L’Italia nell’Alto Medioevo
Dai barbari a Carlo Magno

Da sempre, la storiografia italiana ha guardato di malavoglia, e quasi di sfuggita, al lungo millennio medievale, e soprattutto a quel lungo periodo, dal VI al IX secolo, che va posto sotto il nome di Alto Medioevo ed è caratterizzato da una marcata involuzione demografica, economica e culturale. Il motivo è chiaro: a differenza di altri Stati europei come la Francia o la Spagna, che proprio nel Medioevo si affacciano alla luce della Storia, gli Italiani possono ben fregiarsi del richiamo alla grande civiltà romana come loro diretta antenata. Già il Muratori nel Settecento, però, lamenta questo pregiudizio, mostrando che se al tempo dei Longobardi non vigeva di certo la felicità di costumi dell’Impero Romano, pure il loro regno non era da meno rispetto a quello dei Franchi o dei Visigoti, o degli altri popoli insediatisi in Europa; anzi, era ingiusto che gli Italiani onorassero la madrepatria quand’era nel fulgore della sua gloria, mentre la schifassero quando la sua luce si offuscava. Oltretutto, aggiungeva, molte nostre tradizioni si rifanno al Medioevo, non all’età romana.

Nel VI secolo, il grande Impero Romano che si era spinto fino all’Africa, all’Asia, all’Inghilterra, è caduto sotto i colpi dei barbari. La parola «barbaro» si rifà al «bar-bar» di una lingua incomprensibile, e significa «balbuziente»; i Greci, per esempio, chiamavano «barbari» tutti i non Greci, coloro che non parlavano la loro lingua e non condividevano la loro cultura (Romani inclusi). Bloccati dalla vittoria di Mario sui Cimbri e i Teutoni, ricacciati da Giulio Cesare oltre il Reno, i barbari si rendono di nuovo minacciosi a partire dal III secolo. Le principali tribù barbariche (la maggior parte di stirpe germanica) sono i Quadi, i Marcomanni, gli Alamanni, i Franchi, gli Agli, gli Eruli, i Goti (Ostrogoti e Visigoti), gli Unni, i Vandali, i Longobardi. Prima giungono nel nostro Paese gli Eruli, tanto che nel 476 l’Impero si può dire finito, poi i Goti guidati da Teodorico. Sebbene essi non possano dirsi responsabili delle stragi che una tradizione dura a morire attribuisce loro, è innegabile che siano i maggiori responsabili della morte di un Impero che pretendevano di salvare e vivificare.

Invasione dei Goti

O. Fritsche, Invasione dei Goti, XIX secolo

Dopo il sacco di Roma di Alarico nel 410 e di Genserico nel 455, dal 535 al 553 l’Italia subisce le alterne vicende della guerra gotica fra Giustiniano, Imperatore d’Oriente, e i vari Re Goti successori di Teodorico, morto nel 526: Vitige, Totila, Teia. Anni di distruzioni e abbandono infieriscono sull’Italia: le popolazioni vivono nel terrore e nella povertà. Non esiste più un governo, i paesi e le città sono abbandonati, le terre incolte. Molta gente si dà all’ascetismo, si ritira sui monti, nelle caverne; l’Italia viene percorsa da numerosi eremiti.

Chi diffonde l’ideale monastico nella sua forma più alta è San Benedetto, nominato Patrono d’Europa. Nato a Norcia, in Umbria, nel 480, da una famiglia agiata, abbandona a vent’anni le ricchezze e si ritira nei pressi di Subiaco. Dai paesi vicini molti uomini accorrono a lui, nascono i Benedettini. Da Subiaco, San Benedetto andrà più tardi a Montecassino dove fonderà nel 529 la celebre abbazia e dove morirà nel 547; verrà sepolto con sua sorella Santa Scolastica. Per tutta l’Europa sorgeranno centinaia di monasteri e saranno proprio questi che faranno rinascere la vita in Italia e nelle altre Nazioni. Le Regole dell’Ordine Benedettino si riassumono nel motto «Ora et labora» («Prega e lavora»): e difatti i monaci passano la giornata pregando e lavorando la terra, oppure copiando pazientemente e fedelmente la Bibbia e gli antichi codici – è soprattutto grazie alla loro attività di copisti che le opere latine e greche vengono salvate in gran numero e possono giungere sino a noi. La campana del convento benedettino scandisce le ore della preghiera e del lavoro dei monaci e dei laici che hanno trovato rifugio tra di loro: dai villaggi sperduti, dalle città ridotte a rovine, molti uomini e donne corrono a rifugiarsi sotto la protezione dei monasteri. I monaci insegnano a coltivare la terra, fanno scuola. La loro opera nel Medioevo, per il recupero della cultura classica, è enorme.

