Lo squadrismo fascista
La violenza dei primi anni Venti del Novecento: una lettura al di là delle ideologie

Uno dei temi sempre «caldi» della storiografia moderna è il fascismo e, in special modo, la violenza che accompagnò l’ascesa e il trionfo dell’ideologia fascista tra la fine della Prima Guerra Mondiale e la Marcia su Roma. Il dibattito si sposta spesso dal piano storiografico al piano politico per evidenti ragioni strumentali: dare all’avversario politico la nomea di «fascista», spesso del tutto a sproposito, equivale a etichettarlo come «violento» e, quindi, a screditarlo o comunque a renderlo meno gradito alla maggior parte degli elettori moderati. In questo contributo cercheremo di delineare quale fu il fenomeno dello squadrismo e della violenza che questo fenomeno portò con sé.

La storiografia ha dato dello squadrismo fascista due visioni opposte e contraddittorie: «santa» reazione al terrore rosso e «legittima» difesa contro il pericolo social-comunista sono etichette di quegli anni e degli anni successivi, quando il fascismo era al potere, mentre oggi la storiografia di sinistra lo vede in modo totalmente negativo (cosa del resto comprensibile). In realtà nello squadrismo, così come in ogni fenomeno di massa, la legalità, il buon proposito e il coraggio convivevano con l’abuso, con il crimine fine a se stesso e con la vigliaccheria. Molte squadriglie adottarono il nome di «Disperata» perché rimandava a un amore verso la Patria da alcuni sinceramente sposato, da altri usato a coperchio delle proprie scorrerie: ad annacquare con matrice violenta la causa del fascismo furono spesso atti incontrollabili, che dalla semplice «lezione» da impartire all’avversario politico di turno sfociarono in risultati più tragici, come nel caso di Giacomo Matteotti.

La Grande Guerra (1915-1918) non aveva risolto i problemi dell’Italia, ma li aveva aggravati e ne aveva scavati di nuovi: il Paese affondava nella paura e nella miseria. Stanchezza, povertà, malattie, amarezze e disagi di ogni tipo sono le parole che meglio descrivono gli anni del primo dopoguerra. Di fronte a un Governo che parlava di «Italia compiuta», «grido della Nazione soddisfatto», «Quarta Guerra d’Indipendenza», i ceti medi che avevano fornito all’esercito gli ufficiali di complemento (commercianti al minuto, artigiani, professionisti, pensionati, piccoli proprietari di terreni e di case), si vedevano scivolare verso le masse popolari e il proletariato (ovvero chi non aveva altro bene che la «prole», cioè i figli); erano carichi di rancore verso gli uomini al potere, gli industriali, i grandi commercianti e proprietari terrieri, i «bolscevichi». Costituirono la prima forza del fascismo, che non era quindi un movimento formato solo da sbandati, da nostalgici della guerra vogliosi di menar le mani, da gente divenuta fascista unicamente perché pagata da industriali e agrari. Gli ex ufficiali congedati e molti soldati non riuscivano a ricollocarsi nel mondo del lavoro dopo una guerra che non aveva portato le grandi espansioni territoriali e coloniali che ci si aspettava, e in più avevano perduto i benefici della vita militare; gli impegni presi ufficialmente in Parlamento, quelli di dare mari e monti ai combattenti, erano rimasti lettera morta. Accanto ai reduci c’erano molti studenti imbevuti di retorica nazionalista ed esaltati per la guerra che non avevano potuto combattere, giovani e meno giovani della piccola e media borghesia, impiegati, liberi professionisti, lavoratori dell’industria, disoccupati alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale: nel fascismo c’era posto per tutti, e tutti credevano di compiere un’opera sacrosanta, non un semplice lavoro politico di propaganda, di punizione o di esempio. Le finalità delle azioni squadriste attiravano nelle squadre idealisti convinti e politici sognatori, mentre i metodi impiegati richiamavano teppisti e assassini in cerca di una fonte di sussistenza.

