Natale di sangue a Fiume (1920)
Riflessioni nella ricorrenza del centenario

Il 24 dicembre 1920, vigilia di un giorno sacro al cuore popolare, a Fiume – nonostante il contenzioso già in atto fra l’Italia ufficiale e la Reggenza dannunziana del Carnaro – «i negozi erano scintillanti di lumi e nelle vetrine gli alberi di Natale con le stelle dorate (e con) i fiocchi bianchi di neve sorridevano nella pace delle cose buone ed eterne parlando di familiarità e di quiete». La «vox populi» escludeva che le navi italiane presenti davanti al porto, ammirate dalla cittadinanza nella loro maestà guerresca, potessero sparare contro la Città Olocausta, come da pertinente definizione del Comandante; in particolare, «le donne fiumane alzavano le spalle, incredule» alla sola ipotesi di tanto obbrobrio[1].

Contro queste ragionevoli presunzioni, alle cinque della sera – come nel Lamento di Federico Garcia Lorca – le forze giolittiane scatenarono il bombardamento che sarebbe durato tutta la notte, in palese spregio della stessa atmosfera natalizia. Furono chiusi in tutta fretta i negozi affollati per gli ultimi acquisti, e persino le chiese dove si stavano celebrando le funzioni della vigilia: le vie si fecero immediatamente deserte. I Legionari presero subito posizione lungo un fronte semicircolare che si sviluppava per una decina di chilometri intorno a Fiume: «senza nessun ordine, senza nessuna costrizione, ognuno aveva sentito il proprio dovere»[2].

Le forze «regolari» confidarono di avere ragione via terra delle difese dannunziane dopo la conclusione del bombardamento notturno ma non avevano fatto i conti col «valore disperato dei Legionari, pochi e laceri, digiuni, insonni, senza potersi dare il cambio». Pertanto, il giorno 27 ebbero necessità di «ricorrere ad altri mezzi» e cioè alla squadra navale che nel primo pomeriggio ebbe l’ordine di riprendere il bombardamento, durato sino a notte inoltrata, ancora una volta senza preavviso, con gravi danni e, soprattutto, con Vittime civili[3].

A quel punto, le sorti dell’Impresa erano segnate. Gabriele d’Annunzio, consapevole della necessità di risparmiare lutti ai Fiumani e agli eroici Legionari, impegnati in un confronto impari come pochi, ma nella certezza di un’imperitura Vittoria etica, decise di restituire al popolo il mandato affidatogli all’indomani della «Santa Entrata» ma non senza ribadire il disprezzo per il Governo Italiano che aveva fatto «assassinare con fredda determinazione una gente di sublime virtù che da sedici mesi patisce e lotta» e non senza concludere inneggiando a noi che «siamo di un’altra Patria e crediamo negli Eroi»[4].

Il giorno 29, dopo avere ricevuto il «nihil obstat» a chiudere, aggiunse di non aver potuto né voluto «imporre alla Città eroica la rovina e la morte totale che il governo di Roma e il comando di Trieste» avevano minacciato, e concluse ricordando che, come era venuto per la «salute» della Città, altrettanto avrebbe fatto con la scelta di uscirne. Ai suoi Legionari – «tutti Eroi» mentre dall’altra parte agiva «un esercito di tutti servi» – sarebbe spettato il diritto di fregiarsi della Vittoria nei confronti di un’Italia «bastarda» che non conosce e non riconosce l’eroismo di quanti si erano impegnati nel giuramento, o meglio in un vero e proprio «sacramento»[5].

