Angioini e Aragonesi in Italia
Gli anni che intercorrono tra la fine del Duecento e la metà del Quattrocento furono caratterizzati in Italia Meridionale da una serie di guerre che prostrarono la popolazione. Saranno anche gli anni che porteranno al sorgere di quella che, in futuro, diverrà la mafia

Sicilia, ultimo quarto del XIII secolo. Carlo d’Angiò domina su tutta l’Italia Meridionale. Ha avuto tutte le carte in regola per diventare un grande Sovrano: suo fratello è Re di Francia e gli protegge le spalle; a Roma molti Cardinali sono Francesi, e Francese è lo stesso Papa, Clemente IV; molti signori italiani lo hanno applaudito quando è sceso per la prima volta in Italia. Ma lui non ha saputo avvalersi di questa situazione così favorevole, non ha fatto del suo territorio un Regno ammirato, non ha governato saggiamente. Ha formulato piani ambiziosissimi: succedere a Federico II come Imperatore, dominare il Papato attraverso la nomina di Papi e Cardinali Francesi, far ereditare a suo figlio il trono di Gerusalemme, che compra da Maria di Antiochia con mille once d’oro e una rendita vitalizia di 4.000 livres tornesi. Ovviamente, per realizzare un simile progetto politico, Carlo d’Angiò ha bisogno di grossi capitali, e perciò tassa senza pietà i contadini napoletani e siciliani; migliaia di esattori riscuotono le tasse, e a chi non ha da pagare vengono confiscati il bestiame e i terreni, oppure si aprono le porte delle prigioni. Il Re si disinteressa dei sudditi, svuota le casse dello Stato per armare l’esercito, e in pochi anni non rimane più un soldo. Instaura un regime assolutista che non tiene conto dei legittimi desideri di autonomia della nobiltà e delle autorità locali: a differenza dei Re Normanni, che hanno affidato agli Italiani le cariche più importanti del governo, Carlo ha chiamato alla sua corte molti Francesi. Oltre a questo, ferisce l’amor proprio dei Siciliani e attira su di sé il loro disprezzo trasferendo la capitale del Regno da Palermo a Napoli. Insomma, fa un cumulo di errori. E gli errori, prima o poi, si pagano.

È il 31 marzo del 1282. A Palermo è una bellissima giornata di sole; le famiglie si recano a Messa per le funzioni del Lunedì di Pasqua mentre da tutte le chiese si diffonde il suono delle campane. Un soldato francese, certo Douet, che sta seduto su un muretto presso la chiesa di Santo Spirito, si mette a fissare una donna che passeggia a braccio del marito; ritiene che tutto gli sia lecito perché fa parte della carovana dei dominatori, e pretende di perquisirla. Allunga le mani. Il marito, offeso, reagisce, si arriva ad un violento diverbio, poi ad una rissa. Il Palermitano strappa la spada al Francese e lo trafigge, uccidendolo. È come se a una polveriera avessero avvicinato una fiamma.

In un baleno scoppia la rivolta. Le vie di Palermo sono invase da una folla rabbiosa che urla «Mora, mora!»; popolo minuto e nobiltà si trovano l’uno a fianco dell’altra nella lotta contro la «mala signoria» angioina. Le strade si riempiono di cadaveri. I Francesi si rifugiano nelle caserme, ma queste sono espugnate. Al suono delle campane, la rivolta si propaga per tutta la Sicilia, e i Francesi sono ributtati in mare; 3.000 di loro non torneranno più in patria. A questa rivolta viene dato un nome: i «Vespri Siciliani» (cioè, i «pomeriggi siciliani»), perché scoppiata all’ora del vespro (tardo pomeriggio); viene ricordata anche nel nostro inno nazionale, dove si canta che «il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò»[1].

(Piccolo inciso: la rivolta dei Siciliani contro i Tedeschi, durante la Seconda Guerra Mondiale, si svolge nello stesso identico modo: tentativo di stupro di una ragazza, reazione del parentado della vittima, sollevazione popolare e cacciata dello straniero. Certe cose non cambiano mai: per questo serve studiare la storia!).

Rivolta dei Vespri Siciliani

Francesco Hayez, Vespri Siciliani, 1821-1822

Tanta è l’avversione verso i Francesi, che i Siciliani squarciano a colpi di spada i ventri delle Siciliane incinte da soldati ed ufficiali angioini e ne calpestano orrendamente i feti. Turbe solitamente devote invadono chiese e conventi, ammazzano monaci e preti francesi senza alcun rispetto per l’abito dei religiosi.

Carlo d’Angiò torna in Sicilia con un potente esercito, per sottomettere nuovamente l’isola e renderla «completamente distrutta, spopolata e sterile». I Siciliani combattono valorosamente sotto la guida di Giovanni da Procida e Ruggero di Laurìa, tornati dall’esilio. Ma sanno di non poter vincere da soli, e chiedono aiuto a Pietro III il Grande, Re di Aragona (Spagna). Questi – che vanta dei diritti sull’isola per aver sposato Costanza, figlia di Manfredi di Svevia – nel settembre dello stesso anno accorre con la sua flotta; due sconfitte navali presso Malta e nel Golfo di Napoli (1284) pregiudicano subito la causa degli Angiò: lo stesso Ammiraglio, il principe ereditario Carlo lo Zoppo, preso prigioniero, verrà liberato soltanto nel 1288, tre anni dopo la morte del padre. Pietro III sbarca a Messina e a Palermo riceve la corona di Re di Sicilia. L’Italia Meridionale viene spezzata in due tronconi: la Sicilia che passa agli Aragona, e le altre regioni che restano a Carlo d’Angiò.

