Niccolò Giani: dallo Stato etico alla
Medaglia d’Oro sul campo
Un’esperienza idealistica di 80 anni
orsono: riflessioni non effimere
La scienza politica contemporanea ha teorizzato un divario sostanzialmente incolmabile fra lo Stato di diritto e lo Stato etico, con una tesi che secondo ragione non può essere condivisa: oggi, c’è bisogno di un forte supporto morale proprio per lo Stato di diritto, che deve affidarsi a valori universali per poter essere credibile e per assicurare la convinta collaborazione di tutti, necessaria anche dal punto di vista della funzionalità tecnica.
Niccolò Giani, Medaglia d’Oro al Valor Militare, caduto sul fronte greco-albanese nell’ormai lontano 1941, appartiene all’eletta schiera dei Giuliani che in epoche diverse hanno meritato la massima onorificenza combattentistica: uomo di vasta cultura, giornalista di rango, tenente degli Alpini, Italiano tutto d’un pezzo, aveva fatto della Patria la ragione prioritaria di vita, perché credeva nel carattere etico di uno Stato con cui andava a fondersi, sulle orme di Giovanni Gentile, l’identità della Nazione. A 110 anni dalla nascita (1909) è bene ricordarlo agli immemori e raccontarlo agli ignari.
L’epoca contemporanea è governata dal relativismo, o peggio ancora dal perseguimento di interessi contingenti anche ad alti livelli politici. Ecco una buona ragione in più per onorare chi è stato capace di inserire i valori morali nella necessaria inquadratura giuridica, ma prima ancora, in una concezione quasi religiosa dello Stato, attento alle istanze sociali, all’educazione dei giovani, a un beninteso interclassismo, e soprattutto al primato della coscienza.
Niccolò Giani fu convinto sostenitore del fascismo, tanto da avere assunto la prima cattedra universitaria della sua «Dottrina» presso la Facoltà di Scienze Politiche a Pavia, ma nello stesso tempo, pervicacemente critico nei confronti di una gerarchia arrivista e carrierista[1]. Per questo, fu incurante delle accuse di oltranzismo teorico che gli venivano rivolte, e sempre pronto a battersi in prima linea, come sul fronte etiopico nel 1936, su quello francese nel 1940, e infine su quello greco-albanese, dove avrebbe immolato la giovane vita nell’anno successivo, all’età di 32 anni[2]. Grande idealista, ma consapevole di appartenere a una minoranza eletta di cui fecero parte, fra gli altri, Guido Pallotta, scomparso in Cirenaica nell’impari lotta contro un carro armato inglese, e Berto Ricci, vessillifero del fascismo «universale» ovvero senza confini, anch’egli caduto in Africa da volontario, accomunati a Giani da un destino analogo e da un valore autentico[3].
Oggi, parlare di Giani è doppiamente significativo: da una parte, perché volle richiamare l’attenzione su un’esperienza che sembra lontana anni-luce dalla sensibilità contemporanea ma consente di leggere in un’ottica non convenzionale chi volle schierarsi dalla parte «sbagliata» senza proposizioni avversative o dubitative; dall’altra, perché sottolinea la volontà di tenere alta la bandiera, nella tranquilla consapevolezza che la storia non finisce certo oggi e, anzi, che deve ricominciare domani.
In effetti, secondo le riflessioni di un grande pensatore quale Giambattista Vico, il mondo procede per corsi e ricorsi, alla luce di un andamento ciclico in costante evoluzione positiva: alle epoche di crisi etica e politica, caratterizzate dalla ferinità e dalla degenerazione nell’effimero esteriore, seguono quelle di consapevolezza e di ripresa. Proprio per questo, non si deve mai disperare: c’è sempre una Provvidenza che vede e decide quando e dove intervenire, ma l’uomo è chiamato a collaborare per quanto di sua competenza, con provata fede e impegno costante, come nel caso di Giani.
Niccolò era nativo di Muggia, nella piccola parte dell’Istria rimasta sotto la sovranità italiana dopo il trattato di pace del 1947. Anche per questo, è stato più agevole ricordarlo con ampia condivisione di affetti e di pensiero, come accadde in occasione del centenario dalla nascita, quando a Trieste si tenne una coinvolgente manifestazione in memoria di questo eroe che ha lasciato un esempio così elevato di fede e di coraggio: iniziativa importante, per le parole commosse con cui la «Federazione Grigioverde», in persona del Presidente Generale Riccardo Basile, volle ricordarlo alla presenza della figlia e di illustri esponenti del patriottismo locale, fra cui Gianfranco Gambassini, che intervenne a conclusione dell’iniziativa sollecitando – sia pure invano – la rimozione delle anacronistiche discriminazioni a danno di quanti militarono nella Repubblica Sociale Italiana (pur nella diffusa consapevolezza che la partita fosse perduta e pur battendosi con lo scopo prioritario di salvare l’onore d’Italia). Ciò, in una logica di comprensione e di autentica ma utopistica pacificazione.