Il primo esempio di quel gusto della violenza fascista scatenata contro i «nemici della Patria» si ebbe il 15 aprile del 1919 quando, nel corso di uno scontro tra nazionalisti e scioperanti socialisti, i fascisti assaltarono e distrussero la sede milanese dell’«Avanti!», procurando danni gravi alla tipografia e alla redazione del giornale. Non era ancora un’azione squadrista, anche se ne aveva le caratteristiche.

I due anni successivi alla fine della guerra, passati alla storia come il «biennio rosso», furono caratterizzati da violente agitazioni sociali. Tra giugno e luglio del 1919 si ebbero i moti contro l’impennata dei prezzi causata dalla congiuntura internazionale e dai debiti dell’Italia: uomini e donne si riversarono nelle strade, saccheggiando i negozi e imponendo prezzi dimezzati, in seguito proclamando lo sciopero generale. Ma sia il sindacato sia il Partito Socialista Italiano rifiutarono di assumere la direzione del movimento (Claudio Treves scrisse che le masse erano «guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Carlo Marx»).

L’anno successivo furono i bersaglieri in partenza per l’Albania, in contatto con la locale Camera del Lavoro e i movimenti anarchici, ad ammutinarsi e impossessarsi della città di Ancona (26 giugno), mentre l’insurrezione si estendeva alle Marche e alla Romagna. Ancona venne riconquistata il giorno successivo, la rivolta fallì e portò a oltre 500 durissime condanne di tribunali militari e civili.

I ferrovieri avevano adottato sistematicamente la pratica di impedire i movimenti dei treni che trasportavano soldati, carabinieri, poliziotti e a volte anche religiosi. Quando il capostazione di Cremona, Bergonzoni, ordinò ai ferrovieri che dipendevano da lui di agganciare a un treno una carrozza che trasportava delle truppe a Piacenza, il sindacato ferrovieri – dove spadroneggiavano i socialisti – prima chiese al Ministero dei Lavori Pubblici il suo licenziamento, poi, avendo ottenuto una risposta negativa, impose uno sciopero delle ferrovie a Milano, una città di 900.000 abitanti che non aveva nulla a che fare con tutta quella faccenda. Lo sciopero durò per 13 giorni, fino alla mattina del 24 giugno (due giorni prima dei fatti di Ancona raccontati sopra), dopo una manifestazione con colpi d’arma da fuoco che provocarono morti e feriti e la rabbia dei cittadini che montava contro gli scioperanti.

Nello stesso anno si ebbe lo sciopero a oltranza alla FIAT di Torino che aveva licenziato tre operai che per protestare contro l’ora legale avevano spostato di un’ora le lancette dell’orologio della fabbrica: lo sciopero passò alla storia come «sciopero delle lancette»; gli operai, abbandonati dalla Camera Generale del Lavoro, furono costretti ad arrendersi dopo meno di un mese. Tra agosto e settembre si ebbe l’episodio più grave, quando gli operai metallurgici milanesi e torinesi occuparono le fabbriche, iniziando a produrre e vendere per conto proprio, e a difendere gli stabilimenti con le armi (le cosiddette «guardie rosse»). I direttori, i proprietari e gli impiegati furono sequestrati dagli operai; i marchi e le insegne delle fabbriche furono tolti, mentre sui tetti e sulle porte furono issate le bandiere rosse con la falce e il martello; in ogni fabbrica fu formato un comitato soggetto a un ordinamento giuridico socialcomunista. L’occupazione fu accompagnata da atti di estrema ferocia, con esecuzioni sommarie e violente manifestazioni; per 21 giorni non si fece altro che produrre armi bianche come pugnali e spade. La situazione si risolse con un contratto buono sotto l’aspetto salariale (quattro lire in media di aumento al giorno, pari a circa 4,49 euro attuali). Il fallimento dell’occupazione delle fabbriche fu tra le cause principali della scissione del Partito Socialista Italiano a Livorno nel gennaio del 1921, e della formazione del Partito Comunista d’Italia.

