Ventennio fascista e storiografia estera
Un giudizio dello storico ungherese Mihaly Vajda per le grandi bonifiche italiane (1976)

Qualche segno di convergenza in ambito europeo a proposito di diritti umani e di possibili normative «in fieri» si è recentemente tradotto nelle adesioni che l’opposizione italiana al Governo Draghi ha espresso all’Ungheria del Presidente Viktor Mihaly Orban in tema di legislazione educativa, su cui la Repubblica Magiara aveva già ottenuto la sostanziale condivisione di Polonia e Slovenia.

Tale sintonia sembra proporre alla comune attenzione le antiche e nuove manifestazioni di cordiale intesa fra Roma e Budapest. Senza bisogno di risalire a quelle del 1848, nell’ambito del condiviso impegno contro l’assolutismo, basti rammentare talune interpretazioni della storia italiana del Novecento da parte ungherese, come quelle proposte da Mihaly Vajda circa il Ventennio fascista.

In tutta sintesi, il noto intellettuale ungherese, uomo di formazione marxista ma espulso nel 1973 dal Partito Socialista dei Lavoratori per inaccettabili dissensi nei confronti della fedeltà, o meglio dell’asservimento a Mosca da parte governativa, non aveva mancato di evidenziare che il rapido sviluppo economico e industriale conseguito dalla giovane Repubblica Italiana dopo la Seconda Guerra Mondiale e la sua ascesa nel novero delle maggiori Potenze mondiali sarebbero stati impensabili senza i processi di avanzamento sociale in un’ottica di programmazione mirata, iniziati durante il periodo fascista[1].

Mihaly Vajda pensava in modo specifico alle ampie zone italiane rese quasi invivibili dalle millenarie paludi che Imperatori e Papi avevano tentato invano di convertire ad attività agricole, prime fra tutte quelle dell’Agro Pontino, per non dire di Puglie, Calabria e Sardegna, dove la vita media dei pochi abitanti non raggiungeva il quarantennio.

Il pensatore e storico magiaro sapeva bene che il problema era stato risolto grazie alla politica agraria ispirata e pilotata da Arrigo Serpieri[2] che sin dai primi tempi del Ventennio aveva promosso alcune leggi di carattere fondamentale per il recupero dei distretti malsani. Fra queste norme, rilievo prioritario fu assunto dalla legge del 30 dicembre 1923 sulla bonifica idraulica e sulla difesa del suolo, e da quella del 18 maggio 1924 sulle trasformazioni agrarie di pubblico interesse, in un’ottica di avanzata socialità che mirava all’affrancamento dei lavoratori da consolidate forme di servitù.

Le prime bonifiche, con impianti idrovori per il sollevamento delle acque, ebbero inizio nel Basso Veneto (perfino Jesolo era una palude) e in Emilia-Romagna, dove nuove terre furono rese disponibili per l’agricoltura e per un incremento dell’occupazione in misura finalmente più che ragguardevole, anche attraverso le infrastrutture e tutto l’indotto. L’intervento di maggiore impatto sul territorio, anche dal punto di vista socio-politico, fu quello compiuto nell’Agro Pontino, dove il pensiero di Serpieri ebbe modo di trovare un’applicazione particolarmente diffusa e sistematica, su cui furono attirate forti attenzioni, non escluse quelle dell’opinione pubblica e della stampa internazionale.

Dalle paludi dell’Agro Pontino sorsero «in tempi fascisti» (termine finalizzato a testimoniare la rapidità dei lavori) vere e proprie città: Littoria, inaugurata il 18 dicembre 1932, Sabaudia il 15 aprile 1934, Pontinia il 18 dicembre 1935, Aprilia il 29 ottobre 1938, Pomezia il 29 ottobre 1939. A causa della guerra non fu realizzato l’ultimo progetto: quello di Ausonia (rinominata in tempi successivi nel comprensorio frusinate dei Monti Aurunci).

Complessivamente, a parte i suddetti aggregati urbani, nell’Agro bonificato trovarono realizzazione 14 nuovi «Borghi» (coi nomi di luoghi oggetto delle maggiori battaglie combattute durante la Grande Guerra), 3.040 case coloniche, 500 chilometri di strade, 205 chilometri di canali e 15 chilometri di scolmatori. Inoltre, furono dissodati 41.600 ettari di terreno.

Il grande apprezzamento del Vajda per il contributo del fascismo allo sviluppo economico e sociale dell’Italia, e nel suo ambito, a quello di Serpieri e di tutti gli uomini delle bonifiche, con riguardo prioritario agli eroici bonificatori ancor prima che ai coloni, deve essere evidenziato quale espressione di singolare attenzione da parte di un pensatore di sinistra, ma soprattutto per la maturazione in tempi largamente successivi all’epoca dei fatti, e quindi lontana anni-luce dal carattere agiografico che avevano avuto altri numerosi giudizi internazionali espressi durante il Ventennio e ampiamente riportati dalla bibliografia[3].

Alla metà degli anni Settanta, quando Vajda approfondiva le sue riflessioni sulla storia italiana dell’epoca fascista, la congiuntura politica ungherese era particolarmente difficile. La Rivoluzione del 1956, quando gli Occidentali non seppero o non vollero rispondere al «grido di dolore» proveniente da Budapest[4], era già passata da un pezzo, ma il regime era saldamente in mano a Janos Kadar, leader della repressione, che proprio nel 1973 aveva fatto l’ennesimo pellegrinaggio a Mosca non senza sottoscrivere nuovi accordi onerosi. Nell’anno successivo, il Ministro della Cultura Gyorgy Aczel, pur essendo di schietta osservanza marxista, sarebbe stato rimosso dall’incarico per presunto deviazionismo, assieme al responsabile dell’economia Rezso Nyers. Se non altro per queste vicende, e per l’ostracismo ad altri uomini di cultura, Vajda avrebbe potuto ragionevolmente indulgere a più miti consigli nella sua ermeneutica storiografica, ma non fu così: oggi è congruo riconoscergli i meriti di competenza, anche se non è da escludere che la pur occhiuta polizia magiara non abbia avuto notizia delle sue pubblicazioni statunitensi e britanniche.

