Il grande Giubileo del 1300
Un momento di spartiacque in un’epoca di
forti contrasti
Il primo Giubileo della Chiesa Cattolica, l’anno 1300, segna il grande spartiacque tra la religiosità medievale e quella che potremmo già definire una religiosità «moderna». Del resto, sono anni di grandi e profondi cambiamenti, che preannunciano il termine del Medioevo e l’inizio di un’epoca nuova: si stanno formando le Nazioni Europee e il potere temporale che la Chiesa ha esercitato nei secoli precedenti non viene più sentito come necessario, anzi, è un giogo di cui liberarsi al più presto; i nuovi Stati vogliono decidere da sé, senza subire limiti da altre autorità.
La Chiesa deve affrontare due gravi pericoli: i nobili romani della potente famiglia dei Colonna che spadroneggiano per Roma, e Filippo il Bello, Re di Francia, che cerca di fiaccare la resistenza del Papa. Una vittima illustre è Pietro d’Isernia, un povero monaco che conduce vita da eremita sul monte Morrone, eletto Papa dopo trentun mesi di Conclave. Quando gli giunge notizia della sua nomina a Pontefice, cerca di sottrarsi e fugge, ma viene raggiunto e coronato. Assunto il nome di Celestino V, pone la sua sede a Napoli. Durerà sul trono non più di sei mesi: spaventato dalle immani difficoltà che nella sua inesperienza non sa come affrontare, compie il «gran rifiuto» e rinuncia al suo incarico, rifugiandosi di nuovo nell’eremo. Catturato e rinchiuso nel castello di Fumone, poco tempo dopo muore di stenti. Passerà alla storia come il primo Papa che ha deposto la tiara. Gli succede, dopo un solo giorno di Conclave, Benedetto Caetani, che è tutta un’altra tempra d’uomo: energico, forte, deciso! Indro Montanelli lo definisce «un Papa del Rinascimento un po’ in anticipo sui tempi, un Borgia avanti lettera, cinico e gagliardo, dispotico, teatrale e terrestre» (Montanelli-Gervaso, Storia d’Italia, volume 10, L’apogeo dell’età comunale, Fabbri Editori, Milano 1994, pagine 53-54).
Arnolfo di Cambio, monumento a Bonifacio VIII, Museo dell'Opera del Duomo di Firenze (Italia)
Dotto giurista di grande intelligenza e di indomita volontà, Benedetto Caetani nasce ad Anagni, sembra nel 1235, e viene eletto Papa il 24 dicembre del 1294 col nome di Bonifacio VIII. Molti Cardinali devono ben presto pentirsi di aver dato il loro voto a quest’uomo, che mostra subito di possedere un’energia straordinaria. Lo stesso Re di Napoli, Carlo d’Angiò, che conta di trattenere il nuovo Pontefice a Napoli dove si è svolto il Conclave, deve adattarsi a vederlo partire per Roma, anzi, ve lo accompagna egli stesso. Appena giunto nella Città Eterna, il nuovo Papa continua con energia la politica tradizionale della Chiesa, che vuole difendere i suoi diritti feudali sui vari domini ecclesiastici.
Si oppongono a questa politica i Cardinali Giacomo e Pietro Colonna. In odio al Papa, fanno assalire e depredare da Stefano Colonna, conte di Romagna, un convoglio di ottanta muli provenienti da Anagni, carichi del tesoro papale che viene trasportato a Roma. Il Papa li cita in giudizio, ma i Colonna, anziché presentarsi, si armano nei loro castelli, chiedono aiuto ai ghibellini d’Italia e di Francia e, affiancati dal movimento estremista degli «Spirituali» capeggiato da Jacopone da Todi, si mettono a diffondere la voce che l’elezione di Bonifacio è illegittima. Il Papa risponde prima scomunicandoli, poi bandendo una specie di crociata contro di loro. Le truppe papali assalgono la rocca di Palestrina dove si sono asserragliati i Cardinali e questi, vistisi perduti, escono dal castello in vesti da penitenti. Il Papa toglie loro la scomunica, ma non li reintegra nella dignità cardinalizia; anzi, per dare esempio, fa distruggere e radere al suolo la roccaforte di Palestrina.