Di fronte a questi e altri violenti scioperi che sconvolgevano le città, all’occupazione delle terre e delle fabbriche che provocavano il blocco dell’intero Paese, il crollo della produzione, l’impennata dell’inflazione e la scarsità sempre maggiore dei generi di prima necessità, molti si convinsero che bisognava salvare la Patria dalla sinistra socialista e comunista e dall’inettitudine del Governo. Fu così che nell’autunno del 1920 nacque lo squadrismo fascista, quando i proprietari terrieri scoprirono nei Fasci di Combattimento (nuclei di Arditi della Grande Guerra, sovversivi e rivoluzionari) un utile alleato in grado di abbattere il potere delle leghe socialiste nelle amministrazioni comunali, che miravano a espropriarli delle terre: l’assalto sistematico e la devastazione di Camere del Lavoro e di altri circoli socialisti e comunisti fu almeno in parte la replica alle continue sommosse, agli scioperi, agli attentati, alle occupazioni di fabbriche e alle devastazioni di campi a opera della parte avversa.

La violenza non era una prerogativa fascista ma era condivisa e adottata da tutti i movimenti che tendevano a far partecipare le masse popolari a una vita politica dalla quale lo Stato liberale le aveva fino ad allora escluse: nazionalisti, comunisti, fascisti, socialisti e anarchici non disdegnavano il ricorso alla forza per far valere le proprie ragioni, giuste o sbagliate che fossero; le organizzazioni di lavoratori, soprattutto socialiste, promuovevano il ricorso all’azione violenta e distruttrice, così come lo Stato usava la fucileria contro i manifestanti. L’illegalità era diffusa in molte zone dell’Italia Settentrionale e Centrale, dove il Partito Socialista aveva il pieno controllo dei Comuni e le Camere del Lavoro e le leghe contadine facevano il bello e il cattivo tempo: otteneva lavoro solo chi era gradito alle leghe, che decretavano una vera morte civile a chi non voleva aderire; posti che avrebbero dovuto essere assegnati per concorso venivano attribuiti a membri del Partito; denaro spettante a orfani e vedove di guerra veniva versato agli uffici del lavoro; spese per la propaganda di Partito venivano accollate all’amministrazione pubblica; i proprietari terrieri subivano incendi, distruzioni di raccolti, mutilazioni e uccisioni di animali a scopo intimidatorio. Si arrivò persino a sparare ai funerali di alcuni fascisti. Ha scritto nel 1928 un celebre storico antifascista, Gaetano Salvemini, che «gli stessi atti di violenza che i fascisti commisero durante i primi mesi della loro controffensiva possono essere riguardati con una certa indulgenza. Dato che polizia e magistratura erano incapaci di difendere i cittadini dallo strapotere capriccioso e tracotante delle organizzazioni sindacali, questi stessi cittadini potevano ben cercare di difendersi per mezzo di metodi illegali. Un fascista, in questo primo periodo, doveva esser fornito di un certo grado di coraggio, fisico e morale. Egli doveva affrontare l’impopolarità, era esposto alla violenza fisica delle folle, rischiava di essere ferito od ucciso, rischio che non era così grande come vorrebbe farci credere la propaganda fascista, ma che era abbastanza concreto da far sbollire gli ardori di un uomo comune». Un altro illustre antifascista, Alcide De Gasperi, scrisse il 7 aprile 1921: «Noi non condividiamo il parere di coloro i quali intendono condannare ogni azione fascista sotto la generica condanna della violenza. Ci sono delle azioni in cui la violenza, anche se assume l’apparenza di aggressione, è in realtà una violenza difensiva, cioè legittima».