Le condizioni di pace furono onorevoli, anche perché a Roma non si poteva ignorare che la «gloriuzza» del successo conseguito a Fiume era stata ottenuta imponendo la ragione di Stato con la forza soverchiante del cannone. Soprattutto, fu salvaguardata la sorte dei Legionari, compresa quella di coloro che per la causa di Fiume si erano resi responsabili del reato di «diserzione», a implicito riconoscimento di quali fossero le prioritarie ragioni morali, e quali i torti. Dal canto suo, Gabriele d’Annunzio, pronunciando il discorso della riconciliazione nel Cimitero di Cosala (2 gennaio 1921) davanti alle Spoglie dei Caduti di entrambe le parti, diede un esempio di alto valore etico e prescrittivo; non serve dire che «nessuno rimase in piedi: nessuno delle milizie, nessuno del popolo»[6]. Quel giorno tornava ad aleggiare sull’Olocausta lo spirito degli Eroi antichi che aveva vissuto nelle celebrazioni funebri dei Caduti, cantate da Omero con parole eterne.

Dopo le partenze scaglionate dei Legionari, Gabriele d’Annunzio fu l’ultimo a lasciare la Città: era il 18 gennaio e non mancarono le ultime, struggenti manifestazioni di affetto e di riconoscenza, a cominciare da quelle del vecchio patriota Antonio Grossich, che quale Presidente del Consiglio Nazionale aveva firmato il celebre appello del 30 ottobre 1918, rivolto all’Italia e al mondo durante gli ultimi sussulti della Grande Guerra: «Il Consiglio Nazionale Italiano di Fiume, radunatosi oggi in seduta plenaria, dichiara che in forza di quel diritto per cui tutti i popoli sono sorti a indipendenza nazionale e libertà, la Città di Fiume, che finora era un Corpo separato costituente un Comune nazionale italiano, pretende anche per sé il diritto di auto decidere delle genti. Basandosi su tale diritto, il Consiglio Nazionale proclama Fiume unita alla sua Madrepatria: l’Italia»[7].

Nel breve volgere di dieci settimane si chiudeva, almeno in apparenza, una pagina di storia che aveva avuto inizio il 12 novembre 1920: in tale data era stato firmato il trattato di Rapallo fra Italia e Jugoslavia, con cui si poneva fine al contenzioso del lungo dopoguerra e si creava il presupposto per liquidare l’Impresa di Fiume. L’incontro fra le due delegazioni si protrasse per cinque giorni: era stato promosso da Belgrado ma l’Italia, pur partendo da condizioni di oggettivo vantaggio, fu pronta a riconoscere alla controparte una larga maggioranza delle sue attese. Infatti, tutta la Dalmazia divenne jugoslava con le sole eccezioni di Zara, Lagosta, Pelagosa, e delle isole quarnerine di Cherso e Lussino, facendo carta straccia del Patto di Londra (26 aprile 1915) che peraltro la Jugoslavia non aveva firmato per una ragione molto semplice, in quanto all’epoca non esisteva.

Il modo affrettato con cui L’Italia accondiscese all’ipotesi di creare lo Stato Libero di Fiume lasciando alla Jugoslavia anche il sobborgo di Susak e parte delle installazioni portuali diede l’impressione che il Governo intendesse approfittare dell’intesa fra i due Stati firmatari, in primo luogo per liquidare la «sedizione» dannunziana che non aveva fatto mistero del proposito di marciare su Roma.

La formalizzazione del trattato ebbe luogo un mese e mezzo prima del Natale di Sangue[8]. Tale intermezzo non deve sorprendere, trattandosi del tempo tecnico necessario per la ratifica in sede parlamentare che a ogni buon conto sopravvenne a larghissima maggioranza col solo voto contrario della pattuglia nazionalista e di qualche deputato di destra; e naturalmente, del tempo contestualmente utile per convincere il Comandante e la Reggenza del Carnaro a deporre le armi riconoscendo il fatto compiuto e lasciando la Città Olocausta al suo destino. A Roma si confidava che la straordinaria superiorità militare «governativa» inducesse a più miti consigli l’Orbo veggente ma il Governo non aveva fatto i conti con il pervicace impegno patriottico del movimento legionario, ormai condiviso solo in parte dal popolo fiumano, senza dire di qualche opposizione maturata persino nella Reggenza, con particolare riguardo a quella del «Ministro» Maffeo Pantaleoni che non a caso sarebbe uscito dal governo di Fiume poco prima dell’epilogo.