I protagonisti, Carlo e Pietro il Grande, muoiono. Vengono incoronati i successori e si va avanti fra un susseguirsi di battaglie, sbarchi e agguati. Si cambiano le alleanze, e si arriva al punto che gli Aragonesi di Spagna combatteranno a fianco degli Angiò contro gli Aragonesi di Sicilia; in uno scontro navale presso le coste calabresi, Ruggero di Laurìa salta dalla propria nave ammiraglia su quella degli Angioini per guidarli contro i suoi e sconfiggerli a Capo d’Orlando: 6.000 Siciliani muoiono senza più capire chi sia il loro comandante e chi il nemico. Solo nel 1302 sembra venire un periodo di pace. A Caltabellotta si firma un accordo: esso prevede che alla morte dell’erede d’Aragona tutto torni agli Angiò. Ma questi patti non verranno mai mantenuti: la Sicilia resterà ancora divisa da Napoli, e per secoli gli eserciti stranieri correranno in questa parte d’Italia. Nel Mediterraneo si affaccia, con Pietro d’Aragona, una nuova potenza: la Spagna.


Il potere dei baroni

A Napoli, i primi successori di Carlo d’Angiò, cioè Carlo II e Roberto d’Angiò, si dimostrano buoni Sovrani: allontanano dalla corte i Francesi e governano il Paese con l’aiuto dei nobili locali. Purtroppo alla morte di Roberto d’Angiò, nel 1343, comincia un lungo periodo di guerre e di disordini che porta il Regno a cadere, nel 1442, sotto gli Aragonesi (che già nel 1420 si sono impadroniti della Sardegna).

Il conquistatore di Napoli e di tutta l’Italia Meridionale è Alfonso V d’Aragona; sotto il suo Regno, durato sedici anni, vengono domate le rivolte dei baroni e soffocati i tentativi di riconquista degli ultimi Angioini. Egli entra trionfalmente nella città partenopea su di un carro dorato, dietro il quale sono i comandanti dell’esercito vincitore e il clero. Le vie sono tutte pavesate di bandiere e di drappi e il popolo napoletano acclama gioiosamente il vincitore. A ricordo di questo solenne avvenimento, Alfonso d’Aragona fa costruire all’ingresso della fortezza angioina di Castel Nuovo a Napoli un magnifico arco di trionfo, che spicca bianco contro il rosa-arancione delle mura e rimane tutt’oggi uno dei più bei monumenti della città.

Il governo di Alfonso d’Aragona è molto saggio ed illuminato, tanto che i poeti e gli umanisti italiani e spagnoli, che egli riunisce nella sua corte di Napoli, gli danno il titolo di «Magnanimo».

Purtroppo, presto la prepotenza dei baroni, nobili altezzosi e ribelli, provocherà guerre, lotte e vendette che impoveriranno il Paese. Questo perché mentre, dal Trecento al Cinquecento, nell’Italia Settentrionale e Centrale i Comuni si trasformano in Signorie e successivamente in Principati, che aumentano col passare degli anni la loro ricchezza e la loro potenza, nell’Italia Meridionale e nella Sicilia la dominazione degli Angioini e poi degli Aragonesi tiene unito tutto il territorio, ma favorisce il persistere del feudalesimo che mantiene in uno stato di grande arretratezza questa parte d’Italia.

Nelle regioni settentrionali i nobili sono diventati banchieri o commercianti o agricoltori e badano a conservare le loro ricchezze soprattutto col lavoro; anche il popolo quindi gode di benessere perché prosperano l’agricoltura, l’artigianato, le arti ed i commerci.

Al contrario, nell’Italia Meridionale i baroni non si occupano di nulla e passano le loro giornate oziosamente a discutere ed a giocare. Ritengono offensivo per la loro dignità occuparsi di traffici e di lavoro; dicono che la loro occupazione deve consistere esclusivamente nel prestare servizio al Re. In realtà, non si curano nemmeno di questo. Ritengono invece naturale ricevere dei tributi dal popolo ed in questo sono anzi molto esigenti. Il popolo deve lavorare, ma soprattutto pagare i tributi ai baroni e soggiacere ai loro capricci ed alle loro prepotenze. Finché è possibile, cioè fino a quando sul trono siedono dei buoni Sovrani, il popolo si può appellare al Re, ed i primi Re Angioini dopo Carlo d’Angiò ed il Re Aragonese Alfonso il Magnanimo aiutano il popolo con delle buone leggi. Ma i Sovrani successivi sono troppo deboli e troppo preoccupati di difendersi dai vari pretendenti al potere che spesso sconvolgono il Paese con guerre o ribellioni. Questi Re sono quindi costretti a trascurare i sudditi e ad accaparrarsi la fedeltà dei baroni concedendo loro sempre maggiori privilegi e libertà di sfruttamento del popolo.

