La Marcia su Roma raccontata da Mussolini
Colpo di Stato o atto insurrezionale? Ecco come la presentò Benito Mussolini

Uno degli eventi del Novecento di cui si continua a discutere è la Marcia su Roma, cioè l’«atto» con cui Mussolini forzò la volontà del Re Vittorio Emanuele III imponendo un nuovo Governo rispetto a quello in carica, «atto» di cui questo mese ricorre il centenario.

Non voglio qui discutere se sia stato un bene o un male; sicuramente non fu – come pretendono ancora taluni storici o pretesi tali – un «giochetto occasionale», una «scampagnata», una «gita di buontemponi prepotenti e vocianti», una «comparsa di pochi scalmanati alle porte di Roma» che costrinsero il Governo ad abdicare.

Al contrario, la Marcia fu un evento pianificato nei minimi particolari e attuato come dimostrazione di forza. In questo preciso modo è descritto da Benito Mussolini in La mia vita, autobiografia scritta per il pubblico inglese (su richiesta di Richard Washburn Child, ex Ambasciatore Statunitense a Roma) da Arnaldo, fratello del Duce, scrittore di non eccelse doti letterarie ma con una conoscenza perfetta del fratello, della sua mentalità, dei meccanismi psicologici, degli schemi culturali: di Benito Mussolini sono la traccia dell’opera, gli elementi e i documenti, e ovviamente la revisione finale prima della firma.

Se nel libro Mussolini omette fatti importanti del suo passato (soprattutto i suoi trascorsi socialisti), mentre di altri dà una lettura parziale (tende piuttosto a esaltare la propria capacità di intuizione politica, la propria intelligenza, la propria forza fisica, e ad accusare socialisti, opposizioni, sindacalisti), le pagine sulla Marcia su Roma sono giudicate importanti e rivelatorie della verità anche dalla più ostile storiografia di sinistra: essa appare come un progetto studiato che presuppone complicità ad altissimo livello, ingenti finanziamenti, informazioni riservate, interventi di servizi segreti, consensi politici, garanzie di impunità; oltretutto, la Marcia era stata annunciata da Mussolini con un proclama sulle colonne del suo giornale, «Il Popolo d’Italia», e per mezzo di pubblicazioni indipendenti e di corrispondenti di tutti i giornali della Penisola. Mussolini sapeva che bisognava anche considerare «la dolorosa possibilità di una violenta repressione, di un fallimento originato dalla possibile cattiva riuscita dei nostri piani. Eravamo obbligati a decidere in anticipo tutti i come e i quando, i particolari dei mezzi, con quali uomini e con quali obiettivi sarebbe stato più saggio sferrare l’attacco fascista» (le citazioni, dove non specificato diversamente, sono tratte da: Benito Mussolini, La mia vita, Rizzoli Editore, Milano 1983, traduzione di Monica Mazzanti, pagine 131-146).

Se si intende con l’espressione colpo di Stato «un fatto contro la legge e al di fuori della legge, volto a modificare il vigente ordinamento dei pubblici poteri» operato «da uno degli organi esecutivi, il Re o il suo Gabinetto» (come nella definizione datane da Giuseppe Maranini nell’edizione del 1931 dell’Enciclopedia Italiana, alla voce «Colpo di Stato»), quello operato da Mussolini non fu un colpo di Stato, ma piuttosto una rivoluzione. Così infatti la presentò Mussolini, anche se la rivoluzione dovrebbe per definizione essere prodotta da un moto popolare che non vi fu, se non sotto una precisa direzione dall’alto.

Tutto era stato predisposto in modo rigoroso: «L’adunata fascista a Napoli, […] con il suo sfoggio di disciplina e di discorsi servì a nascondere l’inizio della vera mobilitazione. Al momento fissato le squadre d’azione di tutt’Italia dovevano prendere le armi. Avrebbero dovuto occupare tutti i centri vitali: le città, gli uffici postali, le prefetture, le stazioni di polizia, le stazioni ferroviarie e le caserme.

Distaccamenti di fascisti dovevano marciare lungo il Mar Tirreno verso Roma guidati dai capi, tutti coraggiosi ex ufficiali. Lo stesso movimento doveva verificarsi dal lato sull’Adriatico, da dove doveva essere lanciata su Roma la forza della Romagna, delle Marche e degli Abruzzi. Questo piano richiedeva che liberassimo Ancona dalla dominazione socialcomunista. Questo era stato fatto. Dall’Italia Centrale le squadre già mobilitate per il congresso di Napoli dovevano anch’esse essere dirottate su Roma. Queste erano sostenute da gruppi di cavalleria fascista al comando di Caradonna.

Nel momento in cui la mobilitazione e la campagna fascista venivano decise e cominciavano a diventare operative, doveva essere posta in vigore la legge marziale, i severi ordini e regole del fascismo, sia per gli ufficiali sia per i civili.

[…]

Scegliemmo come quartier generale la città di Perugia, capoluogo dell’Umbria, dove convergevano molte strade e da dove era facile raggiungere Roma. In caso di fallimento politico e militare, potevamo, attraversando gli Appennini, ritirarci nella Valle del Po. Quella zona in ogni momento rivoluzionario della storia era sempre stata opportunamente considerata la chiave della situazione. Là il nostro predominio era assoluto e indiscutibile. Scegliemmo la parola d’ordine, fissammo i particolari dell’azione. Tutto doveva essere riferito a me, negli uffici del “Popolo d’Italia”. Fidati messaggeri fascisti tessero tele come rapidissimi ragni. Ogni giorno davo gli ordini necessari. Scrissi il proclama da indirizzare al Paese alla vigilia dell’azione. Sapevamo da molti amici che non saranno mai dimenticati che l’esercito, a meno che si verificassero circostanze eccezionali, si sarebbe mantenuto in un atteggiamento di amichevole neutralità».

