Il Papa e l’Imperatore
Due uomini, due caratteri di ferro

Grandi figure si affacciano alla storia italiana ed europea nei primi due secoli dopo il Mille.


Ildebrando di Soana (Papa Gregorio VII)

La prima grande figura è quella di un Papa, Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, un monaco di umili origini nato a Soana, in provincia di Siena, intorno al 1020; un uomo piccolo di statura, gracile e malaticcio, ma energico, destinato a divenire, grazie alla sua intelligenza e alla sua forza di volontà, uno dei più grandi Papi della Storia.

Ildebrando incomincia la sua educazione a Roma, nel convento di Santa Maria in Aventino; entra poi nell’Ordine dei monaci benedettini. All’età di vent’anni, il giovane chierico segue il Papa Gregorio VI nell’esilio in Germania; è il Papa Leone IX a richiamarlo in Italia.

È un momento difficile per la Chiesa: già nel 955 Ottone I riceve a Roma, dalle mani del Papa, la corona dell’Impero Romano-Germanico, in cambio del riconoscimento dei diritti pontifici sul Patrimonio della Chiesa e sull’Italia del Sud, retta dai Bizantini. È l’Imperatore a donare a Vescovi e abati, all’atto della nomina, terre e rendite delle quali devono rendergli conto, acquistando il titolo di conti o feudatari della città ove esercitano la loro missione e diventando quindi suoi sudditi – scegliendo uomini di Chiesa e non uomini d’arme, l’Imperatore si assicura una maggior fedeltà ed evita il pericolo del formarsi di una coalizione dei conti contro di lui –; come garanzia, egli chiede che ogni nomina sia sottoposta alla sua approvazione.

Una precisazione: inizialmente i Vescovi, compreso quello di Roma (che fino dal 1100 aveva il titolo onorifico di Papa ma nessun potere sui Vescovi né un potere di nomina), erano eletti dal clero locale, acclamati dal popolo e dovevano ricevere il «placet» dell’Imperatore – che ovviamente interferiva frequentemente sulle nomine. Questo era avvenuto sotto gli Imperatori Bizantini, ma anche Carlo Magno (sebbene abbia istituito la nuova usanza dell’incoronazione da parte del Papa) aveva ribadito il suo potere di supremazia sui Vescovi.

I successori di Ottone e, in seguito, gli Imperatori della casa di Franconia, instaurano appieno questo sistema: col passar del tempo, chi siede sul trono comincia a pretendere addirittura di nominare personalmente i prelati, scegliendoli fra persone di sua fiducia e fra i suoi amici (senza tenere in alcun conto il parere del Papa), e di investirli usando egli stesso il pastorale e facendo baciare l’anello. Capita però spesso che gli uomini scelti dall’Imperatore non solo non appartengano al clero, ma siano già sposati ed abituati a condurre vita mondana, alla quale non intendono rinunciare; persone adatte al governo ed agli intrighi della politica, ma incapaci di dedicarsi alla cura d’anime. I Papi tentano di riconquistare i poteri di nomina («investitura») dei Vescovi che l’arroganza dell’Imperatore ha loro tolti: si determina così quella che è stata chiamata la «lotta per le investiture», e che ha uno strenuo paladino proprio nel monaco Ildebrando.

Questi, a soli venticinque anni, viene nominato suddiacono ed economo, cioè amministratore, della Chiesa Romana: fornisce ben presto una prova della sua abilità risollevando, con accorti provvedimenti, la situazione economica del monastero di San Paolo in Roma, allora in tristi condizioni.

La sua fama di esperto uomo politico e di diplomatico induce molti Papi a ricorrere a lui per avere consigli. Quando diviene Papa Nicola II, nel 1059, Ildebrando lo convince ad indire un concilio per tentare di limitare l’influenza dell’Imperatore nelle nomine ecclesiastiche; in questa occasione sono stabilite le norme per l’elezione del Pontefice, che ancora oggi vengono osservate: la scelta del Papa deve essere fatta dai Cardinali!

