Un ventennio di rapporti fra Italia e Jugoslavia nel segno di competizione e cooperazione
1920-1940

I rapporti fra l’Italia e la Jugoslavia sono stati improntati, sin dalla costituzione del nuovo Stato Balcanico avvenuta alla fine della Grande Guerra, da oscillazioni politiche e diplomatiche i cui effetti sono stati importanti, sia nel breve sia nel medio e lungo periodo. Il ventennio antecedente il Secondo Conflitto Mondiale è contraddistinto, nella fattispecie, da un’alternanza accentuata fra momenti di tensione e di buon vicinato, sulle cui evoluzioni la ricerca storiografica è tuttora lungi dall’essere stata veramente esaustiva.

Si tratta di un limite comprensibile, vista l’importanza degli eventi di grande rilievo mediatico occorsi all’inizio degli anni Venti, e poi degli anni Quaranta: da una parte, la «Vittoria mutilata» (a tutto vantaggio della nuova Jugoslavia costituita a Versailles quale Regno degli Slavi del Sud sorto sulle ceneri austro-ungariche) e l’Impresa dannunziana di Fiume che ne fu immediata ancorché imprevista conseguenza; dall’altra, il colpo di Stato con cui, nella primavera del 1941, Belgrado decise di passare improvvisamente dalla parte degli Alleati, revocando l’adesione al patto di amicizia del 1937 e provocando l’intervento dell’Asse, con una cesura radicale che avrebbe avuto effetti drammatici e irreversibili.

Al riguardo, è congruo porre in evidenza che quegli eventi del primo dopoguerra e del conflitto con la Jugoslavia sono stati oggetto di valutazioni storiografiche spesso riduttive e generalmente parziali, perché parecchie vulgate sono aliene dal prendere nel giusto esame la posizione italiana nell’una e nell’altra circostanza. In effetti, la «Vittoria mutilata» introduceva varianti assai peggiorative rispetto alle statuizioni del Patto di Londra con l’Intesa (26 aprile 1915) mentre il voltafaccia di Belgrado compiutosi nel marzo 1941 conferiva alle forze dell’Asse (Germania, Italia, Bulgaria e Ungheria) una giustificazione inoppugnabile dell’intervento militare contro la Jugoslavia, a fronte di esigenze strategiche e tattiche di tutta evidenza.

Vale la pena di approfondire la storia del ventennio compreso fra il 1920 e il 1940 attraverso i fatti salienti che accaddero nelle relazioni fra Italia e Jugoslavia, e le matrici da cui scaturirono: se non altro, per elidere un’altra vulgata approssimativa, oltre che imprecisa, secondo cui il grande trauma dell’Esodo e delle Foibe, sopravvenuto tra il 1943 e il 1947 coinvolgendo anche un ampio periodo di pace, avrebbe avuto quali cause prioritarie il trattamento iniquo subito da parte jugoslava dal primo dopoguerra in poi per iniziativa dell’Italia fascista, e in misura apprezzabile, anche di quella liberale.

Tutto aveva avuto inizio col trattato di pace del 1919 e la creazione del nuovo Stato Jugoslavo, cui furono sacrificate quasi integralmente le citate statuizioni del Patto di Londra firmato alla vigilia dell’entrata italiana in guerra, con specifico riguardo a buona parte della Dalmazia. Ciò, senza dire delle attese di Fiume alla stregua del principio di autodeterminazione dei popoli invocato dal Consiglio comunale della città liburnica già dal 30 ottobre 1918, e suffragato, in deroga alle suddette statuizioni di Londra, dal fatto che nel 1915 non si era prevista la totale fagocitazione dell’Impero Asburgico ed era stato ipotizzato, per il nuovo assetto europeo, un ruolo della stessa Fiume quale sbocco ungherese sull’Adriatico.

Il nuovo assetto internazionale apparve una forzatura a danno dell’Italia che scontava negativamente le incertezze della propria diplomazia e i problemi di un difficile equilibrio politico interno. Le forze politiche d’impronta nazionale raccolsero il «grido di dolore» proveniente dal Carnaro rifiutando il disegno di uno Stato Libero in funzione di semplice cuscinetto e diedero inizio alla lunga pagina iniziata il 12 settembre 1919 con la Marcia di Ronchi, proseguita un anno dopo con la proclamazione della Reggenza e conclusa col celebre Natale di Sangue alla fine del 1920, quando il Governo di Giovanni Giolitti decise di risolvere con la forza un problema diventato politicamente insolubile grazie al Trattato di Rapallo del 12 novembre, che era sembrato chiudere ogni contenzioso con la Jugoslavia codificando l’improbabile «indipendenza» fiumana, ma che aveva lasciato aperto un «vulnus» ormai incancellabile dalla coscienza di tanti Italiani.