I nobili meridionali sono inoltre spesso in contrasto fra di loro ed il Paese è continuamente devastato da lotte e da congiure. Alcuni di essi organizzano addirittura bande di briganti che percorrono strade e paesi rapinando ed uccidendo.

Questa è anche la genesi della mafia, introdotta dagli Arabi in funzione anti-normanna e che proprio in quest’epoca assume una ben precisa fisionomia. Chi è il mafioso? È semplicemente il feudatario, il barone; il sistema mafioso è il sistema feudale nell’epoca sbagliata. Il feudatario chiede ai sudditi una parte della ricchezza da loro prodotta (tramite tasse e tributi) in cambio della protezione in caso di guerra; il mafioso offre (o, meglio, impone) la sua «protezione» in cambio del pagamento di un tributo. È ciò che si chiama «estorsione». Il mafioso non rovina le persone (imprenditori, commercianti) che prende di mira, non chiede più di quanto sa che essi possono pagare: gettarli sul lastrico, non farebbe altro che fargli perdere delle possibili entrate (a meno che essi non vogliano più pagare). Di più, si sostituisce allo Stato, imponendo le sue tasse in aggiunta a quelle dello Stato. Per questo è così difficile sradicare la mafia: non è altro che uno Stato dentro lo Stato, con le sue milizie (sicari prezzolati), le sue leggi e regole, una serie di persone che si piegano alle prepotenze o per paura (lo Stato viene visto lontano, una macchina lenta, mentre il mafioso è vicino, può intervenire quando vuole), o per viltà, o perché si è realmente convinti che, fra i mali, la mafia è quello minore, e in fondo in fondo ti offre aiuto se sei nei guai (contro la piccola criminalità). In un certo senso, ti fa sentire sicuro. La mafia, dopotutto, ti lascia il minimo per sopravvivere. Solo il minimo, è chiaro: ma per qualcuno può essere abbastanza. Solamente in questi ultimi tempi i giovani del Sud cominciano a ribellarsi ai soprusi, a voler essere loro gli artefici e i protagonisti del proprio destino.

Ma torniamo al Medioevo. La sola risorsa del popolo è l’agricoltura. Esercitare il commercio o l’artigianato è quasi impossibile per le troppe tasse e soperchierie dei signori: per molti secoli i soli mercanti in Italia Meridionale saranno i Veneziani, i Toscani e i Lombardi.

La stessa agricoltura non dà buoni redditi perché i signori, gli unici che possiedono denaro, non fanno nessuna spesa per migliorare le terre, per portare l’acqua nelle zone aride, per acquistare attrezzi, sementi e bestiame. I contadini si accontentano di quanto possono raccogliere, se l’annata è buona e se piove abbastanza. In ogni caso il meglio dei prodotti della terra deve essere consegnato al barone, che aspetta nel suo castello il tributo e l’omaggio del popolo. Così, mentre l’Italia Settentrionale si sviluppa e progredisce, l’Italia Meridionale ristagna nell’immobilità e nell’arretratezza. Le conseguenze sono ancor oggi a tutti visibili!


Nota

1 Le cause profonde della rivolta dei Vespri Siciliani sono da ricercare nella politica fiscale del governo e nelle trame di un partito che voleva cacciare gli Angiò per dare il trono di Sicilia a Pietro III d’Aragona. Il gusto neo-medievale della cultura europea dell’Ottocento e quei patrioti italiani che cercavano nel passato le radici dell’unità nazionale la trasformarono però ben presto in una storia «risorgimentale»: uno storico siciliano, Michele Amari, pubblicò nel 1842 La storia del Vespro siciliano, in cui cercò di dimostrare che la rivolta era stata un moto rivoluzionario nazional-popolare, il segno di un indistruttibile desiderio d’indipendenza (forse anche per questo sosteneva che le donne siciliane portavano ai combattenti piatti di polenta, pietanza certo sostanziosa, ma più tipica del Veneto che dell’isola, quasi a simboleggiare una sorta d’unione fra il Nord e il Sud Italia). Nel clima che precedette i moti del 1848, questa tesi divenne pressoché universalmente condivisa. Unica eccezione, quella di Giuseppe Verdi: in una lettera scritta al signor Crosnier, direttore dell’Opéra, si lamentava che il nobile Giovanni da Procida, tornato in patria per combattere gli Angioini, venisse presentato da Scribe (il librettista dell’opera Vespri siciliani) come un comune cospiratore armato di pugnale; ma non gli piaceva neppure che i Francesi apparissero agli occhi degli spettatori come un’incarnazione del male. Non avrebbe potuto comunque immaginare che l’edizione dei Vespri siciliani rappresentata al Regio di Torino in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia venisse infarcita di riferimenti alla mafia, al terrorismo ed all’attualità politica che nulla hanno a che vedere con la storia o con la buona musica…

(luglio 2013)

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