I fatti di palazzo d’Accursio, a Bologna, il 21 novembre 1920, segnarono l’inizio delle spedizioni delle squadre d’azione fasciste contro esponenti e sedi del movimento socialista: fu la risposta al lancio di bombe a mano da parte dei socialisti sulla folla, scambiata per fascisti che volessero dare l’assalto al palazzo; nella sala del consiglio, alcuni consiglieri «rossi» della giunta appena eletta spararono contro il gruppetto dei conservatori uccidendo il tenente Giordani, bersagliere e mutilato di guerra. Altri morti ci furono pochi giorni dopo a Ferrara. Fu a quel punto che Mussolini decise che era necessario battere l’avversario violento sul campo di battaglia della violenza!

Gli squadristi si riconoscevano per il loro abbigliamento tipico: camicia nera rimediata alla buona, teschio ricamato sulla camicia o sul copricapo, fez (lusso comunque di pochi); completavano il loro armamentario l’olio di ricino per purgare l’avversario, il manganello (o, meglio, il mattarello, ossia semplici bastoni di legno dalle forme e dimensioni più disparate), vino, qualche oncia di tabacco, camion, il tutto condito da audacia, irruenza e spavalderia, sprezzo del pericolo e sfida alla morte.

Lo squadrismo dilagò in breve tempo in tutte le province padane, e nelle zone mezzadrili della Toscana e dell’Umbria, così come nelle Puglie; nei piccoli centri e nelle campagne, il conflitto assunse un’asprezza estrema, perché i social-comunisti non si dimostrarono, almeno all’inizio, un avversario debole o mite. Uno degli assassinii più odiosi, per la brutalità con cui fu compiuto, fu quello dello studente fascista Giovanni Berta, figlio del fondatore delle omonime fonderie fiorentine; il 28 febbraio 1921 il giovane venne sorpreso da una banda socialista su un ponte dell’Arno, scagliato oltre il parapetto del ponte, gli furono recise le mani aggrappate a una sporgenza, così da farlo precipitare nel fiume, dove morì annegato. A Empoli, i «rossi» armati di fucili presero sotto il fuoco incrociato due camion, convinti che si trattasse di fascisti: uno, benché carico di morti e feriti, riuscì a proseguire, mentre l’altro fu bloccato dalla folla inferocita che ne massacrò i passeggeri; solo a eccidio terminato, ci si accorse che non si trattava di fascisti ma di poveri marinai in trasferta da Livorno. Per non parlare della bomba fatta scoppiare dai comunisti al Teatro Diana di Milano, nel corso di un’operetta (23 marzo 2021): l’esplosione provocò 20 morti e 50 mutilati, e un’ondata di indignazione che corse per tutta la città; per rappresaglia, squadre fasciste assaltarono per la seconda volta la sede dell’«Avanti!», che fu data alle fiamme; tre giorni dopo, fascisti fatti affluire da tutta la Lombardia marciarono in colonna per le principali strade di Milano, come dimostrazione di forza.

Le squadre fasciste partivano in genere dalle città e si spostavano da un borgo all’altro prima su camion, in seguito su autocarri dell’esercito e auto private; devastavano e davano alle fiamme i municipi, le Camere del Lavoro, le sedi delle leghe socialiste, le cooperative, le tipografie, le Case del Popolo, sequestravano i militanti politici e sindacali e li sottoponevano a violenze ripetute, bastonandoli e terrorizzando i loro familiari. Fu Italo Balbo a ideare lo stile di combattimento dello squadrismo, privilegiando gli attacchi in forze (almeno 100 uomini) per ottenere il massimo risultato con il minimo pericolo e operando in modo metodico, per esempio bloccando tutte le vie di accesso a un paese e setacciandolo palmo a palmo finché l’ultimo avversario non era stato scoperto e bastonato. Nonostante la cifra dei caduti di opposta fazione durante i caldi anni 1919-1922 si attesti attorno alle 1.200 unità (di cui quasi 500 di parte fascista, tra i 500 e i 600 di parte socialista e comunista, gli altri appartenenti alle forze dell’ordine uccise dai social-comunisti), la violenza fascista puntava più spesso a ferire che a uccidere (in alcune province il rapporto tra omicidi e casi di lesioni fu di 1 a 100), più a paralizzare e sottomettere l’avversario che a eliminarlo fisicamente, più al dileggio e all’umiliazione fino alla vergogna degli antifascisti cui veniva somministrato l’olio di ricino o che venivano rapiti di notte e denudati per strada o legati a un albero. Ma bisogna precisare che la violenza fascista è spesso sovrastimata: gli squadristi avevano il loro interesse a gonfiare il numero delle azioni, la durezza degli attacchi, la quantità dei nemici feriti, così come i socialisti traevano vantaggio dal far apparire l’avversario più attivo, forte e cattivo di quanto fosse in realtà; così un graffio veniva trasformato in una ferita lacerocontusa, e il ribaltamento di due scrivanie era descritto come una distruzione totale.