Non meno importante, a distanza di tanti anni da vicende poco commendevoli che impedirono l’intitolazione di una strada di Muggia alla memoria del caduto, è ribadire – proprio nell’esigenza di superare antinomie ormai anacronistiche – che non è più tempo di sterili logomachie, ma di una profonda esegesi storica capace di comprendere le cosiddette scelte «sbagliate» in specie quando furono supportate, come nella fattispecie, dalla buona fede, da valori ampiamente condivisi e dal senso dell’onore disatteso dal tradimento.
Va da sé che il giudizio su Niccolò Giani non può prescindere dallo spirito del tempo e da una congiuntura politica in cui imperavano il colonialismo, le rinnovate discriminazioni razziali e la subordinazione dei popoli oppressi, spesso in misura ben più coercitiva di quanto accadesse nelle loro versioni «all’italiana» improntate alla tradizionale moderazione umanitaria, anche alla luce dell’apporto missionario. Ciò non significa che il predetto giudizio non debba e non possa essere attualizzato, sulla scorta di tanti insegnamenti come quello di Benedetto Croce, per trarne l’essenziale, valido ieri come oggi e domani: la Medaglia d’Oro Niccolò Giani seppe manifestare capacità di sacrificio per il bene collettivo, impegno per la cooperazione, forza determinante della volontà, coerenza cristallina, amore per la famiglia e per la Patria.
Del resto, bisogna pur dire che l’assunto in difesa della razza, così lontano dalla sensibilità egualitaria della nostra epoca, non costituì un fenomeno isolato: al contrario, ebbe una diffusione quasi generalizzata, tanto da trovare frequenti supporti nel pensiero di chi, in tempi successivi, sarebbe diventato paladino della democrazia e della libertà. Tra gli altri, furono razzisti, come attestano le loro affermazioni consegnate a una ineccepibile memoria storica, Giorgio Bocca e non pochi uomini di cultura che poi diedero un permanente ostracismo a Giani, incuranti dei loro trascorsi; per non dire di Amintore Fanfani, Aldo Moro, Enzo Biagi, e persino di Padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica. Ebbene, è spontaneo chiedersi come mai tutti costoro, parte minoritaria di un lungo elenco trasformista, abbiano potuto evolvere rapidamente verso concezioni democratiche, ovviamente antirazziste, senza fare nemmeno ammenda del «giovenile errore» cui sarebbero stati indotti dall’ignoranza (!), mentre Giani, che ebbe il grave torto di cadere per la Patria, è rimasto nel novero dei reprobi fino alla consumazione dei secoli, fatta eccezione per pochi giudizi più obiettivi della storiografia recente.
In effetti, Niccolò era persona di grande levatura etica e di riconosciuta onestà intellettuale, per cui non sarebbe oggettivamente infondato fargli un credito – sia pure esclusivamente teorico – di possibili aggiornamenti del proprio pensiero in materia di razza, del resto profondamente diverso da quello altrui, in quanto schiettamente culturale e spirituale, fermi restando, ben s’intende, l’amore per l’Italia e l’adesione ai valori di un sano patriottismo.
Ciò, senza dire che le suggestioni razziste non furono certamente limitate all’esperienza del fascismo e del nazionalsocialismo. L’antisemitismo sovietico è stato un fenomeno altrettanto diffuso, sebbene edulcorato dalla vittoria e dal verbo anticlassista, e quindi meno visibile, mentre la persecuzione dei popoli oppressi da parte delle Potenze coloniali, come è stato riconosciuto da un noto politologo come l’Ambasciatore Sergio Romano, ebbe a trovare nei comportamenti francesi, inglesi e belgi una prassi nefanda, quasi antitetica a buona parte delle esperienze italiane, cui non furono estranei momenti umanitari riconosciuti dalle stesse controparti, e contributi significativi alla civilizzazione e allo sviluppo.
In questa ottica non ha rilevanza, ai fini di un oggettivo giudizio storico lungi da quello delle vulgate, attribuire a Giani l’etichetta razzista[4] e un marchio d’infamia risparmiato a una pletora di convertiti, ignorando il suo impegno come persona di alta cultura, come grande giornalista e «opinion maker» e soprattutto come paladino di valori che oggi si vogliono frettolosamente sopprimere, tanto da avere indotto un’ampia maggioranza trasversale a depenalizzare reati come l’alto tradimento, e a ridurre l’oltraggio alla bandiera a un semplice illecito amministrativo sanzionabile con una piccola contravvenzione.