Ma il momento più alto della fortuna di Bonifacio VIII è il Giubileo[1], proclamato il 22 febbraio del 1300 (1299 per il computo dell'epoca, dato che il nuovo anno iniziava il 25 marzo): il Papa concede indulgenza plenaria (cioè perdono) dei peccati a tutti coloro che durante l’anno si recheranno, confessati e comunicati, a visitare per quindici giorni le basiliche di San Pietro e di San Paolo e le tombe degli Apostoli, in Roma.
Torme di pellegrini si mettono in cammino dalle città d’Italia, dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Spagna, da tutte le contrade d’Europa. Sono viaggi che durano mesi, tra strade impervie, fangose, infestate dai banditi; molti pellegrini, prima di partire, hanno fatto testamento: non sanno se torneranno a rivedere la propria famiglia. Viaggiano a dorso di mulo, o su carri, o a cavallo se son ricchi, ma per la maggior parte sono a piedi. Per strada si trovano poche locande, e quelle poche non hanno bagno, né acqua corrente, né riscaldamento; le camere sono per lo più sporche, maltenute, e spesso bisogna litigare per avere un posticino. Forse molti pellegrini si sentono come Maria e Giuseppe, in viaggio per Betlemme, che devono rifugiarsi in una stalla perché nessuna locanda li vuole alloggiare.
Giunti finalmente a Roma, i pellegrini non incontrano una migliore situazione. La città non è quella di oggi, ricca di monumenti e di chiese: è una città povera, abitata da un popolino misero e straccione; si incontrano di tanto in tanto grosse torri e castelli, le roccheforti dei nobili romani che si combattono di continuo fra di loro. I monumenti degli antichi Romani sono andati in rovina e nessuno li ha più restaurati.
Nessuno si lamenta. La fatica è stata grande, ma ne è valsa la pena: molti, dinanzi alle migliaia di persone che convergono nella Città Eterna (30.000 al giorno), vedono forse in questo evento un segno profetico di quel Regno promesso che viene non come opera dell’uomo, ma come gratuito dono di Dio. In questo gesto si riscatta tutta l’eredità medievale: le cattedrali, i monasteri, le scuole. I pellegrini si prostrano dinanzi alle tombe degli Apostoli, dove ricevono l’indulgenza plenaria e lasciano cadere il loro obolo, che due diaconi armati di pala raccolgono; possono stare dinanzi al Papa che per la prima volta è coronato con un diadema di nuova foggia, ornato cioè di due corone, una sovrapposta all’altra; è il simbolo della superiorità del Pontefice su ogni Sovrano terreno. Più avanti, a queste due corone ne verrà aggiunta una terza, e la tiara papale si chiamerà da allora «triregno».
Fra i pellegrini vi sono nobili, signori, principi di sangue reale. Ed anche un uomo, un Fiorentino il cui nome non ha ancora varcato i confini della sua città, ma che oggi è conosciuto pressoché ovunque: Dante Alighieri. Ha trentacinque anni, e sostiene che proprio in quel luogo ed in quell’occasione gli viene l’ispirazione per comporre la Divina Commedia; rimane favorevolmente colpito anche dal fatto che il traffico sia stato regolato con la circolazione a destra. Ma questo non gli impedisce di mettere Bonifacio VIII all’Inferno, per simonia e per esser stato la rovina di Firenze.
Il Giubileo segna un trionfo per il Papa. Ma la lotta contro i ghibellini continua. Nell’Italia Centrale, la sola Toscana è ghibellina: Bonifacio VIII cerca di sottrarla al dominio imperiale prima per mezzo di azioni diplomatiche, poi con l’aiuto di Carlo di Valois, fratello del Re di Francia. Costui penetra con le truppe in Firenze e mette al potere la fazione guelfa dei Neri. È in questa occasione che Dante, appartenente ai Bianchi (guelfi anch’essi), viene esiliato insieme a molti altri Fiorentini.
Molto più dura è la lotta contro il Re di Francia Filippo il Bello, che assume aspetti tragici. Il Re dapprima colpisce con fortissime imposte i beni della Chiesa, poi comincia addirittura ad usurparli. Bonifacio VIII non è però uomo da accettare imposizioni: alla guerra che gli si offre, risponde con la guerra. Tiene un concilio in cui minaccia di scomunicare il Re e di deporlo dal trono.