La velocità di irradiazione e diffusione del fascismo in aree geografiche assai vaste e lontane fra loro si può spesso calcolare in termini di settimane, più che di mesi: essa era favorita dall’abile tattica degli agrari, che regalavano appezzamenti di terra incolta ai sindacati fascisti perché fosse distribuita subito ai contadini senza terra, e dalla situazione sociale delle comunità rurali dove le posizioni dell’avvocato, del notaio, di chi prestava il denaro influenzavano gli spostamenti di opinione dell’intera comunità; inoltre, grazie ai finanziamenti dei proprietari terrieri, molti squadristi ricevevano un compenso circa tre volte superiore alla paga giornaliera di un bracciante e una volta e mezzo a quella di un impiegato dello Stato. Sul versante opposto la sinistra, rispetto al fascismo, mancava sia di un’organizzazione militare unitaria sia di una direzione politica attiva o di un centro di comando: gli stessi «Arditi del popolo» di estrazione social-comunista (che non vanno confusi con gli Arditi della Grande Guerra), comandati dal sindacalista ennese Giuseppe Mingrino, arrivarono a contare solo 800 aderenti e si spensero dopo soli otto mesi dalla nascita. Dall’inizio del 1921 al 31 marzo dello stesso anno le adesioni ai Fasci di Combattimento quadruplicarono superando le 80.000 unità; nei due mesi successivi arrivarono fino a 187.000, in ottobre raggiunsero la quota di 217.000; alla fine dell’anno erano 249.036. Ormai avevano sotto controllo le regioni agricole più importanti, e le organizzazioni fasciste cominciarono a sostituirsi ai sindacati socialisti: erano strutture di tipo nuovo, che mettevano insieme proletari, contadini, piccoli possidenti e imprenditori uniti dall’avversione di classe, dalla volontà di compiere una controrivoluzione preventiva che eliminasse una volta per tutte il «pericolo rosso», dal desiderio di rivincita e di vendetta dopo un periodo di frustrazione, dallo spirito di avventura e di emulazione, dall’interesse personale, dal desiderio di farsi avanti nella vita sociale e politica. Dopo il successo nelle campagne, arrivarono finanziamenti anche dagli industriali e il fascismo sfondò nelle grandi città del Settentrione. A nemico sconfitto, lo squadrismo perse quel che aveva di ardimentoso e diventò un gioco al massacro; così, quando il 7 novembre del 1921 il movimento fascista fu trasformato in Partito Nazionale Fascista con un suo programma politico (antisocialismo, rifiuto di adottare come base costituzionale la Carta del Carnaro di D’Annunzio, apertura verso la Chiesa), gli squadristi vennero inglobati nel Partito come un vero e proprio contingente paramilitare: Mussolini tese a frenare il sovversivismo degli squadristi e di alcuni capi per presentarsi agli occhi del ceto politico tradizionale come l’unico uomo capace di incanalare il fascismo nella legalità. Nell’estate del 1922, il fascismo darà vita ai primi maxi-raduni di squadristi: ormai migliaia di uomini occupavano città intere, distruggendo sistematicamente sezioni di partiti avversi, cooperative, Camere del Lavoro.