Il 22 aprile 1073, a Roma, si stanno celebrando i funerali del Papa Alessandro II. Una leggenda racconta che, ad un tratto, un gruppetto di persone si stacca dal popolo che fa ala al passaggio del corteo, si avvicina ad uno dei monaci che lo compongono, Ildebrando appunto, lo circonda e lo issa sulla sedia papale; intorno, tutta la folla lo acclama, invocandolo come nuovo Papa.

Comunque siano andate le cose, egli accetta controvoglia la nomina, preoccupato per le gravi responsabilità che sta per incontrare; memore degli insegnamenti di Papa Gregorio VI, sceglie questo nome anche per sé: Gregorio VII.

Il nuovo Pontefice si trova a dover combattere su due fronti: rendere la Chiesa indipendente da una parte, e riformare il clero (ignorante, incapace, spesso corrotto) dall’altra. Suo motto diventano le parole «justitia et pax» («giustizia e pace»).

Affronta tutti i pericoli, non si arrende di fronte a nessuna difficoltà. Si dedica immediatamente al rinnovamento del clero: minaccia di scomunica tutti i preti sposati e vieta ai fedeli di assistere alle funzioni celebrate da quelli; scomunica i Vescovi che hanno dato del denaro all’Imperatore per ottenere la nomina. Per rinsaldare i vincoli della Cristianità, indice concili a Roma e in tutti i Paesi Cattolici. La sua massima aspirazione resta quella di unificare la Chiesa Romana con la Chiesa Greca, per fare di tutta l’Europa una sola Repubblica retta dal Papato; tenta anche di raccogliere i fondi per una crociata che liberi la Terra Santa dai musulmani, ma non riesce a trovare gli aiuti necessari presso i principi ai quali si rivolge.

In Italia, si preoccupa di cercare alleati che possano accorrere in suo aiuto in caso di bisogno. Si fa amici perciò i marchesi di Canossa in Toscana e i Normanni, che stanno estendendo il loro dominio nell’Italia Meridionale: lo Stato della Chiesa può così contare su difese a Nord e a Sud. A questo punto, è in grado di affrontare il suo più potente avversario: Enrico IV di Franconia, Imperatore di Germania!

Nel 1075 compendia tutti i suoi radicali mutamenti del clero, conosciuti come «riforma gregoriana», nel Dictatus Papae, una raccolta di ventisette massime in cui si proclama il potere assoluto del Pontefice e la sua superiorità su ogni autorità terrena. Con il Dictatus Papae e i provvedimenti degli anni successivi il Papa diviene capo effettivo della Chiesa cattolica, interviene in maniera determinante sulla nomina degli altri Vescovi e inizia anche a sentirsi superiore a Re e Imperatore: solo il Papa, capo della Chiesa, può nominare i Vescovi ed anche deporli, così come può deporre i Sovrani che, in quanto dignitari di Dio, sono anche dignitari della Chiesa, e sono quindi sottoposti alla sua autorità. Lo scontro tra il Papato e l’Impero (considerato uno scontro interno alla Chiesa stessa, fra due poteri di cui uno si appella alla figura del Cristo sacerdote, l’altro si intende fondato sul Cristo re) è inevitabile, perché Enrico IV (colpevole di aver concesso l’investitura di Vescovo a parecchie persone indegne) ha un carattere forte: all’ingiunzione di Gregorio VII reagisce convocando a concilio i suoi fedeli, a cui ha concesso il titolo di Vescovo; e quelli, dietro suo invito, dichiarano il Papa deposto dal trono. Terribile è la risposta di Gregorio VII: il Pontefice destituisce quei Vescovi e scomunica l’Imperatore, sciogliendo i sudditi dal giuramento di obbedienza al Sovrano.

