incoraggia e lo approva. Ma Clemente VI, nonostante si mostri ben disposto verso di lui, fa soltanto delle vaghe promesse; lo incarica comunque di riportare ordine a Roma.

Cola di Rienzo ritorna nella Città Eterna coi suoi rancori e i suoi sogni. Intensifica la sua «propaganda» e comincia ad avere simpatizzanti, amici e poi congiurati. Il 20 maggio del 1347 chiama a raccolta il popolo. Molta gente affluisce al Campidoglio. Ad un tratto risuona uno squillo di tromba, e Cola di Rienzo appare su di una tribuna, vestito di una specie di toga bianca con mantello e cappuccio pure bianchi. Inizia a parlare, mentre il popolo tace. Bello, forte, con gli occhi splendenti, Cola rievoca le glorie passate di un’antica Roma di cui tutti hanno perduto il ricordo; fa rivivere dinanzi agli ascoltatori, ignoranti e stupiti, uomini e tempi eroici. A quei tempi gloriosi contrappone quelli presenti, miseri e vergognosi; condanna i reggitori e i nobili della città, responsabili di tante ingiustizie; afferma la possibilità di far rivivere l’antica grandezza. Elenca una serie di decreti con cui vuole far cessare l’anarchia; chiede al popolo ampi poteri ed il popolo applaude. Molti sono divertiti; alcuni orgogliosi di essere Romani, altri preoccupati. I senatori in carica e molti nobili, sentita l’aria che tira, fuggono da Roma. Cola di Rienzo viene eletto Tribuno del popolo romano, con il compito di restituire pace e giustizia alla città. Il popolo lo accoglie a braccia aperte, e tutto ciò ha del miracoloso: la rivoluzione è stata facile, senza spargimento di sangue. Lo stesso Cola crede in un aiuto divino, e ne diviene certo quando una serie di avvenimenti straordinariamente fortunati lo fa trionfare senza fatica sui suoi nemici, sulle potenti famiglie dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli.

Insediato nella nuova carica, Cola di Rienzo nei primi tempi si mostra un perfetto amministratore e mantiene effettivamente molte delle promesse che ha fatto al popolo romano. Sotto il suo governo viene fatta rapida giustizia di molti delinquenti, sono riparati molti torti; le strade di Roma possono essere percorse senza pericolo anche di notte.

Ma Cola di Rienzo è un sognatore, non un uomo d’azione; è in certo modo un esaltato che non sa giudicare i fatti reali. Comincia a compiere molti errori. Si circonda di una specie di Corte sfarzosa e si presenta in pubblico con atteggiamenti teatrali che a lungo andare stancano il popolo. Il suo vizio è di parlare troppo. Inoltre, il potere gli dà alla testa. Formula piani ambiziosissimi ed assolutamente anacronistici: rifare di Roma il «caput mundi» sulla base della «lex regia de imperio», conservata in una tavola bronzea da lui rinvenuta. Un giorno, tenta addirittura la convocazione di un Parlamento Italiano: invita a Roma tutti i Signori d’Italia per una generale adunanza, nella quale fa dichiarazioni assurde. Lascia intendere che tutte le città italiane devono obbedienza a Roma, che sta per diventare ancora una volta la guida delle genti. I delegati delle maggiori città italiane a sentire certe proposte cominciano a domandarsi se siano capitati in un manicomio. Muti ed increduli sono costretti ad assistere a numerose e lunghissime cerimonie, in una delle quali Cola di Rienzo si fa porre sul capo sei corone.

Tutto questo è troppo. Anche il Papa che l’ha sempre favorito gli si dichiara ostile; il popolo, sobillato dai nobili e malcontento per l’aumento delle tasse, si solleva in tumulto contro di lui.

Il 15 dicembre 1347 Cola, che è anche un pauroso e un imbelle, lascia la carica di Tribuno e si ritira in Castel Sant’Angelo.

Dopo alcuni anni passati forse in un convento dell’Abruzzo, si reca a Praga presso l’Imperatore Carlo IV, al quale chiede di intervenire in aiuto di Roma. L’Imperatore lo fa imprigionare sotto l’accusa di eresia, ma il nuovo Papa, Innocenzo VI, gli accorda il perdono; pensa di servirsi di lui contro i signori di Roma. Da Avignone, dove il Petrarca lo ha ricevuto con affetto, nel 1353 Cola di Rienzo ritorna ancora nella «sua» città, al seguito del Cardinale Egidio Albornoz.

Cola è ingrassato, non ha più il fascino di prima. Eppure i Romani gli fanno festa; sperano sempre da lui atti di giustizia. È però un trionfo breve, l’ultimo. Dopo i primi discorsi, i Romani capiscono che non ha più la testa a posto; è diventato anche sanguinario e crudele. L’8 ottobre del 1354 i nobili, uniti nella lotta, lo sopraffanno; Cola di Rienzo viene circondato in Campidoglio, dove risiede, preso e trucidato. Il suo corpo sarà bruciato e le ceneri sparse al vento.

Il Cardinale Spagnolo Egidio Albornoz, nei suoi dieci anni di attività a Roma, compirà invece opera pacificatrice, riuscendo dove Cola ha fallito: nel 1357 fa approvare a Fano le Costituzioni egidiane, che rimarranno in vigore fino al 1800.


