Una vicenda difficile. Due Vescovi e i processi fascisti di italianizzazione
La vicenda di Monsignor Santin e Monsignor Nogara in Istria e nelle Venezie. Una situazione complessa

Nel periodo precedente il Secondo Conflitto Mondiale e in tempi successivi i Vescovi Italiani, operanti in regioni ove era presente una componente non debole di Croati e di Sloveni, si trovarono ad affrontare una realtà complessa con riferimento alle lingue locali.


La vicenda di Monsignor Santin

Monsignor Antonio Santin (Rovigno, 9 dicembre 1895-Trieste, 17 marzo 1981)[1] fu nominato Vescovo della diocesi di Fiume[2] il 20 agosto del 1832. Venne consacrato il 29 ottobre 1933 (dall’Ordinario di Parenzo-Pola Trifone Pederzolli). Prese possesso della sua sede l’11 novembre successivo.


Fiume

Fin dall’inizio del suo ministero (1933) il presule non ebbe difficoltà a riconoscere il carattere plurilingue della diocesi. Nella predicazione e nei diversi incontri della visita pastorale utilizzò lo sloveno e il croato che conosceva.[3]

1) La permanenza di Monsignor Santin a Fiume fu segnata anche dalla «questione dello schiaveto». Si trattava di una forma arcaica di croato legata alla liturgia paleoslava, vicina al glagolitico, che un gruppo non esiguo di fedeli intendeva mantenere nelle parti cantate della Messa e in talune cerimonie liturgiche.

In tale situazione permaneva nella popolazione una tradizione religiosa unitamente al desiderio di conservare la propria identità nazionale. Esisteva infatti una decisa opera di snazionalizzazione imposta dal fascismo.[4]

Si trattava di una linea con poche prospettive positive. Nel febbraio del 1929 era stato firmato un Concordato tra la Chiesa e lo Stato Italiano. L’evento, accolto con entusiasmo dal mondo cattolico, richiese però anche delle intese in ambito locale.

Nel contesto delineato è interessante rileggere alcune precisazioni dello stesso Monsignor Santin:

«Lo schiaveto[5] in chiesa, che completamente sostituiva il latino nella Messa, era da noi un abuso, che già ripetutamente la Santa Sede aveva proibito. La lingua liturgica era la latina. A me interessava di difendere nelle chiese l’omelia, la dottrina per i fanciulli, i canti sacri, nella lingua del popolo, mentre vi erano continue pressioni che si tenessero anche queste in italiano.

Mi rivolsi alla Santa Sede, che rispose come aveva sempre risposto: l’abuso andava tolto, il latino era la lingua liturgica. Tentai di far capire al clero e al popolo che non si poteva continuare con contrasti che turbavano gli animi e la pace delle sacre funzioni e che adeguarsi liturgicamente al latino universale era obbedire alla Chiesa, che questo aveva sempre chiesto.

[…] Quello che era essenziale era difendere – come avremmo fatto a ogni costo – la predicazione, la dottrina e i canti. Vi fu chi capì, e chi non capì. Certo la disposizione trovò resistenza. Si gettò falsa luce sopra la legittimità della stessa e le ragioni che l’avevano provocata e che erano a difesa della lingua del popolo nelle cose più necessarie».[6]

2) La fermezza di Monsignor Santin (in tutte le chiese croate doveva essere usata la liturgia latina[7]), in linea anche con le norme concordatarie, nonché i tentativi di limitare l’insegnamento della religione in lingua materna al di fuori della scuola, suscitarono polemiche in diocesi.

Numerosi sacerdoti sloveni e croati presentarono un memoriale di protesta alla Sacra Congregazione dei Riti, e alcuni fedeli croati arrivarono a interagire con il pope di Peroj per un passaggio alla Chiesa ortodossa.

3) In un contesto segnato da criticità, Monsignor Santin, seguendo l’orientamento della Santa Sede (Papa Pio X, Congregazione dei Riti), vincolante per i Vescovi, emanò una serie di circolari sfavorevoli a quelli che erano indicati come «abusi nella lingua liturgica».

In pratica, si faceva riferimento alla celebrazione della liturgia paleoslava e all’uso dei volgari sloveno e croato nell’amministrazione dei sacramenti e in alcune devozioni.[8] Tra le carte di Monsignor Santin si legge: «pieno ed evidente abuso» di «cantare in sloveno le parti fisse della Messa» e «abusi nel rituale», mentre dei Croati scrive: «tutta» la Messa viene cantata in «schiavetto», cioè «un croato alquanto antiquato» e arcaizzante, che «non è il glagolitico, una lingua liturgica ammessa».[9]

4) Si strutturò in tal modo una realtà complessa. Esisteva una dura pressione del regime fascista (1933) per favorire una campagna di snazionalizzazione. Permaneva l’orientamento della Santa Sede (precedente il fascismo). Ed era presente nel Vescovo una notevole ansia pastorale. Si trattava infatti di agire in modo da valorizzare l’apporto sacerdotale di ogni presbitero e le sue interazioni con i fedeli.

