L’Italia del Duecento
L’apogeo dell’età comunale segna un’epoca di grande prosperità e splendore rispetto al periodo precedente, ma non esente da limiti e difficoltà

Il Duecento, in Italia, è il secolo d’oro dell’età comunale. È un’epoca di grande fioritura intellettuale e culturale, grazie a grandi Santi come San Francesco d’Assisi e San Tommaso d’Aquino, Sovrani come Federico II di Svevia, artisti come il poeta Bonvesin dra Riva e il pittore Giotto di Bondone, tanto per citare alcune tra le figure più rappresentative.

La stessa società è cambiata: la gente vuole radunarsi, non vuole più vivere sperduta nella solitudine della campagna; molti contadini si trasferiscono in città, dove la vita è meno dura, e i villaggi stessi aumentano rapidamente la loro popolazione. L’agricoltura è in ribasso, possedere delle terre non è più una ricchezza: la ricchezza ora sta nel commercio. Nascono i primi mercati, le prime fiere dove si può comprare di tutto. Nelle classi sociali elevate comincia a godersi una notevole agiatezza che si diffonde anche nella borghesia.

La città del Duecento, il Comune, è circondata di mura e di torri. Durante la notte, le porte sono chiuse, ma si riaprono all’alba: il dazio, o gabella, che i contadini pagano per entrare a vendere i prodotti della campagna, è una delle principali risorse del Comune. C’è poi l’industria: a Pisa, a Genova, a Venezia si costruiscono delle navi che si chiamano galere; sono lunghe quaranta metri e larghe cinque, e sono mosse da un centinaio di rematori. A Bergamo si forgiano spade, elmi, corazze, pugnali; a Venezia c’è una grande vetreria. Fa progressi l’edilizia, e nelle città si moltiplicano i cantieri; si erigono chiese, abbazie, palazzi. Anche le miniere di ferro vengono sfruttate.

Monteriggioni

Monteriggioni (Italia)

Le più importanti famiglie del Comune fanno a gara a chi innalza una torre più alta, per manifestare la propria potenza, mentre la gente del popolo vive in case a due piani, con piccoli portoni, con stanze scarsamente illuminate, con finestre modeste. L’arredamento è spartano: si vive in dieci o dodici in due stanze. Si mangia su piatti di legno con posate di legno; solo i ricchi hanno vasellame d’argento. Minestra, lardo, maiale sono l’alimento del popolo, mentre la carne è piuttosto rara. Ma la gente è libera, e felice.

«I Longobardi [Lombardi]» scrive nel XII secolo il cronista tedesco Ottone, Vescovo di Frisinga e zio di Federico I Barbarossa, nelle sue Gesta Friderici Imperatoris «amano tanto la libertà che preferiscono essere governati dall’arbitrio di consoli piuttosto che di signori. […] Essendo poi quel territorio [dei Lombardi] quasi tutto diviso fra le città, ognuna di queste ha obbligato gli abitanti del contado a venire ad abitare entro la città e a sottomettersi, sicché difficilmente si può trovare qualche nobile o grande, il quale conservi tale dominio da non esser obbligato ad assoggettarsi alla città.

Ogni città ha poi preso l’abitudine di chiamare contado suo quel territorio che è in tal modo esposto alla sua minaccia.

Per ricchezza e potenza esse superano tutte le altre città del mondo, aiutate in ciò non solo dalle abitudini, ma anche dall’assenza dei Sovrani abituatisi a rimanere di là dalle Alpi».

Ottone testimonia il buon governo dei Comuni, i cui abitanti «imitano i Romani antichi sia nel modo di costruire le città, sia nelle costituzioni politiche. Essi amano talmente la libertà che lasciano in carica un solo anno i loro capi perché non si lascino prendere dalla smania del potere: e li scelgono dai tre ordini sociali esistenti (capitanei, valvassori e plebe) perché possano controllarsi a vicenda. Anche i giovani di bassa condizione, gli operai, che gli altri popoli disprezzano e tengono lontani come la peste, possono arrivare ad avere le più alte cariche civili e militari cittadine». Però, aggiunge che «in una cosa conservano le tracce dell’influenza barbarica: che cioè, mentre si gloriano di vivere secondo le leggi, viceversa non rispettano le leggi. Infatti essi non accolgono mai, o quasi mai, con reverenza il Principe, al quale spontaneamente dovrebbero prestare il loro rispettoso atto di soggezione, e solo se sono costretti dalla sua forza militare, adempiono verso di lui a quegli obblighi che pur sono sanciti dalle leggi».