Il 7 settembre 1303, poco dopo lo spuntare dell’alba un gruppo di uomini a cavallo, armati di tutto punto, galoppa verso la città di Anagni, dove risiede il Papa. Guidano il drappello Guglielmo di Nogaret, cancelliere del Regno di Francia (e i cui genitori sono stati bruciati come eretici dal tribunale dell’Inquisizione), e il nobile romano Sciarra Colonna; hanno l’incarico di riferire al Papa che un’assemblea di Vescovi Francesi, su pressione di Filippo IV il Bello, replicando alla sua bolla Unam Sanctam[2], lo ha dichiarato Papa illegittimo sulla base di ventinove capi d’accusa.
A spron battuto gli uomini irrompono nella quieta città gridando furibondi: «Morte a Papa Bonifacio e viva il Re di Francia!». I pochi abitanti che si trovano sulla loro strada fuggono terrorizzati; i soldati si dirigono verso il palazzo pontificio e lo prendono d’assalto. Il Papa vede servi e prelati fuggire, intuisce il pericolo; due Cardinali fedeli rimangono con lui.
Bonifacio VIII si fa portare gli abiti pontificali, li indossa e si asside sul trono, in attesa.
La marmaglia sfonda i battenti e irrompe nella sala. I due capi lanciano insulti volgari contro il Papa; Sciarra con la mano ferrata colpisce con uno schiaffo il Pontefice. «Eccoti la mia testa!» ribatte lui. «Per la libertà della Chiesa, io, legittimo Vicario di Cristo, soffrirò d’essere condannato e deposto, e anche martirizzato». È l’episodio dello «schiaffo di Anagni»; la dignità e il coraggio del Papa sconcertano i suoi nemici, che non hanno il coraggio di portar via con sé il Pontefice, come avrebbe voluto il Re di Francia, e si accontentano di presidiare il palazzo. Il Cardinale Fieschi accorre con una banda di armati e chiama a raccolta il popolo di Anagni che, riavutosi dall’improvvisa paura, corre in difesa del Papa mettendo in fuga gli assalitori.
La fermezza mostrata dal Papa in questo frangente non impedisce che un mese dopo egli, scosso ancora da altri tradimenti e amarezze, venga preso da forti febbri e da calcoli renali, e ne muoia.
Quando spira, Bonifacio VIII ha sessantotto anni: per nove anni ha retto con dignità e coraggio le sorti della Chiesa. È stato un uomo di grande animo, dotato di un carattere impetuoso, rude, spesso violento; la sua natura imperiosa lo ha portato talvolta a commettere errori che i suoi nemici hanno ingrandito fino a tacciarlo, ingiustamente, di eresia. Egli non eccedeva in mansuetudine e comprensione: era generosissimo con gli amici, ma inesorabile coi nemici. Visse in tempi di continue lotte: quella che sostenne con più tenacia fu per la supremazia della Chiesa, sull’esempio e secondo gli ideali di Gregorio VII e Innocenzo III. Ma i tempi erano profondamente mutati, cosicché egli era già sconfitto in partenza; erano passati più di cento anni da quando Papa Alessandro III aveva ricevuto, in quello stesso palazzo di Anagni che l’aveva visto oltraggiato, l’ossequio del terribile Federico Barbarossa.
Dopo la morte di Bonifacio VIII, alla Chiesa rimane soltanto la sua grande missione spirituale: la supremazia politica è terminata per sempre. Bonifacio VIII è stato l’ultimo grande Papa del Medioevo!
1 Il termine «giubileo» deriva dal latino
tardo ecclesiastico «iubilaeum», che a sua volta deriva
dall’ebraico «yōbēl» («capro»), con influenza anche del latino
«iubilare» («festeggiare, innalzare canti di gioia»). Presso
gli antichi Ebrei la legge mosaica prescriveva che ogni
cinquantesimo anno si facesse riposare la terra, che i ricchi
restituissero la terra di cui si erano impossessati (essendone
Dio l’unico padrone) e che fossero liberati gli schiavi ebrei.
Tale anno era detto «shěnat hayyōbēl», propriamente «anno del
corno del capro» perché la festività era annunciata dal suono
del corno. Nel ricordo della festività ebraica, l’anno del
giubileo significò ininterrottamente nel mondo cristiano anno
di remissione e «giubileo» significò «indulgenza» e
«liberazione». In effetti, il giubileo non fu un’invenzione
singolare di Bonifacio VIII.