Oggi una scomunica avrebbe poco o nessun valore, per un uomo di governo, ma un tempo non era così: uno scomunicato non sarebbe stato ascoltato neppure da un servo. I Tedeschi, trovandosi a scegliere tra l’obbedienza all’Imperatore e l’obbedienza al Papa, scelgono infatti di obbedire a quest’ultimo. Enrico IV si trova isolato, abbandonato da tutti, e molti principi del suo Stato si levano contro di lui.

L’altero Imperatore, per non perdere il trono e riconquistare l’obbedienza dei nobili e del popolo, è costretto ad andare a implorare il perdono del Papa. Il 25 gennaio del 1077, con la neve alta, si reca vestito di sacco e a piedi nudi al castello di Canossa, sull’Appennino Reggiano, ove Gregorio VII è ospite: cammina nel vallo fra il primo e il secondo cerchio di mura del castello, a capo chino, e tutto nei suoi gesti rivela dolore e umiltà. L’intero giorno rimane in attesa, in ginocchio, col capo cosparso di cenere, sotto l’imperversare d’una tormenta di neve, prima che gli venga concesso di varcare la cinta. Al di là di questa si stende un nuovo intervallo: un altro giorno di attesa, trascorso recitando le preghiere di penitenza. A memoria d’uomo, è questo l’inverno più freddo: coloro che vedono il penitente si commuovono per il suo stato e intercedono per lui. Ma dovrà trascorrere ancora una terza giornata. Finalmente il pellegrino viene ammesso alla presenza del Papa: il penitente si prostra ai piedi del Pontefice e implora perdono; ascolta severissimi rimproveri; gli vengono imposte delle dure condizioni, ed egli tutte le accetta purché gli venga tolta la scomunica. Finalmente Gregorio VII gli si fa incontro e lo rialza: è perdonato. Per il Papato è un successo, l’apogeo del suo potere terreno!

Ottenuto il perdono, però, Enrico medita di vendicarsi per l’umiliazione subita. Raccolto un poderoso esercito, pochi anni dopo scende in Italia, travolge la resistenza oppostagli dai marchesi di Canossa, marcia su Roma. Gregorio VII resiste assediato in Castel Sant’Angelo, una fortezza inizialmente destinata ad ospitare la tomba dell’Imperatore Adriano ed ultimata da Antonino. A liberare il Pontefice accorre dal Sud il Normanno Roberto il Guiscardo. I «liberatori» cacciano i Tedeschi ma in cambio dell’aiuto si abbandonano al saccheggio della città sotto gli occhi del Papa, affacciato impotente alle finestrelle di Castel Sant’Angelo. È il 1084.

I Normanni conducono il Papa a Salerno. Qui egli trascorre quasi un anno come prigioniero, addolorato per le sventure subite, e vi muore il 25 maggio 1085 pronunciando le parole: «Amai la giustizia, odiai l’iniquità; perciò muoio in esilio!».

Si può considerare fallito il suo tentativo di subordinare l’Impero all’autorità assoluta del Pontefice, ma le sue lotte non sono state vane: egli ha gettato il seme che fiorirà sotto i suoi successori. Callisto II, nel 1122, firma con l’Imperatore Enrico V un concordato a Worms che restituisce al Papato tutti i suoi poteri e lascia la Chiesa libera da ogni intromissione: d’ora in poi i Vescovi saranno nominati e consacrati esclusivamente dal Pontefice (l’investitura «con l’anello e il pastorale»)!


Federico Barbarossa

Sullo sfondo del XII secolo campeggia invece la figura di un Imperatore, Federico I di Svevia, soprannominato «Barbarossa» per la barba color rame che gli copre il mento. Un suo contemporaneo, con un linguaggio evidentemente iperbolico, lo descrive come un uomo «alto di statura e di bella presenza. Aveva bianco il volto cosparso di rosso colore, biondi i capelli e crespi, ilare il viso, sicché pareva sempre ridesse, bianchi i denti, bellissime le mani, graziosa la bocca. Bellicosissimo, tardo all’ira, audace e intrepido, svelto, loquace, liberale senz’esser prodigo, cauto e provvido nei consigli, pronto d’ingegno, sapiente, benigno con gli amici, dolce coi buoni, terribile coi tristi e quasi inesorabile, giusto, amante della legge, timoroso di Dio, largo di elemosine, molto fortunato, amato quasi da tutti; in lui nessun dono naturale mancava tranne quello d’essere stato fatto mortale». Sembra la descrizione di un semidio.