Molti motivi possono impedire la nascita di un Comune: la configurazione geografica, il dominio di potenti feudatari, la prevalenza di un’economia pastorale e agricola (mentre quella comunale è commerciale e industriale): i Comuni si sviluppano ed hanno vita più lunga là dove si fa sentire meno la potenza dei Re, quindi nell’Italia del Nord e del Centro – tra il 1180 e il 1220 quasi tutte le città dell’Italia Settentrionale e Centrale raggiungono la loro autonomia come liberi Comuni.

I Comuni hanno vita difficile in Piemonte, perché i feudatari sparsi nel territorio sono troppo potenti. Il principale Comune piemontese è Asti: la piccola, battagliera città, già al principio del Duecento è uno dei principali centri di traffici della regione e fa sentire la propria autorità in un’ampia zona di territorio. I traffici, anche per effetto delle Crociate, si intensificano fra l’Oriente, le nostre Repubbliche Marinare e le città commerciali della Francia Meridionale: per questo nella regione, situata in posizione di transito, affluiscono attraverso i valichi alpini e appenninici carovane di mercanti. Le popolazioni, spesso oppresse dai feudatari, trovano allora conveniente raccogliersi lungo le nuove strade e fondare città. Sorgono così, tra le altre, un bel numero di «villenove» e «villefranche» (cioè «città libere»).

Non vi sono Comuni in Liguria, che è regione costiera e la cui storia è quella di Genova, Repubblica Marinara; né nel «Regno», come viene chiamata l’Italia Meridionale, perché la potente Monarchia normanna tiene saldamente in pugno il potere: però molte città godono di una certa autonomia e ottengono garanzie per la libertà degli abitanti.

A Roma il Comune stenta ad imporsi e ha vita breve ed agitata. La sua data di nascita avviene nell’estate del 1143: adirato contro il Pontefice Innocenzo II che si oppone alla distruzione della città nemica di Tivoli, il popolo insorge ed occupa il Campidoglio. Si elegge un «patrizio», carica corrispondente a quella del console, e il Senato è rinnovato, con la partecipazione di popolani e gente modesta. Ma questo Comune non ha la forza necessaria per reggersi, perché manca un ceto borghese su cui possa appoggiarsi e vi si oppongono tenacemente i signori del Lazio. Il Papa Adriano IV, l’unico Pontefice inglese nella storia della Chiesa, lancia l’interdetto sulla città; l’Imperatore e i nobili sono ostili, la città si trova isolata, danneggiata anche economicamente. Il popolo perde l’entusiasmo, e così il Papa nel 1155 rientra a Roma e il sogno di un Comune romano indipendente sfuma per sempre.

Nelle altre regioni, invece, le città – in seguito allo sviluppo delle industrie e dei commerci – divengono ricche e possono così ignorare il loro Sovrano e sottomettere i feudatari del contado.

Tra i Comuni, Milano è il più ricco e il più forte. Annota lo stesso Ottone, nel documento più sopra ricordato, che «fra tutte le città di questo popolo il primato spetta ora a Milano […], considerata superiore alle altre, non solo per la sua ampiezza e per l’abbondanza di uomini validi, ma anche perché ha sottoposto al suo dominio le vicine città di Lodi e di Como». Il Comune sorge a Milano nel 1098, ma già prima del 1000 la città era in rapidissimo sviluppo economico e commerciale, per opera soprattutto dei «negotiatores» ossia affaristi, mediatori, commercianti. Quando si tratta di affari, i Milanesi non guardano troppo per il sottile: fanno sorvegliare le vie di comunicazione attraverso la Pianura Padana per costringere i mercanti, non importa dove diretti, a recarsi prima a Milano con le loro merci; e non si danno pace finché non riescono ad avere in mano tutto il commercio della pianura. Milano è sempre in prima linea nella lotta per la libertà contro gli Imperatori Tedeschi, e Ottone di Frisinga lo conferma: «Milano fu sempre “inimica Regibus”» (nemica dei Re).