Per tale motivo ci si orientò per una linea flessibile. I passi compiuti con le autorità politiche del tempo cercarono di evitare una situazione logorante di continuo attrito. Con le popolazioni locali si volle utilizzare lo sloveno e il croato specialmente in tutte quelle occasioni che non richiedevano l’uso della lingua liturgica ufficiale. Tale linea venne considerata non condivisibile da parte del clero interessato. E venne contestata.

5) Nel 1936 Monsignor Santin, applicando una disposizione del Governo, dispose che il clero, nell’ora scolastica di religione, doveva insegnare in italiano. Emersero subito delle critiche. I sacerdoti sloveni e croati della diocesi trasmisero (senza esito) un memoriale alla Santa Sede.


Trieste e Capodistria

Il 16 maggio 1938 Monsignor Santin fu nominato Vescovo di Trieste e Capodistria. Il suo predecessore era stato Monsignor Luigi Fogàr.[10] Quest’ultimo, due anni prima, dovette rassegnare le dimissioni a causa delle pressioni del regime fascista. Il 4 settembre il nuovo presule fece il suo ingresso a Trieste. Manifestò presto una linea d’azione molto decisa. L’obiettivo era quello di animare la vita pastorale, e di proteggere i diritti della Chiesa. Monsignor Santin fu Vescovo di Trieste dal 1938 al 1975.[11]

1) Nel settembre del 1938 (a Trieste), e nel dicembre dello stesso anno (a Roma), Monsignor Santin incontrò Mussolini. In tali occasioni protestò per le persecuzioni a danno degli Slavi e degli Ebrei. Fu sostenuto da molti fedeli e dalla redazione del settimanale diocesano «Vita Nuova». Tale posizione si ricollegava con l’atteggiamento di condanna di Pio XI.

2) L’invasione della Jugoslavia (6-17 aprile 1941) da parte degli eserciti italiani e tedeschi aggravò i rapporti, già tesi, tra Italiani e Sloveni e la lotta partigiana contro gli occupanti segnò una divisione anche nel clero diocesano. Una parte dei sacerdoti sloveni e croati si era schierata a fianco del Movimento di Liberazione e delle sue rivendicazioni nazionali. In tal modo collaborava di fatto con i comunisti (forza trainante della resistenza).

Monsignor Santin, al contrario, espresse una condanna verso quei «nemici dell’ordine» che, con una «falsa propaganda», conquistavano consensi tra la popolazione.

3) Nella prima fase della guerra (dal maggio del 1941 al febbraio del 1942) Monsignor Santin fu anche amministratore apostolico nella vacante diocesi di Parenzo e Pola).

Intervenne in più occasioni presso le autorità del tempo per difendere la popolazione slava che subiva i provvedimenti di internamento.

4) Il 15 aprile 1943 Monsignor Santin indirizzò, insieme con gli altri Vescovi della Venezia Giulia, un memoriale a Mussolini. Nel documento si denunciavano le violenze del regime contro i fedeli sloveni e croati.

5) Prima e dopo l’8 settembre 1943, Monsignor Santin intervenne con frequenza presso le autorità del tempo, a difesa di Ebrei e antifascisti, Italiani e Slavi, intrattenendo anche discreti contatti con le varie espressioni del Movimento di Liberazione. Sul piano ufficiale disapprovò le azioni militari di resistenza perché causavano rappresaglie a danno della popolazione civile.

6) Nell’immediato periodo di fine conflitto (1945) riaffiorarono nuovamente delle posizioni critiche verso il comportamento mantenuto in quegli anni dal Vescovo nei confronti dei fedeli sloveni. Ne fu portavoce il sacerdote Virgil Šček.[12]

Nel settembre 1945, Šček si dichiarò a favore dello «Osvobodilna fronta» («Fronte di Liberazione»). Questo sacerdote, inoltre, attaccò le opzioni «filoitaliane» del Vescovo.

