Dante: l’invettiva per l’Italia
La permanente attualità del Sommo Poeta induce riflessioni di prioritaria valenza morale

Il settimo centenario dalla scomparsa di Dante (14 settembre 1321) ha prodotto una lunga serie di analisi della sua grande e multiforme opera, quale arricchimento di una bibliografia plurisecolare, indubbiamente smisurata: perenne testimonianza di una grandezza imperitura. Fra i contributi a carattere monografico ma nello stesso tempo di notevole rilevanza politica anche in chiave attuale, è congruo mettere in luce le nuove esegesi della celebre «invettiva» contenuta nel sesto Canto del Purgatorio, e più specificamente del lamento per la «serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello»[1].

Tali riflessioni muovono dall’alto valore prescrittivo che il Canto di Sordello ebbe nell’età romantica e risorgimentale, anche alla luce di nobili interpretazioni come quelle di Ugo Foscolo e Giuseppe Mazzini, e più tardi, di Giosuè Carducci e Francesco De Sanctis, finalizzate a trovare nel Sommo Poeta gli albori, e poi le conferme di un senso della nazionalità italica che aveva assunto caratteri culturali piuttosto che politici in senso stretto, ma destinati ugualmente a sedimentare nella coscienza collettiva, e quindi, a trovare condivisioni consolidate.

La Patria dantesca, compresa quella più strettamente fiorentina cui sono rivolti gli strali di un umorismo più sottile nell’ultima parte del Canto, aveva assunto una sembianza «fella» alla stregua di guerre costanti tra fazioni cittadine se non anche rionali, con un sistematico tradimento delle antiche glorie, a fronte delle quali non restava altro da fare, se non «vergognarsi» di tutto e per tutto. In queste condizioni, è logico che Dante sognasse un Veltro dai poteri quasi taumaturgici, inteso come un «personaggio autorevole che potesse superare le divisioni e bandire i cattivi comportamenti», ma con una speranza tanto più velleitaria perché i riferimenti storici di prammatica, ormai vecchi di oltre un millennio, non avevano proposto alcun modello positivamente innovativo; anzi, avevano finito per approdare a una lotta senza quartiere tra il potere ecclesiastico e quello civile.

D’altra parte, un Uomo del Medio Evo come Dante, pur avendo intuito la necessità di una distinzione funzionale, non poteva elaborare teorie garantiste che avrebbero avuto bisogno di maturazioni plurisecolari.

L’abbraccio tra Sordello e Virgilio alla luce della comune origine mantovana è la sola concessione che il sesto Canto del Purgatorio lascia a legami d’affetto, se non anche di campanile, perché tutto il resto, in conformità alla logica dell’invettiva, è una serie di «lamentazioni» nei confronti di quanti avevano operato a danno dell’Italia, e infine, soprattutto di Firenze. Proprio per questo, in varie epoche storiche, e segnatamente nel Risorgimento, quando il principio di nazionalità aveva dato spazi crescenti alla maturazione della sensibilità unitaria con impegno conseguente sia in campo politico sia in quello militare, ma senza trascurare quello del giusnaturalismo, il «memento» di Dante, ancor prima delle reminiscenze petrarchesche o leopardiane di analogo segno, per non dire di Ugo Foscolo e di buona parte della letteratura italiana ottocentesca, non ha mancato di ispirare analoghi «pronunciamenti» contro il tradimento, o nella migliore delle ipotesi, contro il disinteresse di intere classi politiche.

Una rilettura dell’invettiva nell’auspicio di rinnovate riflessioni da parte della società contemporanea è cosa buona e giusta, se non altro alla luce di comportamenti politici sempre lontani dall’antica definizione dell’attività di governo come «capacità di operare nel perseguimento del bene comune». «Mutatis mutandis», dal punto di vista di un’etica appartenente alla politica, ancorché governata dall’affermazione della sua autonomia, non è cambiato molto dall’epoca di Dante, tanto più che oggi nessuno può ragionevolmente confidare nell’assunto teleologico dell’Alighieri secondo cui Dio stesso avrebbe potuto essere il demiurgo che non era stato alieno dal promuovere tante sventure come arra di pentimento e di un futuro più giusto, se non anche radioso.

La storia non è maestra di vita, come si era voluto credere nell’antica Grecia, ma onora la verità con le sue testimonianze oggettive. In questo senso, quella limitata agli ultimi 100 anni, con riferimento alle sole vicende del confine orientale (un permanente nervo scoperto) attesta come l’assunto dantesco della «serva Italia» assuma aspetti di tutta evidenza, se non anche di sorprendente attualità. Qualche esempio? Si pensi alla «guerra civile» promossa dal Governo di Giovanni Giolitti contro la Reggenza italiana e dannunziana di Fiume e del Carnaro (1920); all’accettazione di un trattato di pace iniquo e non privo di imposizioni infami come quello seguito al Secondo Conflitto Mondiale (1947); alle gratuite rinunzie non solo territoriali contenute negli Accordi di Osimo (1975) e nelle successive appendici del cosiddetto Osimo bis; alla sostanziale riabilitazione dei terroristi slavi condannati nel 1930, coeva alla surreale «restituzione» del Balkan alla comunità slovena di Trieste (2020). E così via[2].

La ripetizione delle iniquità fa tornare alla mente le «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria che ricorrono con pervicacia nella storia dell’uomo. Nondimeno, la speranza è sempre dietro l’angolo, alla luce della fede manifestata dall’eroico Vescovo di Trieste, Monsignor Antonio Santin nelle tragiche giornate dell’occupazione slava (1945) quando volle rammentare al suo gregge che «le vie dell’iniquità non possono essere eterne». Del resto, nella stessa epoca si era già levata non meno alta e solenne la voce di Benedetto Croce, ad affermare che la linea del possibile «si sposta grandemente» con il supporto della volontà[3], nel presupposto di un diverso impegno civile e morale, e nella matura consapevolezza del Vero e del Giusto.


Note

1 Dante Alighieri, La Divina Commedia, testo critico della Società Dantesca Italiana col commento scartazziniano rifatto da Giuseppe Vandelli, XV Edizione, Ulrico Hoepli Editore, Milano 1951, pagina 349. Per una recente rivisitazione critica dell’episodio, confronta l’edizione speciale del Canto sesto a cura di Alberto Casadei, Garzanti Editore, Milano 2021, 96 pagine.

2 Per un esame più esaustivo delle «disinvolture» che hanno contraddistinto la politica estera italiana (e non solo quella) nelle questioni del confine orientale, si veda: Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia Istria Dalmazia: pensiero e vita morale. Tremila anni di storia – Antologia critica – Cronologia, Aviani & Aviani, Udine 2021, 408 pagine (con ampia bibliografia).

3 L’assunto in questione, mutuato dalla filosofia idealistica italiana del Novecento, trova riferimenti particolarmente esaustivi nel pensiero di Benedetto Croce, e più specificamente in: Storia d’Europa nel secolo decimo nono, VIII edizione, Giuseppe Laterza & Figli, Bari 1953, 364 pagine.

(settembre 2021)

Tag: Carlo Cesare Montani, Dante Alighieri, invettiva per l’Italia, Divina Commedia, Sordello da Goito, Ugo Foscolo, Giuseppe Mazzini, Giosuè Carducci, Francesco De Sanctis, Publio Virgilio Marone, Giovanni Giolitti, Giacomo Leopardi, Monsignor Antonio Santin, Benedetto Croce, Giuseppe Vandelli, Alberto Casadei, Firenze, Grecia, Fiume, Reggenza Italiana del Carnaro, trattato italo-jugoslavo di Osimo, Trieste.