Non solo Milano, ma praticamente tutte le città della Lombardia sono Comuni: Como estende il suo dominio fino al Lago di Lugano, al Lago Maggiore, alle Alpi Lepontine e Retiche; Lodi occupa il triangolo fra il Po e l’Adda inferiore; Pavia è un Comune forte, prospero, che domina su ben novanta centri abitati; Bergamo è, con Brescia e Cremona, la promotrice della Lega Lombarda; Varese, che fa parte di un gruppo di «castellanze» cioè località munite di un castello, è fedele alleata di Milano; a Mantova agli inizi dell’XI secolo è addirittura abbattuto il Palazzo Imperiale, tanto per non lasciar dubbi sulle intenzioni del Comune!

Sorgono grandi Comuni in Veneto, Emilia, Umbria. In Toscana Firenze è, con Milano, il «modello» classico di libero Comune. I primi segni della sua autonomia datano all’anno 1089: sono la riscossione da parte delle autorità comunali (anziché da parte dell’Imperatore) di una tassa per la manutenzione delle mura, e la partecipazione alle guerre contro i feudatari del contado; durante il secolo XII l’espansione prosegue con intensità, finché il figlio del Barbarossa, Enrico VI, finisce col riconoscere nel 1192 l’autonomia di Firenze.


Il governo del Comune

Per capire la ragione per la quale molte persone scelgono la vita nei Comuni, tratteggiamo un paesaggio italiano del XIII secolo. In cima ai colli, agli sbocchi delle valli, nei punti dai quali è possibile dominare una vasta zona di territorio, vedremmo innalzarsi massicci castelli: vi abitano i ricchi e prepotenti feudatari che hanno avuto dall’Imperatore di Germania l’incarico di governare quelle terre. Ai piedi dei castelli sorgono dei casolari; lì conducono la loro grama esistenza i contadini soggetti al feudatario. Ma essi, che dovevano essere sudditi, sono stati ridotti quasi alla condizione di schiavi, ed infatti son detti «servi della gleba»; non hanno alcun diritto civile e devono versare al feudatario tributi esorbitanti, non serbando per sé neppure il necessario per vivere; inoltre, se vogliono abbandonare il feudo, devono pagare una somma per riscattare la propria libertà.

Nelle pianure ci sono città cinte di mura – città comunali. I loro abitanti, ricchi e ben addestrati a combattere, sono riusciti a sottrarsi al dominio dei feudatari. Nelle città tutti lavorano alacremente e possono facilmente arricchirsi perché non devono pagare tasse eccessive; tutti insieme provvedono al governo del Comune: non sono né sudditi né servi, ma liberi cittadini. Così potenti da chiudere le porte delle loro città in faccia allo stesso Imperatore.

I servi della gleba che sono riusciti a farsi un gruzzolo di denaro possono comperare dal feudatario la propria libertà pagando una certa somma, trasferirsi nei Comuni ed iniziare una nuova vita.

A volte, sono gli stessi Comuni a promuovere la liberazione collettiva degli abitanti di un intero villaggio. Così avviene a Pisa nel 1205 e ad Assisi nel 1210, dove il prezzo del riscatto è fissato in proporzione agli obblighi ed agli averi di ciascun servo: «Chi doveva fornire al signore il pane e la carne pagherà al signore 100 soldi se possiede 100 lire, e sarà assolto dal suo obbligo. E così sempre in questa misura, ma non meno di 20 soldi.

Il Console (di Assisi) raccoglierà questi denari e scriverà l’atto di liberazione. E se il signore non vorrà accettare i denari il Console dovrà lo stesso costringerlo a dare la libertà a quegli uomini: il denaro verrà allora depositato presso la Chiesa Maggiore e utilizzato più tardi dal Comune».

Nel 1256 il popolo bolognese riscatta a sue spese 5.862 servi appartenenti a 406 padroni diversi; deve pagare dieci lire per ogni servo di età superiore ai quattordici anni, otto per quelli di età minore. L’elenco di coloro che hanno potuto godere di questa beneficienza viene chiamato «Elenco del Paradiso».

I Bolognesi, nello Statuto del loro Comune (terminato di compilare nel 1267), dichiarano di essere, per sempre, degli uomini liberi, dotati di piena e completa autonomia: «Stabiliamo e ordiniamo che tutti gli abitanti presenti e futuri della città siano considerati e difesi dal Comune di Bologna come uomini liberi, e nessuno osi molestare alcuno dichiarandolo suo servo. Il Podestà e i suoi giudici non gli diano ascolto e lo multino di lire 1.000».

