Valori della disobbedienza
L’epopea dannunziana dalla Marcia di Ronchi al Natale di Sangue (Fiume d’Italia, 1919-1920)

A quasi mezzo secolo dalla categorica affermazione di Don Lorenzo Milani secondo cui l’obbedienza ha cessato di essere una virtù, il centenario dell’Impresa di Fiume compiuta da Gabriele d’Annunzio e dai suoi legionari (12 settembre 1919) costituisce una buona occasione per sottolineare che l’assunto ha radici assai più lontane rispetto a quelle del Priore di Barbiana: senza rammentare Antigone, che aveva sfidato il tiranno di turno per affermare la priorità delle «alte non scritte e inconcusse leggi» viventi nel cuore degli uomini di buona volontà, o i tanti Eroi del Risorgimento che sacrificarono la vita nella lunga lotta patriottica contro l’assolutismo dispotico della Santa Alleanza, cui si ispirava la «giustizia» austro-ungarica, è d’uopo affermare che la deroga consapevole al cosiddetto ordine costituito ricorre regolarmente nella storia umana e civile con manifestazioni di alto impegno etico e politico, attraverso il volitivo confronto coi «poteri forti».

In altri termini, la disobbedienza riveniente da giudizi maturi e consapevoli circa l’iniquità di talune manifestazioni del potere improntate a un «furore» per molti aspetti demoniaco, diventa virtù nel senso petrarchesco o machiavelliano della parola[1] o meglio, un imperativo categorico imposto dalla legge morale che è dentro di noi come il cielo stellato è sopra di noi, secondo la suggestiva immagine della filosofia idealistica.

La Marcia di Ronchi e tutta la complessa vicenda che le fece seguito, dalla proclamazione della Reggenza Italiana del Carnaro (8 settembre 1920) al successivo Natale di Sangue che chiuse l’esperienza di Gabriele d’Annunzio e dello «Stato legionario» con una vera prova di guerra civile, si inseriscono in questa ottica, a rinnovata dimostrazione del fatto che il nobile sentire può coniugarsi con il forte agire nel perseguimento di «egregie cose». Del resto, lo stesso Ammiraglio Nelson, il discusso avversario implacabile di Napoleone, aveva affermato che «il coraggio più nobile e raro è quello di disobbedire agli ordini» quando siano «in conflitto con l’onore nazionale».

La citazione è tratta dall’opera di Giordano Bruno Guerri (Disobbedisco. Cinquecento giorni di Rivoluzione: Fiume 1919-1920, Le Scie Mondadori, Milano 2019, 552 pagine) che ha integrato la sterminata bibliografia sulla vicenda della Fiume dannunziana con un’analisi di grande impatto mediatico, tanto più che si è affiancata a una mostra di sicuro ed efficace richiamo, dando un’interpretazione sostanzialmente equidistante di quei 16 mesi che cambiarono davvero l’Italia, in ossequio all’insegnamento di Tacito, secondo cui «chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ciascuno deve parlare senza amore e senza odio»: compito sempre arduo, in specie quando si toccano le corde di una sensibilità tuttora viva e vivace come quella per l’opera politica del Vate, ma tanto più necessario nel momento in cui, trascorso un secolo dalla Marcia di Ronchi, un giudizio storico complesso e oggettivo diventa inderogabile, se non altro nell’ottica scientifica.

Questa tipologia di giudizio presume una conoscenza esaustiva dei fatti, e naturalmente delle motivazioni ideali e politiche che furono alla base della loro maturazione, sia nell’opera quasi demiurgica del Comandante, sia in quella del vastissimo concorso di tutti coloro che lo affiancarono nell’Impresa, o che gli furono avversari. In tal senso, è sempre utile ripercorrere con spirito critico l’epopea dannunziana, anche con l’ausilio di tante vicende apparentemente minori, tali da completare con utili integrazioni l’affresco di quella storia irripetibile, ma destinata ad avere un impatto significativo nella storia, non soltanto italiana, degli anni e dei decenni successivi.

