Dante: pietra e poesia in una forte simbologia etica e spirituale
Dalla Divina Commedia alle Rime petrose, un viaggio letterario, filosofico e religioso

Il suggestivo rapporto della pietra con lo spirito ricorre nella letteratura italiana, e non soltanto in questa[1], con ragguardevole ed autorevole frequenza, quasi a sottolinearne il carattere peculiare ed universale.

Basti ricordare, fra i tanti esempi, quello di Ugo Foscolo, quando nel suo celebre carme evoca Vittorio Alfieri che si ispirava ai marmi di Santa Croce in onore dei grandi Italiani del passato, traendone gli auspici per «egregie cose» di significativa valenza risorgimentale; o quando rammenta con una punta di nostalgia romantica la statua di Venere che l’amica aveva posto a presidio degli «arcani lari» dove il poeta, e soltanto lui, poteva ammirarla come «sacerdotessa» della dea.

Non meno immaginifica fu la definizione del marmo quale «sostanza delle forme eterne» data da Gabriele d’Annunzio, con riferimento alla sua natura di «carne delle statue chiare» ma nello stesso tempo, al suo ruolo di materia prima, protagonista indispensabile delle grandi creazioni architettoniche.


La pietra nella Divina Commedia

Un caso di particolare rilievo, che assume spessore prioritario anche per la sua molteplice e diversificata ricorrenza, resta – ad ogni buon conto – quello di Dante: nel viaggio ultraterreno compiuto nel 1300 con la guida di Virgilio e poi di Beatrice, quando il sommo Poeta si trova al cospetto dell’Inferno, l’orrore che prova con la visione di pene eterne così terribili ed inimmaginabili è talmente forte da impedirgli persino di piangere, e da farlo diventare di pietra: simbolo di fatica e monito di condanna.

Nella prima cantica dell’opera dantesca, dedicata alle anime dannate, si trova il celebre riferimento all’Alpe di Luni dove «ronca lo Carrarese che di sotto alberga» e dove l’antico aruspice Aronte «ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora»[2]. È un riferimento importante, se non altro perché dimostra che il materiale apuano, già conosciuto ed apprezzato in epoca romana, continuava ad esserlo anche in quella medievale; ma si tratta di una citazione fra le tante, anche più esaurienti e significative.

Ad esempio, nel Purgatorio Dante viene colpito dalla sorte riservata agli orgogliosi, che devono portare giganteschi massi, il cui carico è tanto pesante da rendere impossibile alzarsi e da costringere i penitenti a volgere lo sguardo soltanto a terra: quel peso simboleggia il gravame spirituale accumulato con il peccato e la condanna che ne consegue, non senza ripristinare l’antico mito di Sisifo, sia pure con gli opportuni correttivi cristiani (la pena del Purgatorio, diversamente da quelle infernali, non è eterna).

Entrando nel predetto girone dei superbi, Dante aveva già incontrato con stupore commosso quei bassorilievi che erano stati scolpiti dalla mano stessa di Dio con lo scopo di raffigurare taluni esempi prescrittivi di straordinaria umiltà, come quelli di Davide o di Traiano, e prima di tutti, quelli massimi della Vergine Maria; e non senza precisare che si trattava di opere in «marmo candido e adorno d’intagli» di tale altezza estetica e simbolica, che persino Policleto, lì, ne «avrebbe scorno».

C’è di più: alla porta del Purgatorio si accede per mezzo di tre gradini in pietra, il primo dei quali «bianco marmo era sì pulito e terso» da costituire un vero e proprio specchio, mentre «era il secondo tinto più che perso d’una petrina ruvida ed arsiccia crepata per lo lungo e per traverso». Quanto al terzo, «porfido mi parea sì fiammeggiante come sangue che fuor di vena spiccia»[3].

A proposito del Purgatorio, si deve aggiungere che Dante, nell’immaginare la scoscesa montagna su cui avrebbe collocato le anime penitenti, si sarebbe ispirato alla famosa «Pietra di Bismantova»: in altri termini, all’omonimo altipiano degli Appennini Emiliani, situato ad oltre mille metri di altitudine, ma di ardua scalata e di significative reminiscenze religiose, geologiche e militari[4].

Altrove, come nel riferimento alla maledizione della Medusa, per cui ogni uomo sarebbe stato pietrificato al solo guardarla, Dante ne trae uno spunto fortemente suggestivo per la similitudine poetica fra quel tragico, irreversibile destino ed il dramma dell’esilio a vita, da lui straordinariamente sofferto nello «scendere e salir per l’altrui scale» e nel verificare attraverso l’esperienza quotidiana come «sa di sale lo pane altrui».

La tragedia dell’Esule, per Dante, è di tale portata da renderlo simile alla pietra, anticipando quelle di tempi più recenti e di quanti, come l’Abate di Lamennais, ne avrebbero compreso il dolore, e la permanente solitudine.


