Dante, poeta scurrile: la tenzone con Forese Donati
Un aspetto poco conosciuto dell’opera e della personalità del sommo Poeta

Nell’immaginario popolare, complice anche la scuola coi suoi programmi obsoleti e che lasciano poco o nessuno spazio alla libertà dell’insegnante, Dante viene visto come un poeta «triste» e, come lo definì il Boccaccio, «sempre nella faccia malinconico e pensoso». Niente di più falso: Dante era un «toscanaccio», in fondo, un gaudente che amava bisbocciare con gli amici e comporre versi sentimentali seduto ai tavoli delle osterie fiorentine, alla luce fioca delle candele, un giovane che conosceva il gusto dello scherzo pesante, del doppio senso volgare, della caricatura offensiva. Questo, lungi dallo sminuirlo, lo mostra più completo, più umano, più vicino a noi, un amico con cui si può conversare e magari anche litigare, non una statua assisa su un alto piedistallo, grandiosa ma – in fondo – immobile e muta, senza vita.

La tenzone con Forese Donati è forse l’esempio più famoso del Dante poeta comico[1]. Essa è costituita da tre sonetti di Dante e tre di Forese Donati (cugino della moglie di Dante morto nel 1296 e fratello di Piccarda e di Corso Donati, futuro capo dei Neri, quindi suo avversario politico, anche se a lui legato da una sincera amicizia) che, come vuole il genere della tenzone, si prendono familiarmente in giro e si infamano a vicenda. Lo stile di questi componimenti è basso, ma estremamente ricercato, allusivo ed articolato: i poeti vogliono muovere il lettore al riso senza però cadere nella semplicità e nella facilità di comprensione di un testo composto da un illetterato o da un poeta senza preparazione e competenza.

La tenzone, scritta probabilmente tra il 1293 e il 1296, risale al periodo del cosiddetto «traviamento» di Dante, successivo alla morte di Beatrice e corrispondente ad un periodo di bagordi e amori disordinati (di cui forse lo stesso Forese era compartecipe): da un lato lo scambio di rime doveva avere carattere giocoso e assai meno acre di quanto sembri in apparenza, dall’altro la tenzone si inseriva in una fase di sperimentazione stilistica di Dante che abbandonava i moduli della poesia stilnovista per scrivere versi di carattere «comico-realistico». Dante farà in certo modo la ritrattazione della tenzone nel canto XXIII del Purgatorio, in cui incontra l’anima del defunto Forese tra i golosi attribuendogli parole di affettuoso ricordo verso la moglie Nella, che con le sue preghiere ha abbreviato la sua permanenza nelle cornici sottostanti; Forese aggiunge che Nella è tra le poche donne a comportarsi bene a Firenze, dove il malcostume femminile ha ormai raggiunto livelli insopportabili. Qui i due poeti sono presentati come vecchi amici e senza l’acrimonia mostrata nella tenzone, con Dante che rievoca gli ultimi anni a Firenze come un periodo oscuro e all’origine del peccato che lo farà smarrire nella selva oscura all’inizio del poema.

È Dante ad impugnare la penna per primo, dopo una serata di bagordi con gli amici, tra i quali doveva essere presente lo stesso Forese:

«Chi udisse tossir la mal fatata
moglie di Bicci vocato Forese,
potrebbe dir ch’ell’ha forse vernata
ove si fa ’l cristallo ’n quel paese.
Di mezzo agosto la truovi infreddata;
or sappi che de’ far d’ogn’altro mese!
E no·lle val perché dorma calzata,
merzé del copertoio c’ha cortonese.
La tosse, ’l freddo e l’altra mala voglia
no·ll’adovien per omor’ ch’abbia vecchi,
ma per difetto ch’ella sente al nido.
Piange la madre, c’ha più d’una doglia,
dicendo: “Lassa, che per fichi secchi
messa l’avre’ in casa il conte Guido!”».