La celebre metafora di Hegel, secondo cui non bisogna provocare la storia per non correre il rischio di subirne l’assalto, simile a quello di un cane rabbioso, è sempre valida comunque: a più forte ragione, nel caso della Rivoluzione Ungherese.


Note

1 Per tale affermazione, e per analoghe valutazioni circa l’esperienza fascista in Italia, si veda: Mihaly Vajda, Fascism as a Mass mouvement, Allison & Busby, Londra 1976, 133 pagine; e dello stesso Autore, State and Socialism. Political Essays, Palgrave McMillan, Londra 1981, 160 pagine. In precedenza, ancor prima dell’espulsione dal Partito, Vajda aveva affrontato l’argomento nel suo saggio Crisis and the Way Out: Fascism in Italy and Germany, pubblicato nel 1972 dal quadrimestrale «Telos – Literary Criticism and the public Sphere», Candor (New York).

2 Arrigo Serpieri (1877-1960), agronomo, economista e docente universitario, fu deputato del Regno d’Italia dal 1924 al 1935, Sottosegretario all’Agricoltura nel Governo Mussolini (incarico per cui diresse le prime applicazioni della Legge 24 dicembre 1928 numero 3.134 per la «bonifica integrale» affidata all’Opera Nazionale Combattenti) e poi Senatore, Presidente della Commissione Agricoltura, oltre che Rettore dell’Università di Firenze (1937-1942). Epurato nel dopoguerra, perse ogni incarico parlamentare e istituzionale ma fu sempre consultato quale massimo esperto di politiche agricole: non a caso, nel 1954 gli fu conferito, per l’appunto, il Premio Marzotto per l’Agricoltura.

3 Per qualche esempio probante di giudizi esteri d’alto livello senza dubbio positivi sull’Italia fascista, basti ricordare quello del laburista inglese Lloyd George quando rimproverava l’inerzia del suo Governo esortandolo a «fare come Mussolini nell’Agro Pontino» (1932). Già in precedenza, l’autorevole «Daily Telegraph» aveva affermato che «il fascismo non è soltanto uno sforzo verso un nuovo sistema politico ma verso un nuovo metodo di vita» (16 gennaio 1928) mentre il londinese «Morning Post» avrebbe aggiunto che «l’opera del fascismo è poco meno che un miracolo» (29 ottobre 1928). Nello stesso anno, lo svedese «Goteborg Handel» soggiungeva che si resta «altamente sorpresi di fronte al lavoro colossale che il Governo Fascista viene svolgendo con un’incredibile intensità di energia» (22 marzo). Dal canto suo, il cecoslovacco «Narodni Novnij» scrisse che «in Russia si era fatta opera di costruzione mentre in Italia si è compiuta un’opera di redenzione» con ben altra valenza morale, chiudendo col dire che, diversamente dalle macchinose programmazioni altrui, «il Piano Mussolini rende una popolazione felice» (15 dicembre 1933). Per un esame più esauriente della materia in questione, è sempre di utile consultazione il saggio di Alberto Paolo Torri, La Rinascita dell’Agro Pontino nelle impressioni e nei commenti della stampa estera, contenuto nella grande opera dell’Istituto di Studi Romani, La Bonifica delle Paludi Pontine, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 1935, pagine 291-328: il contributo del Torri contiene oltre cento riferimenti, suffragati da citazioni, ad altrettanti articoli riferiti al primo quadriennio degli anni Trenta e tratti da quotidiani, periodici e riviste di Austria, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Polonia, Romania, Stati Uniti, Svezia e Svizzera (nel medesimo volume, è di fondamentale rilievo anche il saggio del conte Valentino Orsolini Cencelli, La bonifica e la trasformazione fondiaria dell’Agro Pontino). In effetti, la fama di quell’opera veramente ciclopica ebbe diffusione mondiale, suffragata da giudizi positivi ragguardevoli, formulati anche in Cina e Giappone. Per quanto riguarda quelli italiani, un ultimo contributo esaustivo e generalmente oggettivo appartiene a Paolo Palliccia, Le bonifiche nel Lazio: studi e lotta anti-malarica nell’Agro Romano e Pontino dal periodo pre-unitario al fascismo, Casa Editrice Altrove, Roma 2017, 192 pagine; mentre un’opera ormai classica, unica nel suo genere, e pervenuta alla sesta edizione, è quella di Vincenzo Rossetti, Dalle paludi a Littoria – Diario di un medico (1926-1936), Palombi-Diano Libri, Modena 2018, 324 pagine.

4 Il mondo occidentale rimase sostanzialmente paralizzato dalle notizie ungheresi, e dalla violenza della repressione: ad esempio, il celebre politologo Giovanni Sartori avrebbe affermato che la Rivoluzione di Budapest e delle altre città magiare non era stata altro che una «sublime follia» (ma Don Luigi Stefani, il celebre Cappellano della Misericordia fiorentina, partì con una piccola carovana per accogliere i primi profughi al confine austriaco di Nickelsdorf). Quanto a Vajda, all’epoca poco più che ventenne, quegli avvenimenti avrebbero fatto sedimento nella maturazione della sua coscienza umana e civile, fino alla clamorosa «conversione» degli anni Settanta.

(agosto 2021)

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