In tale situazione Monsignor Santin dovette rispondere. La sua replica fu segnata da una posizione forte. Quest’ultima riguardò quei sacerdoti che, sostenendo Šček, intendevano rinvigorire il «Sodalizio dei sacerdoti di San Paolo» (di antica data)[13], caro al clero sloveno:

«Apprendo che domani si dovrebbe tenere a Trieste una riunione del Clero Sloveno sotto gli auspici dello “Zbor s. Pavla”. Proibisco a tutti i sacerdoti di intervenire e di riunirsi sotto qualsiasi pretesto».[14]

7) Nel 1946 Monsignor Santin manifestò di nuovo una linea non flessibile. Il fatto trae origine da una riunione del clero sloveno e croato della diocesi di Trieste-Capodistria. Questa si svolse il 2 luglio 1946 a Trieste. In tale occasione, il sacerdote Jakob Ukmar fu incaricato dal clero di redigere una lista di lamentele sul modo in cui fino ad allora il Vescovo aveva guidato la diocesi. Il testo (12 punti) aveva per titolo: Appunti del clero slavo (sloveno e croato) circa il governo delle unite diocesi di Trieste e Capodistria (la data è del 6 settembre 1946). Ad esempio si evidenziava il fatto che «nemmeno dopo il mese di luglio del 1943, [avevano] sentito il Vescovo alloquirli nella loro lingua». Il documento era stato elaborato in latino dal sacerdote Jakob Ukmar.[15] Il Vescovo non condivise le rimostranze.

8) La contrapposizione si prolungò nel tempo. Monsignor Santin cercò di attenuarla rivolgendo attenzione al carattere plurilingue della diocesi. Ad esempio, nel 1947, il presule organizzò una missione cittadina a Trieste, con predicazione in italiano e sloveno. E nel 1948 il Vescovo approvò l’associazione denominata «Duhovska zveva» («Lega sacerdotale»).


La vicenda di Monsignor Nogara

Monsignor Giuseppe Nogara (Bellano, 26 giugno 1872-Udine, 9 dicembre 1955) fu eletto (27 gennaio 1928) Arcivescovo Metropolita di Udine. Ne prese possesso nel mese di ottobre dello stesso anno. La sua guida durò 27 anni, fino al 1955 – in conformità con le direttive magisteriali di Pio XI, quindi di Pio XII – durante il succedersi del Ventennio fascista, della Seconda Guerra Mondiale, dell’occupazione nazi tedesca, della Resistenza e, quindi, degli inizi della Repubblica Italiana.


Udine

In una fase iniziale, Monsignor Nogara partecipò al diffuso consenso cattolico legato alla firma dei Patti Lateranensi. Però, alla fine del mese di maggio 1931, unitamente all’episcopato italiano, deplorò lo scioglimento dell’Azione Cattolica Italiana.

1) Dal settembre del 1931, dopo l’intesa Stato-Chiesa sull’Azione Cattolica, Monsignor Nogara mantenne l’interazione con il Duce e il regime in termini non conflittuali. Malgrado ciò, il presule, quando lo ritenne necessario, indirizzò rilievi critici verso il Governo Fascista.

2) Nell’agosto del 1933 viene proibito formalmente di sostituire l’italiano con altre lingue.

3) Le pressioni politiche su Monsignor Nogara furono molto decise. Nel 1933 il prefetto di Udine, Riccardo Motta[16], dette comunicazione all’Arcivescovo «d’impartire disposizioni» perché nelle Valli del Natisone fosse «usata dai sacerdoti la lingua italiana sia nell’insegnamento del catechismo che nelle prediche».[17] Il 7 agosto 1933 il prefetto Temistocle Testa[18], comunicò a Monsignor Nogara la seguente disposizione del Governo:

«Sua Eccellenza il Capo del Governo [Benito Mussolini], desidera che Vostra Eminenza proceda energicamente nei riguardi dei sacerdoti che ancora si mostrino non sufficientemente compresi dei loro doveri verso la Nazione e verso il Regime e che non sia permessa la ristampa del catechismo sloveno, e che anzi, se detto catechismo è in circolazione, sia sequestrato».

4) Monsignor Nogara in seguito al divieto dell’uso dello sloveno nel catechismo e nella liturgia per le comunità della Slavia Friulana manifesta riserve ed è vicino alle ragioni del clero interessato.[19]

5) L’Arcivescovo, pressato dal Capo del Governo e dal prefetto, ricorre alla Santa Sede. Raggiunge Roma con alcuni sacerdoti[20] e chiede sostegno. Dagli ambienti vaticani non ci sarà aiuto. Il divieto rimane quindi vincolante. Malgrado ciò si cerca di non cancellare lo sloveno usando vari espedienti (ad esempio brevi riassunti di testi liturgici e catechistici in questa lingua).