I pellegrinaggi a Roma alla tomba degli Apostoli Pietro e
Paolo e dei martiri cristiani erano già numerosi nel IV
secolo, assumendo sempre più la fisionomia di un viaggio di
espiazione, volto ad ottenere il perdono dei peccati e la
guarigione spirituale, mediante l’intercessione della Chiesa.
San Gerolamo (347-420), nel suo primo soggiorno nell’Urbe, fu
colpito dalla fede dei Romani, che si recavano numerosi alle
tombe dei martiri.
Paolino da Nola (353-431), dopo che dall’Aquitania si fu
trasferito a Nola per condurre vita monastica, ogni anno
partiva da qui per recarsi nell’Urbe a visitare le tombe degli
Apostoli e degli altri martiri. La storia dei giubilei non è
immobile, non è sempre uguale, non ripete gli stessi caratteri
che ebbe nei secoli in cui il pellegrino portava sulla sua
veste il segno della Croce («signum electionis») come segno di
distinzione di una scelta di vita nella penitenza ed anche di
un particolare status giuridico, che esigeva rispetto da tutti
e un particolare trattamento. Ben diversa la condizione del
pellegrino dal secolo XVI in poi, nel clima della Riforma
Luterana, decisamente antiromana, o in quello
dell’assolutismo, allorché il potere dello Stato si dirigeva
contro mendicanti e vagabondi, facilmente equiparati al
pellegrino. Ma anche per la Chiesa Cattolica dal Concilio di
Trento in poi, la fisionomia del pellegrino muta: nella
preghiera, nella maniera di viaggiare, nelle forme della
penitenza, esso obbedisce sempre più alle indicazioni della
Chiesa, al bisogno che questa manifesta di grandi attestazioni
di fede al Papa per combattere il movimento delle eresie o
l’influsso delle grandi correnti atee del pensiero moderno.
Con l’età moderna, infine, gli aspetti organizzativi e
assistenziali si fanno sempre più evidenti ed assillanti. È
quindi impossibile dissociare la storia dei giubilei da quella
delle confraternite post-tridentine che si adoperavano per
offrire ospitalità ai pellegrini e per educarli a una
devozione meno individuale, più disciplinata e solidaristica.
2 Nel 1302 Bonifacio VIII emanò la bolla Unam Sanctam, nella quale
si sosteneva che alla Chiesa, e quindi al Pontefice, erano
stati assegnati da Dio tutti i poteri, sia quello spirituale,
sia quello temporale («le due spade»); la Chiesa lasciava la
gestione del potere temporale ai Principi, tuttavia questi
ultimi dovevano essere sottomessi alla sua autorità: «Che ci
sia una ed una sola Santa Chiesa Cattolica ed Apostolica noi
siamo costretti a credere ed a professare, spingendoci a ciò
la nostra fede, e noi questo crediamo fermamente e con
semplicità professiamo, ed anche che non ci sia salvezza e
remissione dei nostri peccati fuori di lei […]. In questa
unica e sola Chiesa ci sono un solo corpo ed una sola testa,
non due, come se fosse un mostro.
[…] Noi sappiamo dalle parole del Vangelo
che in questa Chiesa e nel suo potere ci sono due spade, una
spirituale, cioè, ed una temporale […]. Quindi ambedue sono in
potere della Chiesa, la spada spirituale e quella materiale;
una invero deve essere impugnata per la Chiesa, l’altra dalla
Chiesa; la prima dal clero, l’altra dalla mano di Re o
cavalieri, ma secondo il comando e la condiscendenza del
clero, perché è necessario che una spada dipenda dall’altra e
che l’autorità temporale sia soggetta a quella spirituale […].
Perciò se il potere terreno erra, sarà giudicato da quello
spirituale; se il potere spirituale inferiore sbaglia, sarà
giudicato dal superiore; ma se erra il supremo potere
spirituale, questo potrà essere giudicato solamente da Dio e
non dagli uomini. […] Quindi noi dichiariamo, stabiliamo,
definiamo ed affermiamo che è assolutamente necessario per la
salvezza di ogni creatura umana che essa sia sottomessa al
Pontefice di Roma».