Come si diceva, quella di Fiume fu una prova di guerra civile: nel caso di specie, fra la Patria legionaria e l’Italia ufficiale, che alla fine non ebbe esitazioni a usare la forza militare per chiudere la questione e dare esecuzione al trattato di Rapallo con cui il Governo di Roma, presieduto da Giovanni Giolitti, si era illuso di chiudere il contenzioso col nuovo Stato Jugoslavo. D’altro canto, quella prova aveva avuto qualche precedente durante la stessa vicenda della Fiume dannunziana, come nel caso del giovane Trevigiano Luigi Siviero, il primo Caduto dell’Olocausta[2] colpito dal fuoco «regolare» ai primi di novembre del 1919; e come nel caso – ancora più grave – del maggio 1920, quando la defezione dei Carabinieri di Rocco Vadalà si concluse con lo scontro di Cantrida in cui, nonostante l’intervento del Generale Sante Ceccherini, Capo delle forze di occupazione, due di costoro persero la vita, mentre quattro legionari vennero feriti: chiaro effetto delle diverse anime dell’Impresa, l’una legalitaria e l’altra rivoluzionaria, anche se la seconda avrebbe preso rapidamente il sopravvento.

Si deve aggiungere che Gabriele d’Annunzio, nonostante le non dissimulate simpatie per la componente oltranzista dei suoi uomini – in contrapposizione a quella «governativa» – non avrebbe mai sconfessato chicchessia, e anzi, come nel caso dello stesso Vadalà, e più tardi, di Ceccherini e dello stesso Maffeo Pantaleoni, che pure aveva nominato Rettore di Finanze e Tesoro della Reggenza, non si sarebbe opposto alla loro partenza da Fiume, pur bollando con alte parole di dissenso il loro pur amaro e certamente sofferto disimpegno. Considerazioni analoghe valgono a più forte ragione per Giovanni Giuriati, che si sarebbe allontanato dopo la bocciatura del «modus vivendi» proposto alla fine del 1919, per essere sostituito da Alceste De Ambris, ma che poi sarebbe tornato nella squadra del Comandante anche alla luce delle sue capacità diplomatiche (e anni dopo, preposto da Benito Mussolini alla segreteria del Partito Nazionale Fascista).

La posizione rigorosamente alternativa che il Comandante mantenne nei confronti di Roma, dapprima col Governo di Francesco Saverio Nitti, e poi con quello dello stesso Giolitti, ha dato luogo alla diffusa presunzione secondo cui avrebbe anticipato e promosso l’avvento al potere da parte del fascismo, sopraggiunto a circa due anni dalla fine della Reggenza. In effetti, la questione è più complessa di quanto possa apparire «ex prima facie»: è vero che Gabriele d’Annunzio confidò sino all’ultimo nel supporto dei fasci di Mussolini, ma è anche vero che quest’ultimo, a differenza del Vate, aveva ben compreso come i tempi non fossero ancora maturi, con quale delusione e disillusione del «Grande Uscocco» è facile immaginare. D’altro canto, sta di fatto che il fascismo, sia nella fase di preparazione, sia in quella di gestione del potere, avrebbe mutuato a piene mani l’esempio dannunziano, a cominciare dalle formule di rito, dal dialogo con la folla, e dalle celebrazioni simboliche e fideistiche; quanto al Comandante, ormai ritirato nell’eremo del Vittoriale, avrebbe sempre manifestato attenzioni non formali – e non disinteressate – nei confronti del «caro compagno» sino all’ultimo incontro del 30 settembre 1937, quando si fece accompagnare alla stazione ferroviaria di Verona per rendere omaggio al Duce di ritorno dalla Germania dove si era incontrato con Hitler, ma non senza metterlo in guardia nei riguardi di «Attila imbianchino». Aveva visto giusto, ma ormai era un sopravvissuto che sarebbe scomparso cinque mesi più tardi.

D’Annunzio era perfettamente consapevole della sua disubbidienza, che considerava valore fondante di una nuova epoca: quella che era nata dall’interventismo, dal futurismo, dal nazionalismo, e in ultima analisi dall’esperienza «rivoluzionaria» della Grande Guerra. Non a caso, aveva sottolineato il salto di qualità che raccogliendo il «grido di dolore» proveniente da Fiume, era stato fatto proprio dai «Giurati di Ronchi» e a seguire, da tutti coloro che avevano condiviso l’appello del Comandante: reduci di tutte le armi e giovanissimi volontari[3] senza escludere qualche Generale in servizio come Corrado Tamajo e lo stesso Sante Ceccherini, trasferitosi a Fiume con tutta la famiglia, ivi compresi il figlio Venanzio, tenente di vascello già pluridecorato al Valor Militare, e la figlia Eugenia appena diciassettenne, che nonostante la giovane età avrebbe messo a tacere un disfattista reo di aver affermato come non fosse il caso di portare una giovane fanciulla nella «cloaca» di Fiume, con chiare allusioni alla suggestione libertaria della Città di Vita[4].