Le Rime petrose

La familiarità dantesca con la pietra non è casuale, se si pensa che prima della Commedia aveva composto, in tutt’altro contesto spirituale, le cosiddette Rime petrose ispirategli da una donna bella ma insensibile come un macigno, tanto da indurre anche il Poeta ad assumere un atteggiamento di analoga e pur sofferta distanza: «Così nel mio parlar voglio esser aspro / com’è negli atti questa bella petra / la quale ognora impetra / maggior durezza e più natura cruda»[5].

In qualche misura, la misteriosa «Madonna Pietra» di Dante sembra quasi anticipare il ruolo di elevazione spirituale che diventerà trionfante con Beatrice e con la sua guida celeste al Paradiso; il percorso da compiere è ancora lungo, perché le Rime petrose lasciano indovinare il rammarico per un rifiuto categorico della bella sconosciuta, ma senza escludere una sorta di pur difficile comprensione per il significato spirituale che quel rifiuto andava a sottintendere.

Si tratta comunque di un’ulteriore attestazione delle attenzioni molto particolari riservate alla pietra dal sommo Poeta. Ciò, per non dire del celebre «Sasso di Dante» su cui, secondo la tradizione della vecchia Firenze, eternata in una lapide ottocentesca di marmo rosato, si sarebbe soffermato a meditare, osservando i lavori di costruzione della Cattedrale.

I riferimenti «petrosi» che ricorrono nella sua grande opera fanno ulteriormente comprendere come Dante fosse uomo del Medio Evo, ma nello stesso tempo con taluni accenti moderni, o meglio universali, nel momento in cui avverte il problema della fede, del peccato e della trascendenza, comune a tutte le epoche ed a tutti i luoghi e quindi, il bisogno di un riscatto che finisce per rendere viva anche la pietra, elevandola a simbolo di salvezza.

Non ne scaturisce, peraltro, alcun pregiudizio per le simbologie di forte continuità, se non anche di eternità, come quelle che vengono mutuate, rispettivamente, dal mito di Medusa o dalla contemplazione delle pene infernali, tali e tante da lasciare senza fiato. E nello stesso tempo, da ribadire la perenne subalternità del mondo terreno alla sfera dello spirito, in una sorta di «memento» che nell’opera e nella vita di Dante esprime una costante di alto valore poetico, e prima ancora, etico.


Note

1 Un esempio illustre mutuabile dalla poesia tedesca è quello di Goethe, che nelle Elegie Romane pose in evidenza che il marmo si deve ammirare, ma che si può anche «ascoltare», come gli accadeva in occasione delle sue passeggiate nei Fori, quando le pietre gli parlavano delle antiche glorie e dei loro eroi.

2 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, canto XX (46-51), testo critico della Società Dantesca Italiana col commento Scartazziniano rifatto da Giuseppe Vandelli, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1951, pagina 161. Nell’episodio in questione, Aronte, che aveva vaticinato la guerra civile e la vittoria di Cesare, è condannato ad una sorta di allucinante simbiosi con Tiresia, l’ancor più noto indovino cantato da Omero e da Ovidio.

3 Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, canto IX (94-101). La critica è quasi unanime nell’interpretare i tre gradini quale simbolo dei momenti essenziali della Penitenza (contrizione, confessione, opere). Ne emerge, contemporaneamente, una cultura lapidea dantesca di notevole significato, in specie per l’epoca: se non altro nella descrizione delle diverse finiture di superficie ed in quella dei colori.

4 La «Pietra di Bismantova» (aspra roccia già sede di un castello) insiste nel territorio del Comune Reggiano di Castelnuovo e presenta difficoltà alpinistiche di terzo grado. Non a caso, Dante mette in dubbio che la scalata sia normalmente possibile, tanto che «qui convien ch’om voli»: Purgatorio, canto IV (26-27). Ai piedi delle pareti scoscese del massiccio si trova un suggestivo eremo che venne dedicato, non certo casualmente, alla «Madonna della Pietra».

5 Si tratta di due canzoni, di una sestina e di una sestina doppia che sarebbero state composte per questa «Madonna Pietra» il cui nome, sia esso reale o meno, è chiaramente allusivo ad una natura scontrosa e restia all’amore, che «veste sua persona d’un diaspro» e cioè di un’altra pietra durissima come poche, tanto da renderla invulnerabile anche sul piano dei sentimenti (confronta Carlo Salinari-Carlo Ricci, Storia della letteratura italiana, volume I, Editore Laterza, Bari 1972, pagina 292).

(agosto 2016)

Tag: Carlo Cesare Montani, Italia, Medioevo, Dante, pietra e poesia, Divina Commedia, Rime petrose, Ugo Foscolo, Vittorio Alfieri, marmi di Santa Croce, Gabriele d'Annunzio, Alpe di Luni, Pietra di Bismantova, tragedia dell’Esule, Madonna Pietra, Firenze, Sasso di Dante, Castelnuovo, Elegie Romane.