Poi arrivano i Longobardi, una popolazione germanica proveniente forse dalla Scandinavia e convertitasi – almeno parzialmente – al Cristianesimo ariano.

È Paolo Diacono, con la sua Historia Langobardorum (Storia dei Longobardi), principale fonte di conoscenza della storia longobarda, a fornire l’etimologia della parola «Longobardi»: «Furono chiamati così [...] in un secondo tempo per la lunghezza della barba mai toccata dal rasoio. Infatti nella loro lingua “lang” significa “lunga” e “bart” “barba”» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, I, 9). Mentre secondo alcuni storici, il nome significherebbe popolo «dalle lunghe lance», dall’alto tedesco antico «barta» («lancia»).

Secondo le loro tradizioni, i Longobardi in origine si chiamavano Winnili, cioè Vincenti. Narra la leggenda che i capi dei Vandali, dovendo scontrarsi coi Winnili, pregarono Odino di concedere loro la vittoria, ma il dio supremo disse che avrebbe decretato il successo al popolo che, il mattino della battaglia, avesse visto per primo. La moglie di Odino, Frigg, diede alle donne winnili il consiglio di presentarsi sul campo di battaglia al sorgere del sole con i capelli sciolti fin sotto il mento come fossero barbe. Al sorgere del sole Odino, quando li vide, chiese: «Chi sono quei guerrieri così longibarbuti?». Al che la dea rispose: «Poiché hai dato loro un nome, dai loro anche la vittoria».

I Longobardi, guidati dal Re Alboino e rinforzati da contingenti di altri popoli, nel 568 invadono l’Italia attraversando l’Isonzo. Jörg Jarnut, e con lui la maggior parte degli autori, stima la consistenza numerica totale dei migranti tra i cento e i centocinquantamila fra guerrieri, donne e non combattenti; non esiste tuttavia pieno accordo tra gli storici a proposito del loro reale numero.

La resistenza bizantina è solamente simbolica. La prima città a cadere nelle mani di Alboino è Cividale del Friuli. Nel 572, dopo tre anni di assedio, cade anche Pavia; Alboino la sceglie come capitale del suo regno. Negli anni successivi i Longobardi proseguono la loro conquista discendendo la penisola fino all’Italia Centro-Meridionale. Ai Bizantini rimangono alcune zone costiere dell’Italia continentale: l’Esarcato (la Romagna, con capitale Ravenna), la Pentapoli (comprendente i territori costieri delle cinque città di Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia e Rimini) e gran parte del Lazio (inclusa Roma) e dell’Italia Meridionale (le città della costa campana, Salerno esclusa, la Puglia e la Calabria).

Domini longobardi e bizantini

I domini longobardi dopo la morte di Alboino (572) e le conquiste di Faroaldo e Zottone nel Centro e nel Sud della Penisola (575 circa)

I Longobardi sono un popolo in armi guidato da un’aristocrazia di cavalieri e da un Re guerriero eletto dall’esercito, che funge anche da assemblea degli uomini liberi (arimanni). Alla base della piramide sociale ci sono i servi, che vivono in condizioni di schiavitù; a livello intermedio si trovano gli aldii, che hanno limitata libertà ma una certa autonomia in ambito economico. Il popolo è suddiviso in varie fare, raggruppamenti familiari con funzioni militari che ne garantiscono la coesione durante i grandi spostamenti, simili alle «gentes» romane. A capo di ogni fara c’è un duca, che col passar del tempo comincia a godere di una marcata autonomia rispetto al potere centrale dei Sovrani insediati a Pavia; nel corso dei secoli, tuttavia, grandi figure di Re estendono progressivamente la loro autorità, conseguendo un rafforzamento delle prerogative regie e della coesione interna del Regno – Regno che, tra il VII e l’inizio dell’VIII secolo, arriva a rappresentare una potenza di rilievo europeo.