Grazie al «Grande Orbo» Fiume divenne un laboratorio di straordinario rilievo anche dal punto di vista giuridico: in primo luogo, nell’ambito del diritto costituzionale, dove la Carta del Carnaro predisposta da Alceste De Ambris ma riveduta e corretta dallo stesso Gabriele d’Annunzio, fu un «quid novi» destinato a suscitare forti consensi, non disgiunti da ricorrenti preoccupazioni, in specie per l’affermazione della proprietà come valore sociale, e volano propulsivo destinato a promuovere gli investimenti, fermo restando che i padroni «infingardi» avrebbero dovuto essere penalizzati per il loro sterile attendismo. Non solo per questo, la Carta resta un documento di grande modernità per avere anticipato tante conquiste successive, come la parità fra uomini e donne, il suffragio universale, il carattere laico dello Stato, l’uguaglianza di diritti e doveri, la tutela del lavoro, la rappresentanza delle minoranze, la promozione della cultura, e via dicendo: il tutto, corretto dalla figura del Comandante, munito di pieni poteri, ma sulla falsariga dei dittatori dell’antica Repubblica Romana, destinati a rimanere in carica durante le emergenze, e per un periodo di tempo non eccedente il semestre[5]. È inutile precisare che la Carta sarebbe rimasta un semplice documento storico-giuridico a futura memoria, fatta eccezione per i «Rettori» (ovvero i Ministri della Reggenza) che furono subito nominati e che rimasero in carica per meno di quattro mesi: quelli intercorsi fra la proclamazione del nuovo Stato di Fiume e il Natale di Sangue.

Non meno significativo fu l’impatto internazionale dell’Impresa Fiumana, a cominciare dai rapporti che Gabriele d’Annunzio e la sua squadra tennero con una cinquantina di «nazionalità oppresse» e in qualche caso con un impatto destinato a lasciare segni potenzialmente fecondi, come accadde con l’Egitto grazie a Said Zaghlul, con l’Irlanda tramite Sean O’Kelly, e soprattutto con la Russia Sovietica, in virtù della relazione con il responsabile per l’Estero Georgij Cicerin, che poi fu ospite al Vittoriale, senza dire del «trattato» di cooperazione concluso con il Montenegro. Nella medesima ottica, il Comandante, che durante la Reggenza avrebbe tenuto per sé il Rettorato degli Affari Esteri, non avrebbe trascurato di avviare una rete diplomatica sia pure filiforme, istituendo delegazioni ufficiali a Roma, a Parigi, e soprattutto a Nuova York, dove l’opera di Whitney Warren si sarebbe rivelata di grande utilità, se non altro sul piano informativo e promozionale, tanto più utile dopo il ripetuto «pronunciamento» filo-slavo di cui il Presidente Nordamericano Wilson aveva dato ampie manifestazioni durante le trattative di pace.

Sul piano interno, la vivace attività del regime di occupazione, e poi della Reggenza, quando il Dicastero degli Interni venne affidato a Icilio Baccich (destinato a cadere vittima dei partigiani slavi nel maggio 1945 assieme a Riccardo Gigante) ebbe momenti di particolare visibilità ben oltre i confini fiumani, come quando la Città Olocausta venne visitata da Guglielmo Marconi, giunto a Fiume nel settembre 1920 subito dopo la proclamazione del nuovo Stato sovrano (sia pure col permanente disegno ultimo di annessione all’Italia); e due mesi dopo, con l’arrivo del celebre Maestro Arturo Toscanini che diresse un indimenticabile concerto, di fama non impari a quella che aveva caratterizzato le direzioni effettuate dallo stesso Toscanini sui fronti della Grande Guerra. In settembre, come ha riferito Giordano Bruno Guerri, Fiume aveva potuto registrare una vittoria davvero significativa: quella sulla peste bubbonica, che era scoppiata in città per contagio apportato da una nave proveniente dall’Est Europeo, ma che venne prontamente debellata grazie alla solerte opera di profilassi, tanto più commendevole viste le particolari, gravissime difficoltà del momento.