Francesco Petrarca

Il poeta che Cola di Rienzo ha conosciuto ad Avignone è Francesco Petrarca, uno scrittore raffinato, elegante, coltissimo. Ser Petracco, il padre, notaio e uomo agiato, come Dante è stato espulso da Firenze in seguito alle lotte fra Bianchi e Neri. Ad Arezzo, il 20 luglio del 1304, la moglie Eletta Canigiani dà alla luce Francesco Petrarca, che sarà il più grande lirico italiano. Francesco trascorre i suoi primi anni ad Incisa Val d’Arno, poi suo padre va al seguito del Papa in Francia portando con sé la moglie e i figli. Francesco, passata l’adolescenza, si reca a studiare a Bologna. Il padre vuole farne un avvocato. Ma il giovane si occupa solo di letteratura, legge gli antichi scrittori latini, comincia a scrivere le prime poesie. Morto il padre, ottiene un lauto incarico alla Corte del Pontefice.

Ad Avignone, nella chiesa di Santa Chiara, il 6 aprile 1327, giorno del Venerdì Santo, il poeta conosce Laura (o Laureta), donna difficilmente identificabile, forse Laura de Noves sposata a Ugo de Sade, di cui si innamora ed alla quale indirizza le poesie del Canzoniere, una raccolta di sonetti che sono fra i più belli della letteratura italiana. Si tratta di un amore non contraccambiato, che tuttavia non declina mai e continua come affettuoso ricordo anche dopo la morte della donna; a questo amore sono dedicate molte liriche in volgare (cioè in italiano) e alcune poesie in latino.

Leggiamo, per esempio, il sonetto XC, dove ritorna il tema stilnovistico della donna-angelo, anche se qui l’immagine della donna è più mossa e meno stilizzata:

«Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale
ma d’angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’ i’ vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d’arco non sana».

Nel Canzoniere non ci sono però solamente componimenti d’amore, ma anche interventi del poeta nella tematica politica del suo tempo: Petrarca rappresenta la nuova posizione del letterato che si appoggia ai potenti per riceverne onori e supporto economico, ma aspira anche ad esserne la coscienza ed usa la poesia per denunciare i mali delle istituzioni politiche in crisi. Il sonetto CXXXVI, scritto posteriormente al 1352, è un componimento di aspra polemica contro la Curia Avignonese, rappresentata come una meretrice, mentre alle origini era una povera anacoreta nel deserto:

«Fiamma dal ciel su le tue trecce piova,
malvagia, che dal fiume e da le ghiande
per l’altrui impoverir se’ ricca e grande,
poi che di mal oprar tanto ti giova;

nido di tradimenti, in cui si cova
quanto mal per lo mondo oggi si spande:
de vin serva, di letti e di vivande,
in cui lussuria fa l’ultima prova.

Per le camere tue fanciulle e vecchi
vanno trescando, e Belzebub in mezzo
co’ mantici e col foco e co li specchi.

Già non fostù nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento e scalza fra gli stecchi:
or vivi sì ch’ a Dio ne venga il lezzo».

Ai sonetti in volgare, però, Petrarca non darà molta importanza (è proprio vero quello che si dice, che un artista è sempre il peggior critico delle sue opere): i dotti del tempo stanno cominciando a riscoprire Cicerone, Virgilio, e tutti i poeti e gli scrittori dell’antica Roma. La gente colta scrive in latino, e fa a gara, anzi, a scriverlo nel più elegante dei modi. Così, Petrarca, dopo il Canzoniere, porta a termine moltissime opere in latino, e ad esse affida la sua fama. Ma i posteri ammireranno di lui soprattutto i sonetti del Canzoniere che racchiudono l’amore, la malinconia, il dolore e i sogni di questo grande poeta.

Petrarca non rimarrà sempre ad Avignone. Con incarichi diplomatici, girerà l’Europa, e per otto anni abiterà a Milano. La politica – a differenza di Dante – non lo attrarrà. Il suo carattere predilige la quiete, i silenziosi studi, la natura, il raccoglimento. Amante della solitudine, nel 1336 compie un’importante ascensione sul monte Ventoux. Ma con i maggiori personaggi dell’epoca, Petrarca manterrà rapporti epistolari: lettere elegantissime, naturalmente in latino.

L’8 aprile 1341, dopo essere stato esaminato per tre giorni da Roberto d’Angiò, Re di Napoli, nella sala d’udienza del palazzo del Senato sul Campidoglio, a Roma, Francesco Petrarca riceve la corona di alloro come poeta, che egli depone sulla tomba di San Pietro. L’ha avuta per l’Africa, poema in latino che vuole rifarsi ai poemi epici antichi ma che, a parte poche pagine di alto lirismo, è di valore assai scarso: l’azione si trascina stancamente, mancano battaglie risolutive ed altre componenti del genere epico. Comunque, gli vale il titolo di poeta e rappresenta il suo momento di maggior trionfo. È, però, qualcosa di più di un trionfo personale: è il tentativo riuscito di riportare certi modelli e valori culturali alla posizione di alto prestigio di cui hanno goduto nell’antica Roma, un tentativo di rilanciare la figura pubblica del grande letterato. Di poco posteriore è il Secretum, una delle sue prose più intime e sincere, in cui confessa, in forma di dialogo con Sant’Agostino, la sua ambizione e il suo smoderato desiderio di gloria.

A settant’anni, il 18 luglio 1374, dopo una vita di studio, Francesco Petrarca si spegne ad Arquà, presso Padova, con accanto la figlia ed il genero e dove tuttora riposa.

(marzo 2014)

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