Federico I nasce nel 1121 da Federico di Svevia e da Giuditta, sorella di Federico il Superbo, duca di Baviera. Cresce valoroso e intelligente, energico e ambizioso: nipote dell’Imperatore Corrado III, è scelto da questi a succedergli al trono. Principi e Vescovi lo acclamano Re di Germania ad Aquisgrana, sulla tomba di Carlo Magno.

Per essere però incoronato anche Imperatore, Federico deve scendere dalla Germania fino a Roma e inginocchiarsi davanti al Papa, in segno di sottomissione. Ma decide di non riconoscere la supremazia del Pontefice Adriano IV: incontrandosi col Papa vicino a Roma, Federico non scende da cavallo per tenere le briglie della cavalcatura di Adriano IV, come vuole il cerimoniale. Resta in sella e il Papa scende da solo, per sedersi sul trono che gli hanno preparato. È un affronto gravissimo e i Cardinali del seguito, spaventati, fuggono. Adriano IV non dimentica l’offesa: incorona frettolosamente il nuovo Imperatore, ma da allora incoraggia i nemici dell’Impero a ribellarsi. Per vendicare l’affronto al Papa i Romani, la sera stessa della cerimonia, uccidono molti soldati imperiali in libera uscita per la città.

Durante la giovinezza, Federico si è dedicato con entusiasmo a conoscere la storia, le leggende degli eroi e il diritto romano: la sua mente è ricolma delle immagini di questa antica e nobile civiltà. Quando ascende al trono, nasce spontaneo in lui un sogno grandioso: instaurare una monarchia universale, un nuovo Sacro Romano Impero, che sia la diretta continuazione di quello romano. Egli immagina se stesso come il degno successore di grandi condottieri romani come Cesare, di dispensatori di pace come Augusto, di grandi legislatori come Giustiniano. È appunto per attuare questo suo grande ideale che egli muove contro i vassalli germanici e contro i Comuni Italiani: vede negli uni e negli altri i principali nemici di quell’autorità imperiale che, sola, potrebbe restituire all’Europa pace, giustizia ed ordine generale.

Tuttavia, l’alto ideale di Federico viene fatalmente ad opporsi alla realtà politica del tempo. Se in Germania, in capo a due anni, riesce ad imporre la sua autorità sistemando le rivalità fra i principi e sottomettendo tutti i vassalli, nel Nord Italia la situazione è più complicata. Chi comanda, in teoria, è il Barbarossa: egli è padrone di tutte le terre, di tutte le città dell’Impero. I Comuni, ormai fiorenti e simili a piccoli Stati, sono disposti a riconoscere sia l’autorità dell’Impero sia tutte le conseguenze che quest’autorità comporta («regalie», cioè rifornimenti alle truppe imperiali di passaggio, diritti sulle miniere, sui frutti della pesca), ma già si governano da soli e non intendono rinunciare alla grande autonomia raggiunta: eleggono i propri magistrati, stabiliscono le proprie leggi, amministrano la giustizia e coniano le proprie monete. Osano persino abbattere molti feudatari ed annettersi le loro terre; questi feudatari hanno spesso i loro castelli lungo le più importanti vie di comunicazione e, per consentire il transito delle merci, richiedono il pagamento di forti dazi; i Comuni che, per le loro attivissime industrie importano ed esportano una gran quantità di merci, preferiscono liberarsi da questi obblighi con la guerra. Spesso, poi, si scontrano gli uni contro gli altri, per difendere i propri interessi particolari. Milano, soprattutto, è ricca; conscia della propria forza, si rifiuta di pagare le tasse all’Imperatore, tratta male due suoi ambasciatori, assoggetta Como e Lodi (città fedele al Barbarossa) per assicurarsi l’esclusiva dei traffici verso le regioni transalpine e lungo la valle dell’Adda. Federico viene in Italia nel 1154, incendia Asti, distrugge Tortona. Ma la situazione continua a sfuggirgli di mano; sarà costretto a scendere in Italia numerose altre volte.