D’Annunzio non poteva cedere, se non altro in omaggio all’immagine creatasi intorno alla sua figura dopo i tanti atti eroici compiuti durante la Grande Guerra, dal volo su Vienna a quello su Trieste, o dalla Beffa di Buccari all’episodio di Bocche del Timavo, dove Giovanni Randaccio era spirato tra le sue braccia. Per meglio dire, ben sapeva che avrebbe dovuto cedere, tanto più che si era reso conto di non poter contare nemmeno su Benito Mussolini cui si era rivolto come «fratello» quando aveva «tratto il dado» di Ronchi; ma intuiva quanto fosse necessario ribadire coi fatti che si sarebbe ritirato solo davanti alla violenza, dimostrando quali fossero i torti di Roma e le ragioni di Fiume.

Giolitti ci mise parecchio del suo, ordinando l’attacco proprio alla vigilia di Natale con quello che poteva apparire come un sacrilegio. Dal canto proprio, il Generale Enrico Caviglia, che il 12 settembre 1919 non aveva potuto né voluto sparare su Gabriele quando gli stava mostrando la sua Medaglia d’Oro alla barra di Cantrida, poteva prendersi una triste rivincita costringendo il Comandante ad ammainare la bandiera della Reggenza. La profetica domanda dannunziana – «Quis contra nos?» – avrebbe trovato una tragica e triste risposta proprio nel Natale di Sangue.

Il resto è storia nota. Agli inizi del 1921 parve che il movimento autonomista fiumano guidato da Riccardo Zanella avesse coronato con successo il suo programma di autogoverno, ma anche in questo caso si sarebbe trattato di un’illusione. Infatti, a seguito di un moto nazionalista guidato da Francesco Giunta che aveva proclamato l’annessione di Fiume all’Italia, il primo Governo Facta, appena insediatosi a Roma, non volle assumere i poteri di competenza nel capoluogo quarnerino (marzo 1922) pur affidandolo «provvisoriamente» alla gestione militare del Generale Gaetano Giardino; poi sopraggiunsero la marcia su Roma del 28 ottobre, l’avvento del primo Governo Mussolini, e infine l’accordo italo-jugoslavo del 27 gennaio 1924 con cui furono stipulate nuove intese di collaborazione, unitamente all’annessione di Fiume, ferme restando le disposizioni già in essere per Susak e Porto Baross che rimasero alla Jugoslavia.

Oggi, a cento anni dal Natale di Sangue, è congruo chiedersi in un’ottica finalmente oggettiva, conforme ai canoni di una storiografia corretta, che cosa rimanga di quella drammatica e coinvolgente esperienza, sebbene sull’argomento siano già stati versati molti fiumi d’inchiostro: da una parte, in un’ottica di tipo meramente celebrativo, e dall’altra nell’intento di presentare la fine della Reggenza come un atto dovuto a fronte della «sedizione» dannunziana. Va da sé che entrambe le tesi non possono essere condivise «in toto» perché il giudizio storico è complesso, e quindi non facile.

L’offesa al Natale fiumano, tanto per cominciare, non può essere stata casuale. Eppure, nel corso della Grande Guerra, i soldati dell’una e dell’altra parte avevano già dato luogo – non solo per Natale – a momenti di tacita tregua se non anche di fraternizzazione, come nel caso della celebre partita di calcio fra Tedeschi e Francesi. Ebbene, a parte il naturale sconcerto delle donne fiumane e degli stessi Legionari, il fatto che dall’ultimatum giolittiano e dal rifiuto dannunziano si fosse tratta la conseguenza di sparare a poche ore dalla notte natalizia, avrebbe suscitato universali perplessità e diffuse riprovazioni. Dal canto suo, il Comandante assunse un comportamento assimilabile «mutatis mutandis» a quello di Papa Pio IX dopo Porta Pia: il sacrificio dei primi Caduti poteva costituire un elemento necessario e sufficiente per deporre le armi. Nel caso di Fiume, con l’aggravante che il popolo fiumano aveva contribuito col sangue proprio, e che dal 30 ottobre 1918 aveva dato ripetute attestazioni della sua volontà di essere italiano anche sul piano giuridico e formale, posto che su quello spirituale lo era da sempre.