6) Nel 1938 una proibizione dell’uso del tedesco nella Val Canale[21] – area unita alla diocesi di Udine dal 1933 – fu però resa inefficace. La situazione critica aveva avuto inizio nel 1922 con la sistematica eliminazione delle tradizioni linguistiche locali a vantaggio dell’uso esclusivo della lingua italiana negli uffici pubblici e nelle scuole.

7) Dopo l’8 settembre 1943 Monsignor Nogara cercò di rimanere al di sopra delle parti. Accentuò le iniziative di assistenza. Fu cofirmatario del documento ufficiale dei Vescovi del Litorale Adriatico riuniti a Trieste il 14 marzo 1944. Il testo venne fatto circolare (con scarsi esiti) in tutte le chiese. I presuli deploravano il disprezzo e le lesioni per la dignità e i diritti della persona da chiunque fossero perpetrati. Inoltre, si chiedeva a chi esercitava la forza, di non infierire su popolazioni inermi.

Monsignor Nogara operò con il suo clero in molteplici modi verso il popolo friulano, confortando e assistendo i deportati, soccorrendo le popolazioni depredate e devastate, proteggendo quanti erano ricercati dai nazisti, i carcerati, i condannati, i feriti, interponendosi come mediatore per lo scambio dei prigionieri.

8) Nella difficile situazione di un Friuli segnato pesantemente dal secondo dopoguerra, l’Arcivescovo indirizzò al clero direttive con riferimento al laicato. L’iniziativa, oltre a facilitare il superamento di talune criticità, servì a fronteggiare il pericolo del comunismo titoino. Quest’ultima realtà assumeva nella regione e nella diocesi friulana un aspetto peculiare. Erano infatti note le mire espansionistiche iugoslave in direzione dei territori di confine. Tale situazione pesava negativamente sulla popolazione e sul clero di lingua e cultura slava delle Valli del Natisone.


ALLEGATO 1 (rif. il contesto storico. Monsignor Nogara)
Fonte: F. Nazzi, Il Duce lo vuole.

«Ieri sera verso l’Avemaria, mentre ero in chiesa a confessare i bambini, un carabiniere venne a chiamare il parroco in caserma per comunicazioni urgenti, diceva lui.

Sicché egli ci andò subito e in caserma trovò il tenente che in modo tutt’altro che cortese gli disse così:

“Sappi che siamo in Italia e che è ora di finirla con l’uso della lingua slovena.

Le do ordine in nome di Sua Eccellenza il Prefetto:

a) di predicare e di istruire in chiesa in lingua italiana;

b) di non proferire un sola, una sola parola in slavo ai fanciulli quando insegna il catechismo;

c) i catechismi sloveni sono sotto sequestro.

Le associazioni di azione cattolica in questa zona sono sciolte fino a nuovo ordine.

L’approvazione dell’autorità ecclesiastica non tarderà a venire”.

E così dicendo mi presentò un modulo da firmare che accettavo».

È la cronaca scarna scritta nel libro storico della parrocchia di San Leonardo dal parroco, don Giuseppe Gorenszach[22], della proibizione dello sloveno nelle chiese della Slavia voluta 60 anni fa dallo stesso capo del Governo Fascista, Benito Mussolini.

Di questo fatto storico possediamo altri resoconti redatti dai sacerdoti delle valli.

Sono scritti che da una parte tradiscono una maggiore passionalità e consapevolezza della gravità del fatto, dall’altra mettono in evidenza la sfrontata illegalità del provvedimento e i metodi degni del regime fascista.

Il cappellano di Lasiz, Don Antonio Cuffolo, nota che la proibizione fu preceduta da una campagna di calunnie, denunce anonime e pedinamenti nei confronti dei sacerdoti locali.

«Quando ai nemici sembrò che l’ambiente fosse già impressionato e preparato – scrive nel libro storico della parrocchia – il tenente dei Reali Carabinieri invitò i più temibili sacerdoti della zona, e cioè i cappellani di Lasiz, Antro, Mersino e Vemasso [rispettivamente Don Cuffolo, Don Cramaro, Don Simiz e Don Pietro Qualizza] per il giorno 16 nella caserma dei carabinieri di San Pietro.

Il tenente presentò ai quattro sacerdoti per la firma una imposizione per la quale da quel giorno non avrebbero più usato la lingua locale nelle preghiere, nella predicazione e nella dottrina cristiana.

I sacerdoti protestarono contro l’arbitraria imposizione contraria alle leggi naturali, ecclesiastiche, eccetera.

Ne nacque una violenta discussione che minacciava serie conseguenze.