Nel novembre del 1158, l’Imperatore riunisce i giuristi di Bologna a Roncaglia e fa mettere per iscritto tutti i diritti che spettano all’Impero anche sulle città italiane, ignorando l’autorità papale. La sentenza dei giuristi recita: «Quod principi placet legis habet vigorem» («Ciò che piace al principe ha vigore di legge»). Federico impone un podestà imperiale nelle città, ed esige l’abbattimento delle mura difensive; ha nominato dei feudatari e pretende che siano rispettati; egli solo può dettar legge e battere moneta.

Crema e Milano si rivoltano. Crema viene rasa al suolo dopo sei mesi di eroica resistenza. Milano, la più ribelle tra le città comunali, viene messa sotto assedio nel 1160; protetti dalle alte mura, i suoi cittadini rovesciano olio bollente e nugoli di frecce sui nemici, che tentano di scavalcare le mura con scale a pioli e di smantellarle con testuggini e catapulte.

Dopo ben due anni Milano, stremata e vinta dalla fame, è costretta a chiedere la pace. I consoli milanesi attraversano il campo imperiale e si presentano all’Imperatore; con mesta cerimonia gli consegnano le loro spade e gli offrono la resa. Ma il Barbarossa non accetta la loro offerta: «Voglio» dice, «che vengano a chiedermi perdono i trecento più forti cavalieri della città».

Viene obbedito, ma poi pretende che tutto il popolo vestito a penitenza s’inginocchi davanti a lui.

Quattro giorni dopo, tutti i Milanesi giungono a piedi nudi, camminando nel fango gelido, fin davanti alla tenda dell’Imperatore. I trentasei stendardi della città sono deposti ai suoi piedi. Mastro Guitelmo, che ha diretto la costruzione delle mura, gli consegna le chiavi di Milano. Ma Federico non dice parola e i cittadini tornano alle loro case senza ancora sapere quale sorte venga loro riservata.

Giungono, in capo a pochi giorni, i messi dell’Imperatore e al popolo atterrito leggono un proclama: per volontà dell’Imperatore, la città deve essere rasa al suolo; il popolo ha otto giorni di tempo per abbandonarla; i Milanesi stessi devono preparare un ampio varco nelle mura perché Federico possa entrare con l’esercito schierato.

Nei giorni successivi, dalle porte escono carovane di profughi che si attendano nella campagna circostante.

Al giorno fissato, il Barbarossa entra in una Milano deserta con tutto il suo esercito e la distrugge completamente. Sono abbattute le mura, crollano le case e le trecento torri della città. È la Domenica delle Palme dell’anno 1162! (Il Duomo di Milano, il maggior monumento di stile gotico in Italia, non appartiene a quest’epoca: eretto nel 1386, determina la configurazione monocentrica e stellare della città, di cui, con la statua della Madonnina, è divenuto il simbolo universalmente noto).

Forse il Barbarossa ha sperato che questo potesse bastare a fiaccare ogni resistenza, e di certo molti popoli si sarebbero arresi di fronte allo strapotere dell’Impero. Ma i Milanesi sono fatti d’altra pasta, e non si danno per vinti. Col lavoro e coi sacrifici in breve tempo ricostruiscono la loro città ed il 7 aprile 1167 costituiscono, col giuramento nell’antico convento di Pontida, la «Lega Lombarda» che riunisce città della Lombardia, del Veneto, della Liguria e dell’Emilia Romagna: Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Vercelli, Alessandria, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Venezia, Cremona, Mantova, Piacenza, Parma, Modena, Bologna e Ferrara. Sebbene ognuna di queste città consideri la Lega un modo per controllare e limitare il potere delle altre, tutelando così i propri interessi particolari, è disposta a battersi a fianco degli antichi avversari contro il grande nemico comune: l’Imperatore!