In Italia i Longobardi si spargono sul territorio ripartendosi tra gli insediamenti fortificati già esistenti e dapprincipio respingono ogni commistione con la popolazione di origine latina (i cosiddetti Romanici), arroccandosi a difesa dei propri privilegi. Minoranza, coltivano i tratti che li distinguono sia dai Bizantini che dai Romanici: la lingua germanica, la religione pagana o ariana, il monopolio del potere politico e militare. Inizialmente il loro dominio è molto duro, animato dal tipico spirito di conquista e saccheggio delle popolazioni germaniche: un atteggiamento ben diverso, quindi, da quello comunemente adottato dai barbari «foederati», per più tempo esposti all’influenza latina. Nei primi tempi si registrano anche veri e propri massacri; la maggior parte del ceto dirigente latino (i «nobiles») viene uccisa o scacciata, mentre i pochi scampati devono cedere ai nuovi padroni un terzo dei loro beni.

Una volta stabilizzata la presenza in Italia, nella struttura sociale del popolo longobardo iniziano a manifestarsi segnali di evoluzione, registrati soprattutto nell’Editto di Rotari (643), significativamente redatto in latino. L’impronta guerriera lascia progressivamente il passo a una società differenziata, con una gerarchia legata anche alla maggiore o minore ampiezza delle proprietà fondiarie. L’Editto lascia intendere che, anziché in fortificazioni più o meno provvisorie, i Longobardi vivano ormai nelle città, nei villaggi o – caso forse più frequente – in fattorie indipendenti («curtis»). Con il passare del tempo anche i tratti segregazionisti vanno stemperandosi, soprattutto con la conversione al Cattolicesimo alla fine del VII secolo. Cresce il numero dei Romanici capaci di conquistare posizioni di prestigio. A conferma della rapidità del processo c’è anche l’uso esclusivo della lingua latina in ogni scritto.

Sebbene le leggi rotariane proibiscano, in linea di principio, i matrimoni misti, è tuttavia possibile per un Longobardo sposare una schiava, anche romanica, purché emancipata prima delle nozze. Gli ultimi Re Longobardi, come Liutprando o Rachis, intensificano gli sforzi d’integrazione, presentandosi sempre più come Re d’Italia anziché Re dei Longobardi. Con l’VIII secolo, i Longobardi sono in tutto adattati agli usi e ai costumi della maggioranza della popolazione del loro regno.

Per molto tempo, la vita trascorre monotona: i rapporti fra città e città sono spezzati, le strade sono interrotte. Ci sono persone che non hanno mai visto neppure il mare. La gente vive adesso attorno ad un castello, o attorno ad un monastero. Non ci sono scambi fra paese e paese. Non esistono più grandi mercati. Ogni villaggio è completo: ha il calzolaio, il sarto, il sellaio. Anche le materie prime, come i chiodi o il martello o la pelle vengono prodotti nel villaggio stesso. Ma non è tutto negativo. Paolo Diacono esalta la sicurezza raggiunta sotto il regno di Autari e Teodolinda: «C’era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c’erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c’erano furti, non c’erano rapine; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, III, 16).

Sotto Liutprando, i Longobardi toccano l’apogeo della loro potenza. Gli si riconosce audacia, valor militare e lungimiranza politica: «Fu uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine, ignaro sì di lettere ma degno di essere paragonato ai filosofi, padre della Nazione, accrescitore delle leggi» (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, VI, 58).

Una storiografia di stampo romantico vede i Longobardi come antenati degli Austriaci – oppressori dell’Italia –, e di conseguenza barbari di nome e di fatto; eppure, a conferma del grado di civilizzazione raggiunto da questo popolo, basterebbero alcuni capolavori della loro oreficeria, come ad esempio la Chioccia con i pulcini o la Corona Ferrea, entrambe facenti parte del Tesoro del Duomo di Monza. L’oreficeria è l’arte prediletta dei Germani che, come tutti i nomadi e i guerrieri, possono portare con sé solo armi adorne di metalli preziosi e ornamenti per il corpo o per la cavalcatura: oggetti piccoli, sempre a portata di mano per un dono o per uno scambio, facili da portar via in caso di fuga. Elementi fondamentali dell’arte orafa dei maestri longobardi sono l’uso della lamina d’oro, della lavorazione a sbalzo e delle pietre preziose e semipreziose; tra i numerosi reperti, si contano fibule, orecchini, guarnizioni da fodero in lamina d’oro lavorata a giorno degli scramasax (la tipica spada longobarda, corta e dritta a un solo taglio), guarnizioni di sella, piatti di legatura, croci e reliquiari.