Nonostante la grande maggioranza dei delitti di matrice fascista sia stata denunciata e non siano mancati arresti e condanne di fascisti, la polizia e la magistratura divennero col tempo sempre più indulgenti nei confronti degli squadristi, anche per volontà di Giolitti che pensava di poter controllare e utilizzare i fascisti in chiave antisocialista per poi riassorbirli con un programma politico moderato o domarli con la forza: molti cominciarono a vedere nei fascisti coloro che avrebbero potuto garantire la pace interna (che avrebbe dovuto essere una delle funzioni essenziali dello Stato) e il ritorno all’ordine, cosicché il fascismo acquisì sempre nuove posizioni in campo organizzativo, propagandistico e strutturale rispetto a tutti i partiti liberali e democratici. I borghesi più conservatori avevano cominciato a considerare il fascismo un movimento patriottico che non avrebbe provocato alcuno sconquasso politico e sociale già nel 1920, quando Mussolini si era schierato a favore degli operai che occupavano le fabbriche e delle loro rivendicazioni salariali e non aveva contrastato la decisione del Governo di risolvere con la forza la questione di Fiume (evitando così una pericolosa crisi internazionale e il rischio di ulteriori disordini interni); i fascisti di due anni dopo potevano apparire violenti e arroganti, ossessionati dalla bellezza della guerra e del sangue, ma avevano un fascino a cui il popolo era sensibile: promettevano un futuro radioso e una potenza nazionale mai raggiunta, mostravano che il «pericolo rosso» poteva essere vinto e la rivoluzione allontanata per sempre.

Il 1° agosto del 1922 le sinistre commisero un errore fatale: proclamarono uno sciopero generale a tempo indeterminato contro il fascismo. La borghesia rimase atterrita dal ricordo degli scioperi di due anni addietro e il fascismo si erse come suo paladino. Allo sciopero aderirono solo alcune categorie di lavoratori, e anche quelle per metà; i fascisti si sostituirono a chi incrociava le braccia per garantire e far funzionare i servizi pubblici. Dopo due giorni l’iniziativa fallì miseramente e lo squadrismo ne approfittò per distruggere quello che restava delle organizzazioni avversarie.

Ormai il fascismo era pronto per prendere il sopravvento sullo Stato: la soluzione della crisi politica e la restaurazione della stabilità erano finiti per apparire in buona parte come dipendenti dalla volontà dei suoi capi. La pubblica opinione vedeva nel fascismo, non più nello Stato, l’unica forza capace di far andare avanti le cose e non era più disposta a sottilizzare sui metodi. La Marcia su Roma, un «colpo di Stato» del tutto incruento e quasi surreale, maturò proprio quando i funzionari dello Stato potevano operare solo con la benevolenza o l’alleanza dei fascisti, ovvero quando non avevano più alcun potere autonomo, e quando la stragrande maggioranza degli Italiani appoggiava o era disposta ad appoggiare Mussolini.

Si può quindi dire che alla nascita del regime fascista concorsero tanto l’abilità di Mussolini, quanto gli errori dei socialisti e dei liberali.


Bibliografia

Autori Vari, La Storia, volume 13, L’età dei totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale, De Agostini Editore S.p.A., Novara 2004, pagine 163-180

Benito Mussolini, La mia vita, Rizzoli Editore, Milano 1983, pagine 94-109

Giordano Bruno Guerri, Fascisti, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano 1995, pagine 64-89

Giovanni Curatola, Ritmi littori, Aurora Edizioni, Stradella (Pv) 2002, pagine 22-40

Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 38: La fine del regime liberale, Fabbri Editori, Milano 1994, pagine 96-144

Sito internet inflationhistory.com, fonte: ISTAT.

(novembre 2021)

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