In conclusione i quattro sacerdoti alla dichiarazione preparata dal tenente aggiunsero di proprio pugno:

“I sottoscritti accetteranno soltanto se l’ordine verrà dato dall’autorità ecclesiastica o almeno attraverso la stessa”.

Detta dichiarazione fece andare su tutte le furie il tenente, ma i sacerdoti non si lasciarono impressionare».

I preti delle valli si rivolsero all’Arcivescovo di Udine, Monsignor Giuseppe Nogara, per informarlo dell’accaduto e ricevere istruzioni.

E lui per mezzo del vicario foraneo, Don Giovanni Petricig[23], raccomandò di accettare l’ordine del Governo per evitare mali peggiori e anche il confino.

Egli intanto, prima di partire per il pellegrinaggio in Terra Santa, si sarebbe rivolto alla Santa Sede per ricevere direttive.

Le ultime prediche in sloveno nelle chiese della Slavia si ebbero, dunque, il 15 agosto, festa dell’Assunzione della Madonna.

Don Giuseppe Chiacig[24] nel libro storico della parrocchia di Tercimonte annota:

«Il discorso tenuto dal cappellano di Tercimonte il giorno dell’Assunzione nella chiesa di Vernasso fu l’ultimo ufficialmente sloveno. Dopo 1.300 anni di pacifico possesso dell’uso della propria lingua viene l’ordine da parte dell’autorità civile, senza la minima resistenza dell’ecclesiastica, di parlare in italiano».

Il danno alla vita religiosa, all’associazionismo cattolico, alle secolari tradizioni locali, al ricchissimo patrimonio di canti, preghiere e pratiche religiose e allo stesso dialetto sloveno furono incalcolabili.

I sacerdoti se ne resero conto ma le autorità diocesane no.

«E così dopo oltre 1.000 anni, – commenta Don Cuffolo – contro tutte le tradizioni, contro tutte le leggi della Chiesa, con danno evidentissimo per le anime solo perché il detto “il Duce lo vuole” aveva impedito all’autorità ecclesiastica dì prendere francamente una posizione, è avvenuto un cambiamento nella cura d’anime.

Per le strade, osterie, municipi, botteghe, esattorie si parlerà, si farà i propri interessi adoperando la lingua materna, solo in chiesa sarà proibita.

Proibiti i canti tradizionali e preghiere che non saranno più sostituiti. Il nemico della Chiesa ha raggiunto lo scopo, “il Duce lo vuole”».

Don Cramaro[25] nell’inviare a Monsignor Nogara una relazione sulle Missioni tenute nella cappellania di Antro in occasione dell’Anno Santo della Redenzione, riferisce che, dopo le prediche in italiano, le donne si riunivano in segreto per sentire da lui le spiegazioni in sloveno.

«Ho avuto la sensazione precisa – commenta Don Cramaro – di vivere ai tempi dell’Impero Romano, quando i fedeli dovevano radunarsi di nascosto per le proprie pratiche religiose... ma quale differenza fra la Chiesa di allora e l’odierna...».

Non trovando sostegno e adeguate risposte dal proprio Vescovo, i sacerdoti si rivolsero alla Santa Sede e perfino al Duce.

Il curato di Codromaz, Don Natale Zufferli, il 4 settembre invia una lettera a Mussolini nella quale illustra con pacatezza i problemi della zona e i ritardi nel campo dell’istruzione elementare.

Ma per Don Zufferli la proibizione dello sloveno crea anche problemi di sopravvivenza economica.

«D’altra parte – sottolinea – i fedeli si rifiuterebbero di stipendiare più oltre il proprio vicario quando questi non potesse più prestare il servizio religioso nella lingua da essi intesa e parlata, per tal modo il sottoscritto si vedrebbe privato di ogni mezzo di sussistenza...».

Verso la fine di settembre Don Zufferli e Don Cramaro, anche a nome degli altri sacerdoti, si recano a Roma per presentarsi alla Segreteria di Stato insieme con l’Arcivescovo Nogara appena tornato dal pellegrinaggio in Palestina.

Questo avvenne il 27 settembre 1933.

Furono ricevuti da Monsignor Pizzardo[26], Uditore della Segreteria di Stato per gli affari straordinari, e lo misero al corrente di quell’increscioso avvenimento.

Ma quel colloquio non portò alcun risultato.

Allora i due sacerdoti stesero un breve memoriale e lo spedirono a Papa Pio XI depositandolo all’ufficio postale del Vaticano.

Di quella lettera non si poté avere mai riscontro ufficiale.