Nel Comune tutte le decisioni più importanti vengono prese, assieme, da tutti i cittadini. Essi si radunano nella piazza principale e lì tengono la loro adunanza, chiamata «Parlamento».

Il Parlamento approva lo Statuto (cioè le leggi che regolano la vita del Comune), decide la pace o la guerra ed elegge i «consoli».

Questi, il cui numero è variabile (Milano ha 19 consoli nel 1117, 24 nel 1130, 10 nel 1140, 15 nel 1151), restano in carica per un anno e provvedono all’amministrazione quotidiana del Comune, controllano che le leggi siano eseguite e rispettate, amministrano la giustizia e comandano l’esercito.

Per le decisioni meno importanti, per le quali non vale la pena di convocare il Parlamento, i consoli si consultano con i membri del Consiglio di Credenza (cioè di fiducia) formato dai rappresentanti delle Corporazioni delle Arti.

Accade però, talvolta, che i consoli, anch’essi legati da interessi e amicizie, animati da invidie e rivalità, parteggino per qualche gruppo di cittadini facendo il danno di altri; accade che si mostrino indulgenti verso un cittadino che ha trasgredito alle leggi, perché loro parente, e che si mostrino severi verso un altro perché appartiene ad una famiglia nemica della loro.

Si decide allora di affidare il governo del Comune ad una persona forestiera, la quale, non avendo nella città parenti ed amici, potrà agire con più disinteresse ed imparzialità: a questo nuovo capo del Comune viene dato il nome di «podestà».

Il brano seguente è una parte del primo Statuto comunale di Verona, conservato in un codice (cioè un antico manoscritto) che reca la data del 1228. In questo brano sono meticolosamente indicati i compiti ed i doveri di chi assume l’importante carica di podestà del Comune:

«Capitolo 1. – Giuro per Dio onnipotente e il Figlio di Lui Signore Nostro Gesù Cristo, e lo Spirito Santo, la Santa Vergine Maria e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e i Santi Arcangeli Michele e Gabriele, di prestare alla città di Verona una coscienza pura e un fraterno servizio.

Giuro che pacificherò tutte le discordie che vi sono in Verona e nel suo territorio, che non sarò una spia ai danni di Verona, che con buona fede reggerò il comune di Verona e tutti gli uomini, maschi e femmine, poveri e ricchi, chierici, orfani, vedove, chiese e monasteri che dipendono da Verona. Ascolterò le loro querele e le tratterò con equità.

Capitolo 2. – Condurrò a fine quanto più presto potrò ogni questione senza inganno mio o delle persone che mi aiuteranno.

Capitolo 3. – Non commetterò furto nelle cose del Comune né permetterò che altri lo faccia, e chi l’avesse fatto costringerò a restituire.

Capitolo 4. – E sarò contento per mio salario di 3.000 lire di danari veronesi e dell’alloggio e dello stallo del Comune di Verona e della mobilia che vi è ora nel Comune. Sarò contento di lire 1.000 per tutte le mie spese e di tutti coloro che saranno con me e dei soldati miei.

Torrò a mie spese a servizio del Comune per tutto il tempo del mio governo dodici soldati ben armati.

[…]

Capitolo 11. – Cessato il mio ufficio, coi miei giudici ed i miei soldati, mi fermerò in città per quindici giorni a spese del Comune di Verona per rispondere a tutti quelli che vorranno presentare lamentele contro di me, contro i miei giudici e i miei soldati».

Il fulcro della vita del Comune è il Palazzo della Ragione, ove risiedono i capi. Caratteristici sono l’ampio balcone, detto «arengo», dal quale i consoli o il podestà parlano alla popolazione riunita a parlamento, e la poderosa Torre Comunale che racchiude la campana che suona per convocare il popolo nella piazza. Talvolta questi edifici vengono chiamati «Broletto» perché, quando sorsero, erano circondati da un vasto prato (e prato, con una parola di origine celtica, si dice «brolo»). In un palazzo, accanto a quello della Ragione, risiede il Vescovo. Al sorgere dei Comuni alcuni Vescovi divengono capi della città guidandola nelle lotte contro i feudatari e l’Imperatore. Anche i ricchi mercanti aspirano a governare da soli la città e a divenirne i signori assoluti: per questo si recano al Parlamento seguiti da uno stuolo di loro sostenitori; in questo modo riesce più facile imporre le proprie opinioni. Spesso, gli uomini di famiglie avverse preparano agguati contro i membri l’una dell’altra per fare in modo che non possano recarsi in Parlamento ad esporre la loro opinione: purtroppo queste lotte tra famiglie spesso funestano gravemente la vita laboriosa delle città comunali.