Nel sonetto, Dante dice che chi sentisse tossire la sventurata moglie di Forese, detto Bicci, potrebbe dire che forse ha passato l’inverno nel Paese dove si produce il cristallo (che nel Medioevo si pensava nascesse dal ghiaccio, dunque la regione indicata è nell’estremo Nord). Anche a metà agosto la trovi raffreddata – immagina come deve stare in ogni altro mese! E non le serve a molto dormire con le calze, a causa della coperta che è corta (questa è un’allusione oscena all’assenza del marito nel letto; c’è anche un ulteriore gioco di parole con «cortonese», che vale «corto» e «di Cortona», città toscana vicina ad Arezzo, in una regione dove nel XIII-XIV secolo fiorì un’importante industria della lana). La tosse, il freddo e gli altri malanni non le capitano per la sua vecchiaia (gli «omor’ ch’abbia vecchi» sono i liquidi organici che si credevano responsabili delle funzioni vitali, dunque Dante insinua che la donna è avanti con gli anni e, forse per questo, poco attraente agli occhi di Forese), ma per la mancanza che sente nel nido (la già ricordata assenza di Forese dal letto coniugale; potrebbe alludere ad infedeltà coniugali dell’uomo, oppure dall’andare di notte a rubare in casa altrui – nel sonetto Bicci novel della tenzone, Forese è chiamato «piùvico ladron», «ladro matricolato»). La madre di lei piange e ne ha più d’un motivo, mentre dice: «Ahimè, con una dote modesta potevo farle sposare uno dei conti Guidi!» (si allude quasi certamente ad uno dei conti Guidi del Casentino e forse a Guido il Vecchio, fondatore della dinastia e citato da Dante in Paradiso, XVI, 98. La madre di Nella intende dire che con una dote modesta avrebbe procurato alla figlia un ottimo matrimonio, addirittura con una famiglia di antica nobiltà).

La risposta di Forese non si fa attendere troppo:

«L’altra notte mi venn’ una gran tosse,
perch’i’ non avea che tener a dosso;
ma incontanente dì [ed i’] fui mosso
per gir a guadagnar ove che fosse.
Udite la fortuna ove m’adusse:
ch’i’ credetti trovar perle in un bosso
e be’ fiorin’ coniati d’oro rosso,
ed i’ trovai Alaghier tra le fosse
legato a nodo ch’i’ non saccio ’l nome,
se fu di Salamon o d’altro saggio.
Allora mi segna’ verso ’l levante:
e que’ mi disse: “Per amor di Dante,
scio’mi”; ed i’ non potti veder come:
tornai a dietro, e compie’ mi’ viaggio».

All’accusa di essere un ladro e un ghiottone, di trascurare la moglie Nella lasciandola sola nel letto, di appartenere a una famiglia nota per i tradimenti coniugali e le ruberie, di essere povero e oberato di debiti, Forese ribatte accusando il rivale di viltà e di non aver vendicato una imprecisata offesa al padre, ritorcendogli contro l’accusa di povertà miserabile (anche se la sua modestia poetica lascia pochi dubbi su chi sia il vincitore di questo confronto in versi).

Dante controbatte prendendo le mosse proprio dai versi di Forese:

«Ben ti faranno il nodo Salamone,
Bicci novello, e petti delle starne,
ma peggio fia la lonza del castrone,
ché ’l cuoio farà vendetta della carne;
tal che starai più presso a San Simone,
se·ttu non ti procacci de l’andarne:
e ’ntendi che ’l fuggire el mal boccone
sarebbe oramai tardi a ricomprarne.
Ma ben m’è detto che tu sai un’arte,
che, s’egli è vero, tu ti puoi rifare,
però ch’ell’è di molto gran guadagno;
e fa·ssì, a tempo, che tema di carte
non hai, che·tti bisogni scioperare;
ma ben ne colse male a’ fi’ di Stagno».

Nel terzo sonetto della tenzone Dante, ricorrendo allo stile mordace proprio del genere, accusa il rivale per i suoi peccati di gola, alludendo, in modo più o meno esplicito, ai suoi problemi con i debiti e, forse, ai suoi furti. Insinua infatti che a far in gola a Forese (soprannominato Bicci, con l’aggiunta di «novello», «giovane», per differenziarlo dal nonno paterno che aveva identico soprannome) il nodo di Salomone (cioè un intricato sistema di nodi) ci penseranno i petti delle starne (squisita selvaggina) e la lombata. Ma la pelle delle carni mangiate procurerà a Forese un danno anche maggiore del «nodo di Salomone» perché si trasformerà nella carta per le obbligazioni della quale si parlerà al verso 11, a tal punto ch’egli dovrà starsene prigioniero a San Simone (il quartiere fiorentino nel quale si trovava la più importante prigione di Firenze, ma anche sede effettiva della casa del Forese), se non si sbrigherà a darsela a gambe. Lo accusa anche di conoscere un’arte (quella del furto) con la quale può rifarsi, essendo un’attività molto redditizia; così per un po’ può cercare di non avere timore delle obbligazioni, così da non dover interrompere i suoi affari; ma fecero una brutta fine i figli di Stagno (dovrebbe essere una famiglia di ladri, e pure ben conosciuta al tempo se Dante decide di farvi riferimento per indicare – in modo allusivo – le ruberie nelle quali Forese sarebbe solito cimentarsi).