Il carattere laico della Fiume dannunziana non fu tale da impedire manifestazioni religiose sempre suggestive, e in qualche caso coinvolgenti, sia pure nell’ambito di una sostanziale subordinazione alla politica[6] che tuttavia resta intesa come momento di alta valenza etica in cui la realtà dello Stato avrebbe dovuto coniugarsi con quella dei cittadini, in quanto soggetti di diritti e di doveri, preposti al perseguimento di un interesse generale: in ultima analisi, il bene comune a cui è possibile giungere soltanto attraverso la vita associata, lungi da ogni tentazione solipsistica e da ogni devianza, e naturalmente subordinata a una giustizia che peraltro fu generalmente indulgente, con ripetuti proscioglimenti, dichiarazioni di non luogo a procedere, e al massimo, con condanne mitissime. Del resto, i reati compiuti a Fiume non erano quelli contro la realtà etica dello Stato, quali la cospirazione o la diserzione davanti al nemico, ma si limitavano a fatti di ordinaria amministrazione in una realtà molto particolare di bisogno, tale da motivare, a più alto livello, la prassi piratesca di sequestro delle navi altrui e dei relativi carichi.

Alla predetta vocazione laica deve conformarsi il rapporto col mondo femminile, e in primo luogo con le donne legionarie[7] ricordate con dovizia di nomi e cognomi da Giordano Bruno Guerri, diversamente da altri storici dannunziani di riferimento epocale o contemporaneo, quali Edoardo Susmel e Pietro Cappellari: quelle donne erano personaggi emancipati, ma non per questo necessariamente inclini a mettere in pratica la «morale» libertaria. Ciò non significa che, nei 16 mesi di governo del Comandante, Fiume non fosse diventata punto d’incontro di avventurieri e di prostitute, come è sempre avvenuto in circostanze analoghe, dando luogo a diffusi ma contenuti dissensi nell’ambito della popolazione locale, e quel che più conta, senza apprezzabili reviviscenze di un autonomismo che avrebbe avuto vita breve anche dopo il Natale di Sangue, con la partenza dei legionari, e subito dopo, con quella di Gabriele d’Annunzio.

La disubbidienza, intesa come valore patriottico[8] in qualche misura, quale devianza dal «giure comune per fine di pubblica utilità» secondo l’antica definizione secentista della «Ragione di Stato», ebbe una prima, icastica visibilità in occasione dello sfondamento della barra confinaria a Cantrida, quando il Generale Vittorio Emanuele Pittaluga, irretito dall’invito del Comandante a fargli sparare sulla Medaglia d’Oro che teneva orgogliosamente sul petto, lasciò via libera al piccolo esercito legionario. Dopo le numerose, ulteriori manifestazioni di dissenso nei confronti dell’ordine costituito, la disubbidienza pervenne ai vertici a seguito del trattato di Rapallo (12 novembre 1920) quale presupposto dell’ultima resistenza dannunziana, che – giova rammentarlo – fu preceduta dalla dichiarazione del Comandante volta a lasciar liberi i suoi legionari di decidere secondo scienza e coscienza, cui fece seguito la partenza di una cinquantina di uomini, a valere sui 5.000 che costituivano l’organico dei dannunziani, comprensivo della «Legione Fiumana»: chiara dimostrazione di un consenso plebiscitario anche nell’ora decisiva, e della comune fedeltà al vecchio giuramento nonostante la deroga concessa dal Vate, avuto riguardo alla nuova, nonché straordinaria emergenza.

In effetti, dopo Rapallo sarebbe stato possibile più volte pervenire a una sorta di «entente cordiale» o quanto meno a un compromesso idoneo a salvare la faccia di entrambe le parti in causa. Al contrario, il Comandante fu irremovibile, anche perché illuso da qualche ulteriore defezione di forze «regolari» come quelle dei cacciatorpediniere Bronzetti ed Espero, della torpediniera 68-PN, e di alcune autoblindo appartenenti al posto di guardia terrestre di Laurana, in agro di Abbazia: nondimeno, un’ultima «chance» sarebbe stata offerta il 14 dicembre dalla petizione di 80 Senatori volta a promuovere il riconoscimento dello Stato libero dannunziano, tanto più che il trattato italo-jugoslavo aveva statuito, per Fiume e il suo territorio, proprio la creazione di una realtà statuale indipendente, collegata direttamente all’Italia con una «bretella» costiera.