I mesi che seguirono furono improntati a un elevato grado d’incertezza e instabilità. All’inizio del 1921 il Parlamento Italiano provvide alla ratifica del nuovo trattato, ma nel marzo dell’anno successivo, anche a seguito delle difficoltà economiche con cui lo Stato di Fiume, formalmente indipendente e presieduto dal leader autonomista Riccardo Zanella, si era dovuto confrontare, sopraggiunse il colpo di Stato che vide il passaggio dei poteri nelle mani di un Comitato di Difesa Nazionale. Il 23 ottobre 1922 Italia e Jugoslavia confermarono lo «status» della città capoluogo del Carnaro, destinato a essere posto nuovamente in discussione dopo la Marcia su Roma della settimana successiva e l’avvento del nuovo Governo di Benito Mussolini, che pose in evidenza la sua propensione realistica nell’incidente italo-greco di Joannina, e che il 27 gennaio 1924 – con il Trattato di Roma che lasciava alla Jugoslavia il sobborgo di Susak e le altre zone oltre l’Eneo con particolare riguardo strategico a Porto Baross – chiuse la questione di Fiume con il suo sofferto trasferimento alla Madrepatria.

Parve avere inizio un periodo di auspicata e condivisa distensione, tanto più che nel 1925 i due Paesi siglarono la Convenzione integrativa di Nettuno con cui si regolavano dettagliatamente diversi problemi specifici come il traffico frontaliero, il regime della pesca e i diritti delle minoranze. Il buon vicinato ebbe vita comunque ardua, in primo luogo per le opposizioni del giovane oltranzismo jugoslavo, evidenziato in quello stesso anno dall’uccisione in Istria di due carabinieri per opera del movimento terroristico di «Orjuna» e dall’assoluzione dei responsabili nel successivo processo celebrato a Lubiana; dalle manifestazioni croate e slovene contro le crescenti simpatie filo-italiane di parte serba; e soprattutto, dalla mancata ratifica jugoslava del Trattato di Roma e della Convenzione di Nettuno, tra le cui motivazioni, peraltro impertinenti, si volle richiamare il nuovo protettorato italiano sull’Albania, statuito nel novembre 1926.

Con il Regio Decreto 7 aprile 1927, il Governo di Roma decise di promulgare lo strumento formale per «italianizzare» la toponomastica della Venezia Giulia e dell’Istria, e soprattutto i cognomi, su cui molto inchiostro sarebbe stato versato in tempi successivi quale manifestazione di una presunta volontà persecutoria che in realtà non esisteva, perché parecchi di quei cognomi erano stati «slavizzati» in epoca asburgica, senza dire che la richiesta da parte degli aventi causa rimase facoltativa, anche se naturalmente «consigliata». A ogni modo, la cosiddetta «italianizzazione» fu scelta da un’ampia maggioranza dei cittadini, pur nella persistenza di fondati timori per le frequenti azioni dell’irredentismo slavo.

Gli anni successivi furono assai difficili a causa del crescente impegno anti italiano della stessa «Orjuna» e dell’altra organizzazione terroristica che si era autonominata con la sigla «TIGR» quale acronimo mutuato dalle iniziali delle località che la propaganda jugoslava considerava «irredente»: Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka (nome croato di Fiume). Lo stillicidio degli atti compiuti a danno della presenza italiana non ebbe soluzioni di continuità.

In particolare, l’attentato che ebbe luogo a Pisino nel 1929 fu seguito dal processo e dalla condanna a morte di Vladimir Gortan. Un anno dopo, a seguito di quelli al Faro della Vittoria e al «Popolo di Trieste» in cui cadde il giornalista Guido Neri, si tenne un secondo processo a circa 90 imputati appartenenti ai citati gruppi terroristi, chiuso con quattro condanne a morte eseguite in settembre nel poligono di Basovizza (le sole, assieme a quella del medesimo Gortan, pronunciate a carico della minoranza slava dal Tribunale Speciale nel ventennio compreso tra il 1920 e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale).

Le predette azioni di matrice slava non ebbero carattere casuale, ma furono adeguatamente coordinate e organizzate. Già nella seconda metà degli anni Venti quelle compiute dalle citate associazioni clandestine – cui si era unita «Borba» – erano state un centinaio, mentre nel 1931 il «Corriere della Sera» del 4 aprile poteva parlare senza mezzi termini di un vero e proprio stato di guerra, suffragato poco dopo dalla nascita dell’Unione Emigranti Jugoslavi dalla Venezia Giulia. Al riguardo giova aggiungere che, secondo valutazioni di parte non italiana, furono circa 30.000 i fuorusciti nel corso dell’intero ventennio: per la maggior parte, a seguito del trattato di pace stipulato nel 1919, della guerra italo-etiopica del 1935 con lo scopo di evitare la mobilitazione, e infine, del conflitto italo-jugoslavo scoppiato nell’aprile 1941 a seguito del voltafaccia di Belgrado.