Forese riprende il tema dell’estrema povertà di Dante, mostrandolo a mendicare alla sua porta:

«Va’ rivesti San Gal prima che dichi
parole o motti d’altrui povertate,
ché troppo n’è venuta gran pietate
in questo verno a tutti suoi amichi.
E anco, se tu ci hai per sì mendichi,
perché pur mandi a·nnoi per caritate?
Dal castello Altrafonte ha’ ta’ grembiate,
ch’io saccio ben che tu te ne nutrichi.
Ma ben ti lecerà il lavorare,
se Dio ti salvi la Tana e ’l Francesco,
che col Belluzzo tu non stia in brigata.
Allo spedale a Pinti ha’ riparare;
e già mi par vedere stare a desco,
ed in terzo, Alighier co·lla farsata».

Gli ultimi due sonetti presentano il tema della dubbia legittimità di nascita del Donati e, al contrario, della certezza di quella di Dante, ma anche della stessa incapacità di compiere una vendetta per conto del padre. Ecco la risposta di Dante:

«Bicci novel, figliuol di non so cui
(s’i’ non ne domandassi monna Tessa),
giù per la gola tanta rob’ hai messa,
ch’a forza ti convien tôrre l’altrui.
E già la gente si guarda da·llui,
chi ha borsa a·llato, là dov’e’ s’appressa,
dicendo: “Questi c’ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli atti sui”.
E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che gli apartien quanto Giosep a Cristo.
Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del mal acquisto
sann’ a lor donne buon’ cognati stare».

Dante insinua di non sapere di quale padre sia figlio Forese, a meno che non lo chieda alla di lui madre, Tessa; Bicci ha ficcato tanto cibo attraverso la gola, che gli è necessario rubare con la violenza ciò che appartiene agli altri. Già nei primi quattro versi sono concentrate tre accuse infamanti: quella di essere figlio di padre ignoto; quella di una smodata propensione alla gola (Forese sarà collocato da Dante, nel Purgatorio, proprio tra i golosi); quella di essere un ladro. Già tutti hanno paura di lui, prosegue, almeno chi porta al fianco una borsa, nei luoghi a cui egli si avvicina, e dice: «Costui, che ha la faccia sfregiata, è ladro pubblicamente conosciuto per le sue azioni». All’accusa di essere un ladro matricolato si aggiunge un particolare fisico degradante: la faccia sfregiata, presumibilmente a seguito di qualche azione criminosa. Prosegue citando un uomo (Simone Donati, padre – a quanto pare solo anagrafico – di Forese) che giace a letto, preoccupato a causa sua, per paura che sia arrestato mentre ruba; un uomo che è suo padre quanto San Giuseppe è padre di Gesù Cristo. Si insiste qui sul disordine coniugale della famiglia Donati (il verso «giace per lui nel letto tristo» sembra anche un’allusione all’impotenza sessuale del padre) e si ribadisce l’affermazione che Bicci è un noto ladro. Di Bicci e dei fratelli, conclude, può raccontare che, a causa dell’appartenenza alla loro stirpe disonesta (i due fratelli di Bicci, Corso e Sinibaldo, secondo il cronista Giovanni Villani erano noti per le loro ruberie e «per motto erano chiamati Malefami»; Corso era anche il capo dei Guelfi Neri), accettano di essere buoni cognati delle loro mogli. L’interpretazione non è semplice. Potrebbe significare che Bicci e i suoi fratelli non sono in grado di adempiere gli obblighi coniugali, e quindi si accostano alle mogli con una castità che sarebbe degna di cognati, non di mariti. Ma potrebbe anche voler dire che il disordine sessuale da cui è segnata la stirpe di Bicci (rappresentata dagli innumerevoli tradimenti di donna Tessa) si trasmette quasi ereditariamente allo stesso Bicci ed ai suoi fratelli. Ciascuno di loro, pertanto, accetta di buon grado di essere cognato della propria moglie; il che implica che ognuna delle mogli di casa Donati abbia come amante un altro dei fratelli.