Sopravvenne la ratifica parlamentare del trattato, votata con una maggioranza quasi schiacciante (215 voti favorevoli e 29 contrari) cui Gabriele d’Annunzio, fedele sino all’ultimo al principio della disubbidienza, rispose non senza accenti farseschi con La Carta di Laverna (l’antica dea latina dei ladroni e dei falsari) dove chiosava con triste umorismo il documento voluto e firmato da un Giolitti visto nel ruolo di «quinto Evangelista coprofago».

Il Consiglio dei Rettori, immediatamente convocato, decise per la resistenza a oltranza con voto unanime, reso possibile come tale dalla partenza di Maffeo Pantaleoni, in dissenso ormai definitivo dalla linea del Comandante, senza dire che gli Organi locali deliberarono, a loro volta, di non ratificare il trattato di Rapallo, affermando come la volontà di Fiume fosse quella di non permettere che venisse violata la sovranità della Reggenza Italiana del Carnaro: ne scaturiva un’evidente convergenza di volontà che elideva ogni precedente discrasia tra il mondo legionario e il notabilato cittadino, e ravvisava nella disubbidienza la sola risposta possibile al Governo di Roma. Probabilmente, non tutte le speranze circa possibili sommovimenti italiani erano state ancora riposte, sebbene – almeno in prospettiva – le sorti puramente militari del conflitto fossero sostanzialmente segnate: in altri termini, Fiume stava diventando davvero la Città Olocausta.

Il resto è storia nota. A partire dalla mezzanotte del 21 dicembre venne dichiarato lo stato di guerra, sia pure in assenza di operazioni immediate: forse, per la concomitanza natalizia in una città deserta ancora addobbata in vista delle prossime celebrazioni, o per la presunzione del Comando «regolare» circa una possibile retromarcia legionaria «in extremis». Non fu così: il Natale di Sangue vide il sacrificio quasi paritetico di circa 50 uomini appartenenti a entrambe le forze in campo (le fonti non sono concordi circa la cifra esatta) cui si aggiunse quello di sei civili tra cui una bambina; e naturalmente, un numero superiore di feriti, alcuni dei quali gravi. Poi, una ragione postuma ebbe il sopravvento, ma il Comandante aveva dimostrato al mondo intero di avere ceduto alla violenza, e tuttavia, proprio per questo, di essere il vincitore morale di quella guerra civile che aveva assunto il carattere di un paradosso, ed evidenziava l’esistenza di una frattura destinata a lasciare tracce durature nella storia d’Italia, anche se Gabriele d’Annunzio, dopo avere dichiarato prima di Natale che «insorgere è risorgere» poteva fregiarsi, all’indomani di Capodanno, dell’onore di essere l’aedo della riconciliazione, pronunciando il celebre «alalà» funebre di Cosala in ossequio a tutti i Caduti.

La storiografia si è interrogata più volte sulle ragioni per cui il Comandante aveva voluto perseverare nella disubbidienza fino all’ultimo, ravvisandole in una sorta di superomismo egocentrico, in un esacerbato senso dell’onore militare, o più verosimilmente, nell’ingenua speranza di un «deus ex machina» capace di ribellarsi al Governo di Roma: del resto, non è forse vero che si era parlato di una marcia «da Fiume» e addirittura, di una prossima annessione dell’Italia da parte di Fiume?

Il Comandante aveva rischiato di persona quando i colpi di cannone partiti dalle navi da guerra italiane inquadrarono il Palazzo della Reggenza e colpirono lo studio del «Grande Uscocco». Forse, solo in quel momento avrebbe compreso che la disubbidienza costituisce una virtù ma non per questo è garanzia di successo. Molto più tardi, il 26 febbraio 1938 – alla vigilia della morte avvenuta il 1° marzo – secondo una testimonianza della governante, la fedele Aélis che lo sorprese in lacrime nel tragico rammarico di avere «disperso tutto al vento» dopo essere stato «tanto amato», avrebbe compreso davvero che «il più forte è soltanto l’Amore». Quelle lacrime inducono una presunzione: il «Dio che atterra e suscita» di manzoniana memoria – dopo avere posato sulla «deserta coltrice» di Napoleone Bonaparte – non può aver toccato il cuore di un Uomo di fede come Gabriele d’Annunzio che aveva disubbidito per Amore?