Così recita il giuramento: «Nel nome del Signore, così sia. Io giuro sui sacri Evangeli che non farò pace, tregua o trattato con Federico Imperatore, né col di lui figlio, né colla di lui moglie, né con altri della sua famiglia. E di buona fede, con tutti i mezzi che saranno in mio potere, mi adoprerò ad impedire che nessun esercito, piccolo o grosso, di Lamagna (Germania) o di qualunque altra contrada dell’Impero, che trovisi al di là dei monti, entri in Italia; e dove si presenti un esercito, io farò guerra viva all’Imperatore ed ai suoi alleati, insino a che il suddetto esercito esca d’Italia, e ciò farò pure giurare ai miei figli, appena compiranno i quattordici anni».

Nel 1176, l’Imperatore accorre in Italia per punire nuovamente i Comuni. Entra per il valico del Moncenisio e pone l’assedio ad Alessandria, città fortificata della Lega eretta in onore del Papa Alessandro III, confidando in una rapida conquista; dopo sei mesi di inutili tentativi, desiste dall’impresa spostandosi a Como, da dove vorrebbe portarsi a Pavia per ricongiungersi all’esercito di quella città, sua alleata. Ma le truppe della Lega si fanno avanti a sbarrargli il cammino.

Il 29 maggio 1176, nella piana ad Occidente di Milano, posta fra il Ticino e l’Olona, all’altezza della cittadina di Legnano, il Barbarossa è costretto contro la propria volontà allo scontro coi Lombardi.

L’esercito della Lega è formato in gran parte da Milanesi: sono divisi in sei schiere, una per ogni porta della città, ed ogni schiera ha il suo capitano e il suo vessillo. C’è poi la «Compagnia della Morte» formata da novecento cavalieri che hanno giurato di morire in battaglia piuttosto che salvarsi fuggendo, e sono guidati da un valoroso cittadino, Alberto da Giussano. Altri trecento giovani, appartenenti alle più nobili famiglie della città, si sono posti a guardia del Carroccio, un grande carro sormontato da un altare e una croce, simbolo della libertà dei Comuni. Ai Milanesi si aggiungono duecento Novaresi e Vercellesi, duecento Piacentini, cinquanta Lodigiani e le cavallerie di Brescia, di Verona e di Treviso.

Dapprima hanno la meglio le truppe imperiali tedesche; la loro cavalleria pesante costringe i fanti dell’esercito lombardo ad indietreggiare, sino a che si trovano raggruppati attorno al Carroccio. I Lombardi si piegano in ginocchio ed invocano a gran voce l’aiuto di Sant’Ambrogio. Poi si chiudono a riccio, e la carica della cavalleria tedesca s’infrange sulle punte delle loro picche. Federico si getta nel mezzo della mischia, combattendo in prima fila come un semplice soldato; lottando da leone riesce a portarsi fin presso il Carroccio, dal quale prende a suonare una campana. Cade il vessillo imperiale, il cavallo dell’Imperatore viene ucciso ed egli stesso è disarcionato. Accorre la «Compagnia della Morte», i cui cavalieri scompaginano definitivamente le schiere tedesche, incalzandole ed inseguendole per molte miglia fin dentro le acque del Ticino. Per salvarsi, l’Imperatore deve fingersi morto in mezzo ai caduti; solo dopo qualche giorno ricompare a Pavia, dove l’Imperatrice, credendolo morto, già veste i colori del lutto.