L’ultima parola spetta a Forese:

«Ben so che fosti figliuol d’Allaghieri,
e acorgomene pur a la vendetta
che facesti di lu’ sì bella e netta
de l’aguglin ched e’ cambiò l’altr’ieri.
Se tagliato n’avess’ uno a quartieri,
di pace non dove’ aver tal fretta;
ma tu ha’ poi sì piena la bonetta,
che no·lla porterebber duo somieri.
Buon uso ci ha’ recato, ben ti ·l dico,
che qual ti carica ben di bastone,
colu’ ha’ per fratello e per amico.
Il nome ti direi delle persone
che v’hanno posto sù; ma del panico
mi reca, ch’i’ vo’ metter la ragione».

Non dobbiamo immaginare che Dante e Forese, una volta incontratisi dopo questo brioso scambio di improperi, si siano scambiati una selva di legnate. I sonetti non devono essere presi alla lettera: le virulente accuse contro Forese Donati rispondono ai canoni della poesia comico-realistica, in una «tenzone» in cui nessuno dei contendenti risparmia all’altro attacchi osceni o salaci. La moglie di Forese è sempre raffreddata, perché il marito non è capace di «coprirla»; Forese, oltre che impotente, è pure goloso e ladro... Dante forza le situazioni all’estremo: il peccato della gola è esagerato al punto che, per soddisfare il suo vizio, Bicci è costretto a diventare un bandito; esagerata è pure la descrizione del disordine sessuale che regna dentro la famiglia di Bicci, dove la madre, donna Tessa, è talmente infedele al marito che risulterebbe impossibile, senza la sua testimonianza, capire di chi Bicci sia figlio, e dove l’infedeltà coniugale (o forse l’impotenza) sembra, tra i fratelli di Bicci, una regola talmente diffusa che, all’interno della famiglia, è praticamente impossibile distinguere tra il ruolo di marito e quello di cognato... Non dobbiamo vedere espressi in questi sonetti dei veri risentimenti: tutta la tenzone tra Dante e Forese è una specie di circolo vizioso, un susseguirsi di ingiurie reciproche replicabili all’infinito; ciascuno prende l’occasione dall’accusa dell’altro per sviluppare la propria invettiva, ma senza entrare nel merito delle accuse ricevute e, quindi, senza confutare gli attacchi dell’avversario. Una poesia, insomma, che non sembra riflettere il clima storico-sociale del proprio tempo, ma che fa riferimento esclusivo a una cerchia di raffinati intellettuali, legati l’uno all’altro dal vincolo dell’amicizia!


Nota

1 Lo stile «comico» o «umile», ovvero «dimesso», «semplice», utilizza un linguaggio basso e popolare, racconta situazioni quotidiane e preferisce, come forma metrica, il sonetto. Tuttavia, il «comico» medievale aveva un influsso ben più esteso di quanto si potrebbe oggi immaginare: si pensi ad esempio al carnevale, festa popolare in cui ognuno era libero di essere altro da quello che era, di mascherarsi, di travestirsi e di rendersi irriconoscibile ed aver quindi anche la possibilità di fare ciò che nella vita quotidiana non gli era consentito. Una festa simile era la «fête des folles», la «festa dei folli», caratterizzata dal ribaltamento sociale e dalla possibilità di manifestare apertamente la propria opinione, le proprie idee in merito al potere, al clero, alla società ed alla vita. Il comico e il ridere in queste occasioni era quindi un riso dissacrante: esso scaturiva nel momento in cui, appunto, si rideva di ciò che non si voleva diventare o di ciò da cui ci si voleva tener lontani. La poesia comica diffusasi in Toscana nel Duecento era in opposizione a quella dei poeti siciliani e degli Stilnovisti, con l’obiettivo di crearne il rovescio e la dissacrante parodia. Anche varie parti della Commedia sono volutamente scritte con un stile tendente al basso, adeguato al contesto affrontato.

(settembre 2016)

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