Note

1 Il riferimento riguarda l’ode all’Italia del Petrarca, rivolta ai potenti della sua epoca affinché prendessero coscienza delle attese di riscatto avvertite sin da quella stagione plumbea: «Pur che voi mostriate / segno alcun di pietate / vertù contra furore / prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto / ché l’antiquo valore / negl’italici cor non è ancor morto» (Francesco Petrarca, Rime e Trionfi, a cura di Raffaello Ramat, Editore Rizzoli, Milano 1957, pagina 237). Quanto al Segretario Fiorentino, la sua idea di «virtù» riguarda le doti necessarie al Principe nell’opera volta a difendere quella «patria mia» che «amo più dell’anima» (Nicolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori del 16 aprile 1527, in Scritti politici, a cura di Antonio Panella, Editore Rizzoli, Milano 1939, pagina 847).

2 Il ricordo di Luigi Siviero e dell’omaggio che Elena d’Aosta, consorte del Duca Emanuele Filiberto di Savoia, e figlia del Conte di Parigi, rese alla salma del Caduto il 4 novembre, ricorrendo il primo anniversario della Vittoria, fu sempre vivo nel Comandante, che volle il «piccolo fante» in una delle Arche del Vittoriale vicine alla sua, assieme a quelle di Mario Asso, Italo Conci e Antonio Gottardo, Caduti durante il Natale di Sangue, e a quelle di Guido Keller, Giuseppe Piffer ed Ernesto Cabruna che erano stati con lui a Fiume, con ruoli di rilievo, e che scomparvero in tempi successivi. Fra le altre Arche, tutte volute da Gabriele d’Annunzio, esistono quella di Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale, oltre ai due cenotafi di Antonio Locatelli (unico Italiano decorato di tre Medaglie d’Oro al Valor Militare, Caduto in Etiopia) e di Riccardo Gigante, Podestà di Fiume durante e dopo la Reggenza, scomparso tragicamente nel 1945 a opera dei partigiani slavo-comunisti.

3 Un caso emblematico, fra tanti giovani non insensibili al richiamo dannunziano, fu quello di Giuseppe Maranini (1902-1969), destinato a diventare insigne costituzionalista e Preside della Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» dell’Università di Firenze, dove fu titolare anche delle Cattedre di Diritto Pubblico Comparato e di Storia delle Costituzioni. Al riguardo, si vedano le sue Lettere da Fiume alla fidanzata (la futura consorte Elda Bossi), Edizioni Pan, Milano 1973, 124 pagine: ciò, quale tipico esempio di una letteratura patriottica assai diffusa nel coinvolgente dopoguerra del 1919, ma nello stesso tempo, capace di valutazioni oggettivamente e costruttivamente critiche, improntate alla necessità di «combattere e lavorare» per il comune progresso.

4 Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco. Cinquecento giorni di Rivoluzione: Fiume 1919-1920, Le Scie Mondadori, Milano 2019, pagina 92. Per l’atmosfera poliedrica, non priva di sfumature nettamente anticonformiste, che avrebbe caratterizzato la lunga vicenda della Città di Vita durante l’occupazione legionaria e la successiva Reggenza Italiana del Carnaro, confronta Claudia Salaris, Alla festa della Rivoluzione: artisti e libertari con d’Annunzio a Fiume, Società Editrice Il Mulino, seconda edizione ampliata, Bologna 2019, 292 pagine. Fra le opere più recenti, da indicare quale riferimento per un diverso impegno di esegesi politica a tutto campo ma sostanzialmente privo di concessioni scandalistiche, e dotato di un corredo bibliografico nell’ordine di qualche centinaio di titoli – analogo a quello di Guerri – confronta Pietro Cappellari, Fiume trincea d’Italia: la questione adriatica dalla protesta nazionale all’insurrezione fascista (1918-1922), Herald Editore, Roma 2018, 682 pagine. Nella medesima ottica, utili integrazioni (anche per quanto riguarda la cosiddetta «convivenza forzata» con il fascismo e per talune aperture mistiche occorse negli anni del Vittoriale, sebbene concomitanti con insopprimibili richiami terreni) sono mutuabili da: Enzo Cataldi, D’Annunzio, Edizioni Firenze Atheneum, Bagno a Ripoli 1991, 464 pagine.