Si sa soltanto che Monsignor Pizzardo in seguito scrisse a Monsignor Nogara in questi termini:

«1) Si userà tolleranza circa l’uso della parola slovena nella spiegazione del testo italiano del catechismo ai fanciulli.

2) La predicazione agli adulti deve essere fatta solo in italiano.

3) I sacerdoti che hanno presentato il ricorso alla Santa Sede si sono dimostrati passionali».

Non una parola in più.

(Giorgio Banchig)


Alcune considerazioni di sintesi

Sono stati diversi gli Autori che in tempi recenti hanno cercato di meglio comprendere le vicende di Sloveni e Croati con attenzione anche ad aspetti riguardanti l’uso della lingua liturgica. Oltre i testi già citati si può ricordare anche il volume dal titolo: Nazionalismi di frontiera: identità contrapposte sull’Adriatico Nord-Orientale 1850-1950, a cura di Marina Cattaruzza (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003). È un lavoro che ha tentato di sviluppare un disegno globale. In tale contesto alcuni dati storici rimangono significativi.

1) Nello sviluppo del Cristianesimo l’uso di lingue locali in attività strettamente liturgiche costituì un tema che si ripresentò più volte lungo i secoli. Tale situazione emerge con chiarezza nelle vicende missionarie. Partendo dall’azione dei fratelli Cirillo e Metodio (alfabeto glagolitico; IX secolo), si affrontano le esperienze – ad esempio – del Gesuita Matteo Ricci in Cina (1600), o quella dei Barnabiti in Birmania (1722-1832), o quelle nel continente africano. In tale dinamica la Santa Sede dimostrò prudenza ma anche una volontà mirata a comunicare con i più diversi interlocutori al fine di far comprendere in modo intellegibile le verità del Vangelo.

2) In tempi moderni si confermò una tendenza mirata a valorizzare la lingua latina al fine di ricordare l’unità della Chiesa e il fatto che quest’ultima non si identifica con un solo Paese (non ci sono Chiese nazionaliste cattoliche) ma con tutto il mondo conosciuto (universalismo di salvezza).

3) Tale orientamento trovò, però, diverse criticità a motivo del modo di vedere di un clero che non sempre condivise decisioni ritenute insensibili a una questione di identità nazionale (o locale).

4) Oltre alle reazioni strettamente legate alla vita delle Chiese locali, si aggiunsero poi delle vicende strettamente politiche che condizionarono in modo anche violento gli equilibri che nel tempo erano stati faticosamente raggiunti.

5) In Italia, l’avvento del regime fascista, con la sua politica egemonica, rimise in discussione anche situazioni che riguardavano abitanti di aree abitate soprattutto da Croati e da Sloveni. Per Mussolini la Chiesa – che aveva firmato i Patti Lateranensi nel 1929 – aveva «l’obbligo» di sostenere le direttive del Governo mirate ad accentuare al massimo i piani di italianizzazione di ogni territorio incluso nel Regno, con l’immediata conseguenza di una snazionalizzazione di quelle popolazioni che rivendicavano la propria identità anche con l’uso della propria lingua.

6) Da tale premessa politica derivarono una serie di provvedimenti che intervennero anche in materie riservate alla Chiesa (azione pastorale e liturgica).

7) Il fatto fu particolarmente grave perché molti Vescovi avvertirono subito il pericolo di divisioni all’interno del clero. Si comprende da qui il numero non debole di iniziative mirate a ridurre l’entità delle decisioni con possibili «aggiustamenti» in funzione di riequilibrio.

8) Il Governo di Roma, che a suo tempo aveva dovuto arretrare davanti alla questione dell’Azione Cattolica (1931), non intese propendere per nuove intese e mobilitò i prefetti. Quest’ultimi, in taluni casi, usarono i metodi forti, convocarono sacerdoti per interrogatori, e minacciarono ultimatum. Tra queste autorità territoriali si può ricordare il prefetto Temistocle Testa, dichiarato alla fine del Secondo Conflitto Mondiale criminale di guerra.

9] Nella Venezia Giulia i provvedimenti decisi dal regime comportarono l’abolizione dell’uso della lingua slovena e croata nella liturgia e nella catechesi.

10) Clero e fedeli (specie in ambito rurale) svilupparono una resistenza percorrendo la via dei riti celebrati in modo nascosto.

11) Si strutturò così un rapporto critico che vedeva da una parte fedeli e sacerdoti slavi, mentre dall’altra si trovavano quei presuli che dovevano tener conto delle direttive ecclesiali di livello superiore e delle minacce politiche.