Chioccia con i pulcini

La Chioccia con i pulcini

Liutprando si allea con i Franchi e con gli Avari, ai confini orientali: una doppia garanzia contro i potenziali nemici esterni che gli consente di avere le mani libere nello scacchiere italiano. Nel 726 si impadronisce di molte città bizantine dell’Esarcato e della Pentapoli; per non inimicarsi il Papa, tuttavia, rinuncia all’occupazione di Sutri, che restituisce non all’Imperatore ma «agli Apostoli Pietro e Paolo». Questa donazione, nota come «Donazione di Sutri», fornisce il precedente legale per attribuire un potere temporale al Papato, ed è tradizionalmente indicata come l’atto di nascita dello Stato della Chiesa.

Dopo la morte di Liutprando (744), Astolfo intraprende una politica energica ed espansionistica, cogliendo notevoli successi: le sue campagne portano i Longobardi ad un dominio quasi completo dell’Italia. Ma proprio nel momento in cui Astolfo pare ormai avviato a vincere tutte le opposizioni, Pipino il Breve, nuovo Re dei Franchi, si accorda col Papa Stefano II che, in cambio della solenne unzione regale, ottiene la discesa in Italia dei Franchi. Nel 754 l’esercito longobardo è sgominato e Astolfo deve accettare consegne di ostaggi e cessioni territoriali. Due anni dopo riprende la guerra contro il Papa, che richiama i Franchi. Sconfitto di nuovo, Astolfo subisce patti molto più duri: Ravenna passa al Papa, incrementando il nucleo territoriale del Patrimonio di San Pietro, e il Re deve accettare una sorta di protettorato.

Ci si potrebbe chiedere perché il Papa si rivolge ai Franchi, che sono lontani, e non cerca invece un accordo con i Longobardi, che sono vicini. Lo Stato della Chiesa ha sempre mirato all’unificazione del Paese, ma sotto la sua guida: non è mai stato abbastanza forte da conquistare lui stesso l’Italia, ma è sempre stato abbastanza forte da impedire che altri la conquistassero, almeno fino all’Ottocento. E sarà fino all’Ottocento che proseguirà la sua intesa con la Francia, sia pure fra alterne vicende.

Alla morte di Astolfo, nel 756, Desiderio, duca di Tuscia, prende il potere con l’appoggio sia del Papa, che dei Franchi. Riafferma il controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete di monasteri governati da aristocratici longobardi e arrivando a patti con il nuovo Papa, Paolo I. Sviluppa una disinvolta politica matrimoniale sposando una figlia al duca di Baviera, Tassilone, e un’altra a Carlo di Francia, il futuro Magno.

Ma nel 771 Carlo, ormai saldo sul trono, ripudia la figlia di Desiderio. L’anno successivo riprende la guerra tra i Longobardi e il Papa Adriano I e, opportunamente, Carlo viene in aiuto del Papa. Tra il 773 e il 774 scende in Italia e conquista la capitale del regno, Pavia. Il figlio di Desiderio, Adelchi, trova rifugio presso i Bizantini, che tenterà invano di convincere alla guerra contro i Franchi; Desiderio e la moglie, invece, sono condotti in Francia e chiusi in un monastero. Carlo si fa chiamare da allora «Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum», realizzando l’unione dei due regni, mantenendo le «Leges Langobardorum» ma riorganizzando il regno sul modello franco. «Così finì l’Italia longobarda», scrivono Indro Montanelli e Roberto Gervaso in L’Italia dei secoli bui, «e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all’Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia».

Carlo Magno, con una serie di fortunate campagne militari, riunisce sotto di sé gran parte dell’Europa Occidentale; la notte di Natale dell’800, Papa Leone III lo incorona Imperatore del Sacro Romano Impero. Egli governa un immenso territorio, ma non potendo controllare tutto di persona – anche perché i viaggi sono lunghi e difficili – affida i suoi territori a conti, marchesi e duchi; questi risiedono in castelli posti in posizione strategica, sulla cima di monti o colline, da dove proteggono, vigilano, dominano ed anche opprimono le terre loro sottoposte. Hanno giurato fedeltà – vassallaggio – nelle mani dell’Imperatore, di cui dovrebbero essere solo i rappresentanti, ma dal quale si rendono progressivamente indipendenti; da essi dipendono, in precisa gerarchia, valvassori e valvassini.

I domini longobardi dell’Italia Centro-Meridionale vivono di vita effimera fino ad essere assorbiti nell’XI secolo dai Normanni, come del resto tutta l’Italia Meridionale.

(febbraio 2011)

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