Battaglia di Lrgnano

Amos Cassioli, Battaglia di Legnano (particolare), 1860-1870, Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze (Italia)

L’intero accampamento tedesco cade nelle mani dei Lombardi, e le armi, le tende, il tesoro imperiale vengono portati in Milano. Sotto la bandiera della loro coalizione, i soldati lombardi, in inferiorità numerica e stanchi, resistono contro un esercito riposato, superiore e per di più a cavallo. Il grande pericolo è passato, i Comuni sono salvi; da ora in poi, l’Italia e la Germania avranno due storie distinte.

Nel 1177, con la pace di Venezia, Federico è costretto a prestare omaggio al Papa Alessandro III; viene stipulata una tregua d’armi con la Lombardia.

Nel 1183, viene concordata a Costanza, in Germania, la pace coi Comuni. Recita il testo: «Noi Federico, Imperatore Augusto, concediamo a voi, città terre e persone della Lega i tributi e le usanze vostre, in perpetuo.

Che nella città possiate continuare ogni cosa come avete fatto sin qui; fuori della città eserciterete i vostri diritti sui boschi, sui pascoli, sui ponti, sulle acque e sui mulini senza nostro contrasto.

Come fate ora potrete continuare nel formare l’esercito e nel fortificare le vostre città».

Si riconosce quindi la Lega Lombarda e la libera elezione dei magistrati, all’Imperatore spetterà comunque l’investitura (cosa che salvaguarda il suo prestigio); egli pretende un giuramento di fedeltà da parte dei Comuni, che col passar degli anni si ridurrà sempre più ad una semplice cerimonia. Il Comune esce vittorioso dalla lotta contro l’Impero e resta un piccolo Stato quasi del tutto indipendente.

Nel 1189, con 100.000 soldati, Federico parte per la Terza Crociata per liberare Gerusalemme. «Nessuno può partecipare alla spedizione» ammonisce coloro che desiderano seguirlo, «se non possiede cavalli e denaro sufficienti per provvedere per due anni al proprio sostentamento». Veterano di tante e tante guerre, e perciò espertissimo comandante, l’Imperatore non vuole al suo seguito avventurieri od inabili; egli parte, così, ben preparato e sicuro della vittoria.

Invece, non appena l’esercito crociato varca lo stretto del Bosforo, comincia una marcia lunga e penosa che in breve ne decima le forze. La fatica, il calore, la sete, il peso insopportabile delle armature stroncano le energie di quei guerrieri più che una serie di aspre battaglie: 60.000 uomini perdono la vita.

Pare perciò ad essi una grande fortuna imbattersi un giorno, lungo il cammino, in un corso ricco di acque: il fiume Salef, in Anatolia. Lo stesso Imperatore, benché settantenne, stanco e avvilito, si getta nell’acqua con baldanza giovanile. E quell’acqua, insidiosa, lo travolge con l’impeto della corrente e si richiude su di lui; impacciato dall’armatura, Federico annega. Così muore, lontano dalla sua reggia, Federico I di Svevia, Imperatore di Germania, il 10 giugno 1190.

Un ciclo si compie: in quelle terre Federico Barbarossa, ancor giovanetto, ha combattuto le sue prime battaglie, partecipando alla Seconda Crociata a fianco dell’Imperatore Corrado; in quelle terre è tornato, ormai vecchio, per concludere la sua avventurosa esistenza. Ma una leggenda vuole che egli attenda sulla montagna di Kyffhäuser il momento giusto per ritornare alla testa del popolo tedesco.

L’Impero non si risolleverà più dal conflitto con la monarchia pontificia; quest’ultima, al contrario, continuerà a rafforzarsi fino agli inizi del XIV secolo.

(maggio 2012)

Tag: Simone Valtorta, Ildebrando di Soana, Gregorio VII, Pontida, Federico Barbarossa, lotta per le investiture, Alberto da Giussano, battaglia di Legnano, Lega Lombarda, Italia, Medioevo, Germania.