Contestualmente, l’Italia fascista ospitava il leader separatista croato Ante Pavelic assieme ai suoi volontari «ustascia», in numero che avrebbe raggiunto un massimo di 400 unità, e nel 1934 si registravano i primi contatti clandestini fra esponenti del comunismo italiano e di quello jugoslavo, che ebbero un seguito di particolare rilevanza nel corso della Seconda Guerra Mondiale e delle vicende immediatamente successive, sotto l’egida di Tito. Nello stesso 1934, tra l’altro, si svolse a Maribor il primo Congresso dell’Unione Emigranti Jugoslavi, chiuso con una dichiarazione solenne riguardante il suo obiettivo prioritario: staccare la Venezia Giulia dall’Italia. Intanto, il difficile panorama del momento trovava una nuova espressione icastica nell’attentato «ustascia» di Marsiglia in cui furono uccisi il Sovrano Jugoslavo Alessandro e il Ministro degli Esteri Francese Louis Barthou; e nella morte del Cancelliere Austriaco Dollfuss.

Era oggettivamente difficile pensare a una politica sistematica di buon vicinato, ma l’isolamento dell’Italia a seguito della conquista etiopica, bilanciato parzialmente dall’avvicinamento al Reich, che peraltro non faceva mistero delle sue mire sud-orientali poi tradotte nell’Anschluss del 1938 e dopo il 1943 nella costituzione del cosiddetto Litorale Adriatico, costituì la matrice di una nuova «entente cordiale» formalizzata il 25 luglio 1937 nel patto siglato dal Presidente Jugoslavo Milan Stojadinovic e dal Ministro degli Esteri Italiano Galeazzo Ciano.

Con questa intesa, le relazioni fra l’Italia e la Jugoslavia entrarono nella fase migliore del ventennio: diversamente da quanto era accaduto all’epoca della Convenzione di Nettuno, attenta anche a questioni di rilevanza secondaria se non anche marginali, il problema territoriale aveva perduto le attenzioni prioritarie di cui era stato oggetto nella lunga vicenda post-bellica, e le affinità politiche tra Roma e Belgrado che erano venute maturando avevano contribuito a un avvicinamento di sostanza, anche a prescindere dai contributi derivanti dalla congiuntura diplomatica internazionale. Le conseguenze mediate del patto non si fecero attendere: tra le più notevoli si possono ricordare l’amnistia italiana a condannati sloveni e croati per reati di terrorismo; qualche ripresa della stampa slovena in Venezia Giulia; un impulso al traffico frontaliero che rispondeva a comuni esigenze di sviluppo commerciale; la smobilitazione delle strutture «ustascia» in Italia, completata dal trasferimento di alcuni loro maggiorenti nel confino di Lipari.

L’accordo stipulato da Ciano e Stojadinovic fu di durata piuttosto breve (sebbene non effimera) perché il Primo Ministro Jugoslavo, che nel 1938 era stato protagonista di un importante avvicinamento al Vaticano ancorché osteggiato dall’opposizione serbo-ortodossa, e che più tardi avrebbe dovuto affrontare un lunghissimo esilio, dapprima a Mauritius e poi nell’America Latina (dove ebbe rapporti non marginali con Ante Pavelic pensando a un’azione anticomunista in Jugoslavia rimasta a livello ipotetico), venne «dimissionato» nel 1939 e sostituito con Cvektovic. Tuttavia, l’intesa avrebbe potuto conservare effetti a più lungo termine, qualora non fosse stata azzerata dal citato colpo di Stato del marzo 1941 e dalla fine della neutralità jugoslava.

Il patto del 1937 permise di conseguire un altro effetto importante nell’affievolimento delle pregiudiziali irredentiste croate e slovene e nell’abbattimento delle azioni terroristiche, dimostrando che la politica di un’efficace cooperazione è generalmente suscettibile di risultati positivi. È logico che la storia non possa tenere conto di semplici supposizioni, ma non è infondato presumere che qualora il Governo Stojadinovic avesse potuto perseguire il suo programma di politica estera a più lungo termine, molto sarebbe cambiato nella vicenda del confine orientale italiano e nel tragico epilogo dell’Esodo e delle Foibe.

In ultima analisi, ciò che accadde nel ventennio attesta che da parte dell’Italia non è esistita, diversamente da quanto è stato asserito più volte in campo storiografico, una forte volontà persecutoria delle comunità slovena e croata, mentre sull’altro fronte la politica di buon vicinato fu compromessa da ricorrenti conati separatisti e dagli attentati di cui si diceva, nell’ambito di un’interpretazione massimalista del principio di nazionalità tanto meno condivisibile alla luce dei programmi di sviluppo economico della Venezia Giulia e dell’Istria perseguiti dal Governo di Roma nel sostanziale, comune interesse della maggioranza italiana e della minoranza slava.

(novembre 2021)

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