Poi bisogna pur dire, sul piano generale, che Gabriele d’Annunzio, unitamente ai suoi Legionari, aveva interpretato una diffusa «opinio juris ac necessitatis». A prescindere dal Patto di Londra che era stato sottoscritto nella primavera del 1915 quando non era ragionevole supporre che a fine guerra l’Impero Austro-Ungarico avrebbe addirittura cessato di esistere, nessuno poteva contestare il buon diritto fiumano di appartenere alla Patria italiana in base al principio di nazionalità e al diritto di autodeterminazione. Lo stesso autonomismo poteva apparire una romantica reminiscenza dell’epoca comunale ma non certo un’opzione maggioritaria, se non altro alla luce dei problemi politico-economici che necessariamente comportava.

Nel nuovo millennio molte cose sono cambiate: nel caso di specie, per effetto prioritario del delitto contro l’umanità perpetrato dai partigiani di Tito e tradotto nel grande esodo dei 350.000 e nelle decine di migliaia di Italiani infoibati o diversamente massacrati. Oggi Fiume non è italiana ma storia, cultura e tradizioni attestano che nei suoi confronti, e in quelli del suo popolo, si è compiuta un’ingiustizia macroscopica che si accomuna alla più grande tragedia giuliano-dalmata. In altri termini, si tratta di un’iniquità che – come da lucido giudizio del Vescovo Santin – non può essere eterna.


Note

1 Confronta Maria Vitali, Col Sangue. Note Memorie e Documenti dell’aggressione contro Fiume, Stabilimento Tipografico Miriam, Fiume 1921, pagina 4, citato in «L’Arengario – Studio Bibliografico» a cura di Paolo Tonini, Edizioni dell’Arengario, Gussago 2020, pagina 85. L’Autrice, figlia di un Legionario e a sua volta patriota della prima ora, aveva fondato l’Associazione femminile «Le Custodi dei Morti e delle tombe dei Caduti in Fiume». Per ogni maggiore dettaglio, nella sterminata bibliografia sull’Impresa utili riferimenti sono reperibili nelle opere di quanti vi parteciparono direttamente. Fra le tante: Guglielmo Barbieri, L’Album dell’Olocausta: la passione di Fiume dal plebiscito del XXX Ottobre MCMXVIII all’annessione, Archeotipografia, Milano 1932; Edoardo Susmel, La Marcia di Ronchi, Ulrico Hoepli, Milano 1941; Ferdinando Gerra, L’Impresa di Fiume nelle parole e nell’azione di Gabriele d’Annunzio, Longanesi, Milano 1966.

2 Ibidem, pagina 6. Nella notte natalizia erano saltati anche i ponti sull’Eneo, già minati dai Legionari, e Fiume era rimasta divisa da Susak, con ulteriori problemi di approvvigionamento.

3 Il numero dei Caduti nell’Impresa di Fiume, e in particolare di quelli scomparsi durante il Natale di Sangue, ammonta complessivamente a oltre cinquanta, sia dell’una che dell’altra parte. Purtroppo, caddero anche alcuni civili fra cui una bambina, per effetto precipuo del bombardamento effettuato dall’Italia ufficiale.

4 Dal volantino di Gabriele d’Annunzio Agli Italiani in data 26 dicembre 1920, ripreso in «L’Arengario – Studio Bibliografico», pagina 72. Nella circostanza, il Poeta Soldato non era stato alieno dal rivolgersi agli Italiani definendoli «vigliacchi» e affermando di essere tuttora «vivo e implacabile». Una settimana dopo, nel celebre Commiato fra le tombe avrebbe assunto un atteggiamento totalmente diverso, ma a quel punto aveva restituito il mandato ricevuto dal popolo di Fiume, e formalmente non era più il Comandante (anche se moralmente lo sarebbe rimasto sempre). Del resto, non era nuovo a simili mutazioni: basti rammentare il «Vado verso la vita» pronunciato in Parlamento nel lasciare gli scranni della Destra, quale atto di clamorosa protesta contro le leggi liberticide programmate dal Governo Pelloux.