12) In tale contesto, le non univoche visioni ecclesiali furono segnate anche dalle diverse mentalità. Lo stesso ruolo del clero, ad esempio, venne inteso in modo differente. A quest’ultimo, infatti, gli Sloveni riconoscevano una funzione notevole nella conservazione dell’identità nazionale. Per taluni Ordinari Diocesani Italiani, al contrario, le istanze locali derivavano da processi nazionalistici che si scostavano da una visione universale della Chiesa e che seguivano logiche meramente interne.

13) Il proseguimento dei confronti su criticità non risolte ebbe a sua volta un ulteriore effetto negativo. In un numero non debole di Sloveni e di Croati si formò la convinzione che la gerarchia ecclesiastica aveva fatto una scelta precisa: quella di collaborare con il regime alla politica di italianizzazione che riguardava ogni aspetto della vita sociale. Da qui le reazioni, anche accentuate.

14) Nella realtà fin qui delineata si collocarono pure le figure di due Vescovi: quella di Monsignor Antonio Santin, e quella di Monsignor Giuseppe Nogara.

15) Studiando le lettere private di questi presuli, ma anche le lettere pastorali e le memorie scritte da persone che interagirono con gli Ordinari citati, ci si accorge che il loro desiderio primario rimaneva quello di favorire un movimento ecclesiale capace di rafforzare da una parte l’opera dei sacerdoti e dei religiosi, e – contemporaneamente – di tenere unita l’Azione Cattolica, in considerazione del fatto che era l’unica associazione cattolica rimasta attiva (pur con limiti).

16) Il principio di pastoralità risulta evidente nei colloqui interpersonali, nelle visite pastorali e nella presenza dell’Ordinario in momenti critici della vita delle comunità. In tutte queste situazioni i Vescovi Santin e Nogara non seguirono mai una linea di allontanamento dalla lingua dei Croati e degli Sloveni (che parlavano correttamente).

17) Questi Pastori, invece, ubbidirono alle direttive centrali della Chiesa che riteneva importante l’uso del latino nelle funzioni liturgiche.

18) Rimaneva quindi la questione dell’italiano. Tale situazione fu di fatto «normalizzata» dai prefetti fascisti che dettero ordini ai loro subalterni di controllare l’esatta esecuzione delle direttive mussoliniane. Rilevasi al riguardo che rimane ampiamente documentato il fatto che nel caso di inosservanza degli ordini, si attivavano dei provvedimenti di natura disciplinare. In caso di ripetizione di un comportamento disapprovato, il soggetto inadempiente doveva essere esonerato dal suo ufficio e allontanato dalla zona ove operava.

19) Per i Vescovi Santin e Nogara non si trattò quindi di «sostenere» la politica fascista, ma solo di prendere atto di una realtà che era stata voluta «dall’alto», e che era controllata (Polizia fascista, OVRA) da autorità esterne alla gerarchia cattolica.

20) Le decisioni dei Vescovi citati costituirono quindi un atto che mirò a non estendere ulteriormente delle tensioni che sarebbero poi esplose verso la fine del Secondo Conflitto Mondiale. Tale orientamento, mentre da una parte sembrò avallare senza remore una decisione politica, dall’altra permise ai presuli di muoversi in più ambienti (direttamente o indirettamente) così da assistere e difendere i colpiti dalla guerra e i perseguitati del tempo.


Bibliografia

Su Monsignor Antonio Santin:

L. Čermelj, Il Vescovo Antonio Santin e gli Sloveni e Croati delle diocesi di Fiume e Trieste-Capodistria, Inštitut za narodnostna vprašanja pri Univerzi, Tiskarna «Slovenskega poročevalca», Ljubljana 1953

T. Simčič, Jakob Ukmar (1878-1971). Sto let slovenstva in krščanstva v Trstu (Jakob Ukman 1878-1971. Cento anni di presenza slovena e cristiana a Trieste), Goriška Mohorjeva Družba, Gorica 1986

L. Škerl, Antonio Santin, in: Primorski Slovenski Biografski Leksikon (Dizionario biografico degli Sloveni del Litorale), XIII, Accademia slovena delle scienze e delle arti, Gorica 1987, pagine 294-297

G. Botteri, Antonio Santin, Studio Tesi, Pordenone 1992

P. Blasina, Vescovo e clero nella diocesi di Trieste-Capodistria 1938-1945, Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 1993

S. Galimberti, Santin: un Vescovo solidale. Testimonianze dall’archivio privato, Mgs Press, Trieste 2000.


Su Monsignor Giuseppe Nogara:

F. Nazzi, Il Duce lo vuole. La proibizione dello sloveno nella vita religiosa della Slavia Friulana, Cooperativa Lipa Editrice, Premariacco (Udine) 1995

F. Nazzi, Chiesa e fascismo nella Slavia Friulana, Glesie furlane, Villanova di San Daniele 2004.


Note

1 Sul suo episcopato sono intervenuti più studiosi: Guido Botteri, Sergio Galimberti, Ettore Malnati (segretario di Monsignor Antonio Santin, dal 1971 al 1981), Marko Medved, Giovanni Miccoli, Pietro Zovatto e altri.