Si afferma spesso che i giovani di oggi sono privi di ideali, e che si rifugiano in uno sterile materialismo edonista ed egocentrico, fonte di tante rovine. È tristemente vero, ma la conoscenza di uomini come Niccolò Giani, che seppero onorare coerentemente la propria fede sino all’estremo sacrificio, e dare al proprio comportamento un forte significato prescrittivo, può costituire un buon antidoto, o quanto meno, un invito alla riflessione e al ripensamento.
1 Confronta Mario Consoli, Lasciate stare la Patria: non è cosa per voi!, in «L’Uomo libero», anno XXVI, numero 59, Milano 2005, pagina 5. L’Autore rammenta che Giani era «soddisfatto anche nella vita privata, come marito innamorato e padre di tre bambini» per non dire di quella professionale (oltre a essere ottimo giornalista, nonché direttore del quotidiano varesino, aveva conseguito anche la docenza in Diritto del lavoro e della Previdenza sociale): nondimeno, insistette molto, facendo valere le sue importanti relazioni, «per essere tra i primi a partire ed essere destinato al fronte, dove si combatte veramente». L’Italia era in guerra, e bisognava vincere per «tornare dopo la vittoria a lavorare per pulire quel che c’era di sporco e raddrizzare quel che c’era di storto».
2 Nel marzo 1941, inquadrato nelle file del Battaglione Alpino «Bolzano», Giani era impegnato nella conquista di Punta Nord del Mali Scindeli, un punto strategico in mano al nemico, utile per battere con successo le postazioni italiane. Ebbene, lui era in testa a tutti, lanciava bombe a mano e incitava i suoi uomini: era «quello che arriva più in alto». Fu colpito mortalmente «a cinque metri dalla vetta con in mano l’ultima bomba ancora da lanciare»: come ha ricordato il tenente Piero Mascheroni, che «gli fu accanto sino all’ultimo», vicino a lui non ci furono altri caduti, perché «erano tutti più in basso» (le spoglie mortali, sepolte in forma anonima dai Greci, vennero recuperate in tempi successivi dal fratello Guido e dal cognato Aldo). Conviene aggiungere che, nonostante l’eroismo testimoniato nella motivazione della Medaglia d’Oro alla memoria (che aveva fatto seguito ad altre due Medaglie, rispettivamente d’Argento e di Bronzo, conseguite su fronti diversi) «a guerra finita la vedova di Giani, Maria Rosa Sampietro, fu portata davanti alla Corte d’Assiste di Varese e condannata – non senza dissensi e stupore del pubblico – a tre anni, sette mesi e otto giorni di prigione per avere pronunciato alla radio un discorso di adesione alla Repubblica Sociale Italiana» (confronta Mario Consoli, Lasciate stare la Patria: non è cosa per voi!, in «L’Uomo libero», anno XXVI, numero 59, Milano 2005, pagina 6).
3 Una ricerca onestamente oggettiva su Niccolò Giani e gli altri esponenti della cultura fascista «intransigente» quali Guido Pallotta e Berto Ricci è quella di Aldo Grandi, Gli Eroi di Mussolini: Niccolò Giani e la Scuola di Mistica Fascista, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2004, 304 pagine. Ulteriore importante arricchimento per la bibliografia, peraltro ridotta, circa la figura dell’Eroe è stato il successivo contributo di Tomas Carini, Niccolò Giani e la Scuola di Mistica Fascista, Mursia Editore, Milano 2009, 278 pagine.
4 È utile ribadire che la concezione della razza sviluppata da Giani fu antitetica rispetto a quella del nazionalsocialismo di Adolf Hitler: laddove quest’ultima ebbe carattere spiccatamente «etnico» l’idea di Niccolò fu dichiaratamente «spirituale». Ciò, nell’ambito di un riferimento alle diverse condizioni di sviluppo civile, culturale e umano del mondo latino rispetto agli altri, con particolare riguardo ai Paesi in via di sviluppo, nei cui confronti le posizioni più aperte del colonialismo italiano avevano già proposto, sin dai tempi lontani di Guglielmo Massaja, Pasquale Stanislao Mancini e Leopoldo Franchetti, diffuse istanze di civilizzazione e di contributo al progresso socio-economico. In ultima analisi, non sembra azzardato affermare, utilizzando un concetto appartenente al noto politologo Giovanni Sartori, che quella di razzismo, nel caso di Giani, è una «semantica deviante a effetto descrittivo» perché si riferisce a un contesto etico che governa quelli dell’economia e dell’estetica, e a più forte ragione, dell’etnologia, affermando la priorità di una visione teleologica, non soltanto in senso filosofico, che presiede all’affrancamento di tutti i popoli da ogni tipologia di bisogno, nel quadro di una vera cooperazione.