5 La simbologia comunicativa dannunziana, in specie dal periodo dell’intervento nella Grande Guerra a quello fiumano, abbonda di riferimenti classici, sia antichi che moderni («Memento Audere Semper»; «Hic manebimus optime»; «Ardisco non ordisco»; «Ho quel che ho donato»). Non mancano interventi a sfondo religioso, e nello stesso tempo di forte vigore emozionale, come nell’allocuzione per il pugnale votivo offerto dalle donne fiumane nella ricorrenza di San Vito, Patrono della Città, alla presenza del Cappellano militare Padre Reginaldo Giuliani che lo benedisse. Il riferimento ai Legionari «tutti eroi» a fronte di un «esercito di servi ubriachi» è tratto dal volantino di Gabriele d’Annunzio Legionari di terra e di mare distribuito il 28 dicembre 1920 e riportato in «L’Arengario – Studio Bibliografico», pagina 72.

6 Il cosiddetto Alalà funebre di Cosala, diversamente da alcune attese di segno contrario, fu privo di ogni «esortazione bellicosa» e di ogni polemica retrospettiva. Il Comandante, ormai privo dei suoi poteri, ma pur sempre carismatico nel suo inossidabile prestigio, avrebbe evocato Gesù Cristo in un’immaginifica ipotesi di Resurrezione dei Caduti che si sarebbero levati solo «per singhiozzare, per darsi perdono e per abbracciarsi» non senza unirsi al giuramento «per una lotta più vasta e per una pace di uomini liberi».

7 Non è senza significato che il Proclama del Consiglio Nazionale, ampiamente riportato dalla bibliografia, abbia trovato spazio anche nel primo giornale fiumano dell’esilio, fondato dai profughi dopo il trasferimento della Città Olocausta alla Jugoslavia col «diktat» del 1947: nel merito, confronta «La Vedetta d’Italia», anno XXXIII – Nuova serie numero 1, Venezia, aprile 1951, pagina 3. Giova aggiungere che una richiesta analoga a quella del Consiglio era già stata avanzata il 18 ottobre al Parlamento di Budapest da parte dell’Onorevole Andrea Ossoinack, deputato di Fiume (per l’appassionato contributo di questo patriota alla causa nazionale della città liburnica, si veda il suo celebre Atto d’accusa, Centro Studi Adriatici, Roma 1960).

8 Sul trattato di Rapallo esiste una bibliografia piuttosto ampia, dalle impostazioni assai diverse secondo i tempi, e secondo l’impostazione della ricerca storiografica. Tra le numerose fonti disponibili, un primo contributo coevo, improntato alla fede nazionalista dell’Autore, è quello di Luigi Federzoni, Il trattato di Rapallo, Zanichelli, Bologna 1921; al secondo dopoguerra appartiene la cospicua opera di Paolo Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Feltrinelli, Milano 1959, di orientamento democratico, ma con giudizi sostanzialmente obiettivi sull’intransigenza del Presidente Americano Woodrow Wilson, e il suo evidente atteggiamento in favore della Jugoslavia solo perché considerata «Nazione più debole»: causa non ultima del difficile negoziato di Rapallo, assieme agli interessi economici circa l’utilizzo straniero del porto di Fiume (Ibidem, pagina 479 e seguenti). Una recente ricostruzione fedele ed esaustiva dell’Impresa di Fiume e del Natale di Sangue in tutta la drammatica successione degli eventi, compreso il trattato di Rapallo, è disponibile nello studio di Giordano Bruno Guerri, Disobbedisco: 500 giorni di Rivoluzione (Fiume 1919-1920), Mondadori, Milano 2019. L’ultimo saggio in ordine cronologico è quello prodotto dall’Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazione e dell’età contemporanea di Pordenone, Rapallo 1920: uno spiraglio di pace nella storia cruenta del confine orientale, Istlib, Pordenone 2020 (con bibliografia aggiornata).

(dicembre 2020)

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