Piazza Vecchia, Bergamo

La Piazza Vecchia con il Palazzo della Ragione, Bergamo (Italia); fotografia di Simone Valtorta, 2002

I viaggi

La principale fonte di ricchezza dei Comuni sta nel commercio. Le Crociate hanno provocato lo spostamento di migliaia di persone dall’Occidente all’Oriente, operando così la rinascita commerciale e culturale del Mediterraneo. Chi ne fruisce maggiormente sono le Repubbliche Marinare Italiane, che hanno messo le loro navi a disposizione dei Crociati ed hanno ottenuto in cambio importanti concessioni doganali e addirittura territoriali nelle terre strappate ai musulmani: passa nelle loro mani il controllo del lucroso mercato delle spezie provenienti dall’Estremo Oriente. La via per mare, d’altronde, è la più comoda e sicura (pirati permettendo): Venezia, Pisa, Amalfi hanno numerosi fondachi (cioè magazzini) lungo le coste asiatiche, e il mercante che si mette in viaggio sa dove appoggiarsi.

Il commercio provoca profondi cambiamenti nell’economia. Fino ad ora, per gli scambi si è usato il baratto: si sono scambiate merci con altre merci. Ma man mano che la ricchezza aumenta, si sente la necessità di avere una moneta vera; principalmente, l’oro. Nel 1252 è Firenze che conia il fiorino d’oro, che diventa presto una moneta riconosciuta internazionalmente; intorno al 1280 Venezia conia lo zecchino e Genova il genoino. Con le monete, sorgono le prime banche private, soprattutto a Firenze: Bonsignori, Medici, Bardi, Peruzzi, Acciaiuoli, Francesco Datini. Contemporaneamente, nascono le prime società: molte famiglie si radunano assieme e affidano le proprie ricchezze ad un mercante perché le faccia fruttare. Questi mercanti si spingono fino in Cina, in Mongolia, in India; centri importanti sorgono poi sulle coste africane, dove sono i bazar del Cairo e del Marocco.

Difficoltoso resta invece il traffico per via di terra: qui si viaggia raramente perché i viaggi sono scomodi. Le grandiose strade romane che, partendo dalla capitale, raggiungevano i confini dell’immenso Impero, sono cadute nell’abbandono: quelle che non sono andate distrutte, sono strette, polverose d’estate, fangose d’inverno. Le distanze, prima brevissime (al tempo dell’antica Roma una lettera veniva recapitata da Roma a Londra nell’arco di tre giorni), sono diventate enormi: per andare da Napoli a Firenze si impiegano quindici giorni… andare fuori d’Italia diventa un’avventura.

Chi viaggia, lo fa a proprio rischio e pericolo: i banditi infestano le strade e c’è pericolo di non ritornare a casa. Così, quando ci si mette in marcia non lo si fa mai da soli, e mai di notte: ci si unisce in piccole carovane per fronteggiare i pericoli. La notte si fa tappa in qualche casolare. Alberghi non ne esistono.

I trasporti avvengono con mezzi molto rudimentali, con semplici carri trainati da buoi, o da cavalli; tuttavia è in questo periodo che s’introduce nello sfruttamento dell’energia animale un accorgimento tecnico apparentemente banale e che invece accresce enormemente le possibilità lavorative in campagna o nei trasporti: il collare rigido che poggia sul garrese dell’animale, e non più direttamente intorno al collo.

C’è anche chi si sposta a piedi: bisaccia e bastone a forma di croce, al collo una conchiglia come segno d’identificazione, le strade del Medioevo sono percorse dai pellegrini o «romei». Tre centri di pellegrinaggio attirano folle intere: Roma, Gerusalemme e San Giacomo di Compostela, in Spagna. I racconti di questi viandanti, che descrivono luoghi che hanno visto e luoghi di cui hanno solo sentito favoleggiare, saranno una delle molle che spingeranno i mercanti (e gli avventurieri in cerca di fortuna) a spostarsi in luoghi sempre più lontani.

(settembre 2012)

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