2 Il 25 aprile 1925 l’amministrazione apostolica di Fiume fu elevata a diocesi con la Bolla Supremum pastorale di Papa Pio XI.

3 P. Vanzan, L’archivio privato di un Vescovo scomodo: Monsignor A. Santin nella bufera dell’ultima guerra, in: «La Civiltà Cattolica», 1997, III, quaderno 3.530, pagine 167-168.

4 G. Miccoli, La Chiesa di fronte alla politica di snazionalizzazione, in: «Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia», 4, 2-3, 1976, pagine 28-31.

5 Le coste e l’entroterra dell’Adriatico Orientale costituivano un’area chiamata anticamente Schiavonia. Per tale motivo la lingua locale era denominata «schiaveto».

6 Fonte: A. Santin, Al tramonto. Ricordi autobiografici di un Vescovo, Edizioni Lint, Trieste 1979.

7 Nel 1936 minacciò di sospendere «a divinis ipso facto» i sacerdoti che nella diocesi adoperavano una lingua diversa da quella latina.

8 Tale orientamento conservò però delle eccezioni. Queste riguardarono un ristretto numero di casi, che conservavano dei privilegi attestati sul piano storico.

9 Confronta rispettivamente Archivio Privato Antonio Santin (APAS) 26 s/3/III/numero 1 e seguenti, e 24/III/numeri 108 e 164-183.

10 Luigi Fogàr (1882-1971).

11 G. Botteri, Antonio Santin, Trieste 1943-1945. Scritti, discorsi, appunti, lettere, Del Bianco, Udine 1963.

12 Virgilij (Virgil) Šček (1889-1948). Trenta anni prima aveva difeso i diritti del suo popolo dagli scanni del Parlamento Italiano. Su questo sacerdote confronta anche: A. Čehovin, Virgil Šček (1889-1948) in njegov boj za ohranitev slovenskega jezik, Diplomsko delo, 2012 (A. Čehovin, Virgil Šček (1889-1948) e la sua lotta per la conservazione della lingua slovena, tesi di laurea, Università di Nova Gorica, Facoltà di Lettere e Filosofia, 2012).

13 Organo dei sacerdoti di lingua slovena.

14 In seguito alla condanna di Monsignor Santin dell’associazione «Sodalizio dei sacerdoti di San Paolo», emerse un’opposizione di una parte del clero diocesano. Nel 1946, i sacerdoti facenti parte della citata opposizione presentarono un memoriale alla Santa Sede.

15 Jakob Ukmar (1878-1971). Su questo sacerdote confronta anche: E. Blancato, Pace, lavoro e pane: Piccolo saggio sulle riflessioni di un sacerdote durante la persecuzione fascista a Trieste, Talos, Castrolibero (CS) 2016. M. Pirjevec (a cura di), L’altra anima di Trieste, Mladika, Trieste 2008. A. Rebula, Jakob Ukmar, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1992.

16 Riccardo Motta (1878-1962).

17 Confronta anche: G. Pellizzoni, Curia arcivescovile udinese e regime fascista. Dall’insediamento di Monsignor Giuseppe Nogara alla soglia della Seconda Guerra Mondiale, 1928-1940, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine 2005.

18 Temistocle Testa (1897-1949).

19 M. Kacin-Wohinz, Il clero sloveno della Venezia Giulia (1927-1936), in: «Storia Contemporanea in Friuli», 21, 22, 1991, pagine 9-57.

20 Don Giuseppe Cramaro di Antro e Don Natale Zufferli.

21 Nel 1918 la Val Canale contava 8.700 abitanti.

22 Don Giuseppe Gorenszach (morto nel 1950). Fu tra coloro che sostennero la fondazione di Casse Rurali, Cooperative, latterie.

23 Don Giovanni Petricig (1871-1964).

24 Don Giuseppe Valentino Chiacig (1889-1966).

25 Don Giuseppe Cramaro (1897-1974).

26 Monsignor Giuseppe Pizzardo (1877-1970). Divenne Arcivescovo e in seguito Cardinale.

(maggio 2019)

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