5 Per un primo inquadramento bibliografico circa genesi e contenuti della Carta del Carnaro confronta Autori Vari, Lo Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro tra storia, diritto internazionale e diritto costituzionale, a cura di Augusto Sinagra, Giuffré Editore, Milano 2009, 248 pagine; e il contributo di Carlo Montani, La Carta del Carnaro nella retrospettiva storica e nella sua attualità, in «Studi in onore di Augusto Sinagra», volume sesto, Edizioni Aracne, Roma 2014, pagine 397-418.

6 Casi emblematici restano quelli delle celebrazioni di San Sebastiano Martire della Fede, di San Gabriele Arcangelo (quando la cittadinanza onoraria venne conferita al Comandante) o di San Vito Patrono di Fiume, con l’intervento carismatico di Padre Reginaldo Giuliani, Cappellano della Grande Guerra appartenente all’Ordine Domenicano, venuto a Fiume sin dalla «Santa Entrata» del settembre 1919 forte di una Medaglia d’Argento e di due Medaglie di Bronzo al Valor Militare, in ottimi rapporti con Gabriele, certamente idoneo a benedire il pugnale votivo in oro massiccio che le donne fiumane vollero offrire al Comandante medesimo dopo aver fatto dono, a tale scopo, delle proprie fedi e dei propri gioielli, in una sorta di donazione «ante litteram» dell’oro alla Patria che non a caso sarebbe stata mutuata dal fascismo in risposta alle «inique sanzioni» seguite alla guerra d’Etiopia, ma indotte, a loro volta, da una «disobbedienza» nei riguardi dell’ordine internazionale (peraltro già abbondantemente disatteso nelle politiche coloniali di altri Stati). Più complesso fu il rapporto del Vate con Monsignor Celso Costantini, quale Amministratore Apostolico di Fiume che avrebbe officiato la Messa di San Vito, ma nello stesso tempo avrebbe dovuto confrontarsi coi Frati Francescani del Redentore, alcuni dei quali lasciarono l’Ordine dopo aver avanzato richieste improponibili come l’abolizione del celibato e il controllo dei mezzi finanziari, e dopo avere fatto proprio qualche significativo motto dannunziano.

7 Un discorso a parte deve essere svolto per le donne del Comandante, che si guardò bene dal fare vita austera anche durante i 16 mesi di Fiume, nonostante la presenza quasi perenne di Luisa Baccara, la giovane pianista veneziana che lo avrebbe seguito al Vittoriale sino alla morte e che fu protagonista della stagione fiumana anche tramite i numerosi concerti, in specie informali, tenuti per intrattenere il Comandante e la sua squadra di governo. Va da sé che anche a Fiume Luisa fu costretta a subire frequenti «disattenzioni» del Vate, a cominciare dal rapporto che Gabriele ebbe con la cantante Lili de Montrèsor e soprattutto con Margherita Keller, cugina di Guido, presente in città con il marito, conte Piero Besozzi, grande amico della causa fiumana e uomo di spirito certamente liberale.

8 Il celebre «Obbedisco» di Giuseppe Garibaldi pronunciato da Bezzecca durante la Terza Guerra d’Indipendenza (1866) non poteva essere dimenticato dallo stesso Gabriele d’Annunzio nel momento in cui venne deciso di «trarre il dado» e di muovere alla conquista di Fiume, non senza riferimenti alla profonda diversità dei tempi e dei modi, e soprattutto, alle nuove suggestioni della «più grande Italia». D’altro canto, bisogna pur dire che quell’obbedienza era stata un’eccezione nel «modus operandi» assunto dall’Eroe dei Due Mondi a supporto delle sue imprese: a ben vedere, quella dei Mille non fu aliena da una sostanziale forzatura nei confronti delle opzioni moderate care alla dirigenza sabauda, il cui intervento sopravvenne quando la vittoria garibaldina era diventata praticamente certa. A più forte ragione, si ebbe generosa disobbedienza ad Aspromonte nel 1862 (e cinque anni dopo nei pressi di Mentana) quando Garibaldi venne ferito dai «Piemontesi» in un’altra espressione della guerra civile che del resto stava già imperversando in tutto il Mezzogiorno e che si sarebbe protratta per un lungo decennio.

(settembre 2019)

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