Qui non si tratta di improvvisazione: «Nella notte [tra il 27 e il 28 ottobre, dopo la pubblicazione del proclama in cui si annunciava senza mezzi termini e senza espressioni equivoche la Marcia su Roma] mi giunsero le prime notizie di sanguinosi scontri a Cremona, Alessandria e Bologna e degli attacchi a fabbriche di munizioni e a caserme militari. […] La nostra vita fu improvvisamente trascinata in un’ardente atmosfera di rivoluzione. Notizie degli scontri che si svolgevano nelle varie città, a volte ampliate dall’immaginazione dei giornalisti, davano un tocco drammatico alla rivoluzione. Elementi responsabili del Paese affermarono che come risultato di questo movimento ci sarebbe stato finalmente un Governo in grado di governare e meritarsi rispetto. La gran massa della popolazione, comunque, guardava attonita dalla finestra». A Milano «minacciosi battaglioni di guardie regie pattugliavano la città e il ritmo cadenzato dei loro passi risuonava sinistro e rimbombante nelle strade quasi deserte.

I servizi pubblici funzionavano su scala ridotta e misera. Gli attacchi dei fascisti alle caserme e agli uffici postali provocavano fucilate e spari. Questo dava alla città un’eco sinistra di guerra civile.

Avevo dotato gli uffici del mio giornale di tutto quello che poteva servire per difendersi da attacchi. Sapevo che se le autorità governative volevano dar prova della loro forza avrebbero diretto il primo violento attacco contro il “Popolo d’Italia”. Infatti, nelle prime ore della mattinata, vidi puntare sugli uffici e su me le orrende bocche di fuoco delle mitragliatrici. Ci fu un rapido scambio di colpi. Io avevo il fucile carico e scesi a difendere le porte. I vicini avevano barricato le entrate e le finestre e chiedevano protezione.

Durante la sparatoria i proiettili mi fischiavano nelle orecchie».

Mussolini riuscì a stabilire una tregua con un maggiore della guardia regia che allontanò i suoi uomini e le mitragliatrici. Nella notte i più autorevoli uomini politici lombardi si recarono da Mussolini per chiedergli di desistere da una lotta che vedevano come l’inizio di una terribile guerra civile, proponendo come possibile soluzione una crisi ministeriale. Ma il futuro Duce si disse intenzionato a proseguire la lotta fino alla vittoria totale. Dalle sue parole, oltre che dall’organizzazione della Marcia su Roma così come fu attuata, sembra di capire che Mussolini sapesse in anticipo come sarebbe andata a finire la rivoluzione: era un grande esperto di politica interna, come gli viene oggi riconosciuto persino dai suoi detrattori, e conosceva gli Italiani, stanchi di tre anni di violenza feroce (quella fascista ma ancor più quella anarchica e comunista), di soprusi e prepotenze, degli scioperi folli e indiscriminati che bloccavano un popolo desideroso soltanto di poter lavorare in pace, dopo gli enormi sacrifici della guerra (fu proprio lo sciopero generale del 1922, reso vano dall’intervento diretto dei fascisti, a offrire a Mussolini l’occasione per una prova di mobilitazione generale, che gli sarebbe servita per la Marcia su Roma). Il Governo era un insieme di partiti sfatti e dilaniati al loro interno – come troppo spesso vediamo ancora oggi –, di uomini politici mediocri e verbosi, informati di tutto quello che si stava preparando ma incapaci di prendere una chiara decisione e utilizzare gli strumenti a disposizione che avrebbero potuto stroncare il moto insurrezionale in poche ore, scaricando ogni responsabilità su un Re che aveva già capito da che parte tirava il vento. E Mussolini lo capiva meglio di tutti, sapeva cogliere il momento per le grandi decisioni.

Il pomeriggio del 29 ottobre, Mussolini ricevette una telefonata urgente da parte del Quirinale: il Generale Cittadini, primo aiutante di campo del Re, lo pregava a nome di Vittorio Emanuele III di recarsi a Roma per formare un Ministero. Mussolini chiese che la richiesta gli venisse fatta per iscritto a mezzo di telegramma («si sa che il telefono può giocare a volte brutti scherzi»), e fu accontentato. Andò a Roma. Fu ricevuto dal Sovrano in un incontro «caratterizzato da grande cordialità. […] Presi accordi con il comando generale dell’esercito per portare un gruppo di camicie nere a Roma e farle sfilare in appropriata formazione davanti al Re. Impartii ordini dettagliati e precisi».

Mussolini scrive di aver mobilitato 300.000 camicie nere per la Marcia su Roma (ma la cifra è gonfiata, non erano più di un decimo), e di aver avuto altri 60.000 uomini armati nella capitale, pronti per l’insurrezione. Ma il tutto si svolse quasi senza incidenti, comunque «inevitabili in una situazione del genere», e solo dopo regolare autorizzazione; solo nel quartiere di San Lorenzo gli squadristi si diedero a provocare gli operai, e ci furono una dozzina di morti – Mussolini impartì alla polizia e all’esercito l’ordine di impedire altri tumulti e gli scalmanati rimasero a gozzovigliare tutta la notte negli alberghi, nelle trattorie, nei caffè, nelle taverne e nei bordelli senza pagare il conto. Furono proibite rappresaglie contro i capi dell’opposizione e Facta fu accompagnato nella sua città da una scorta di camicie nere con l’ordine di proteggerlo da aggressioni, derisioni o umiliazioni. La rivoluzione, in pratica, si svolse per lo più nei limiti della legalità: il giorno successivo, il 1° novembre, le bande sfilarono per sei ore sotto il Quirinale, dove il Re le salutò dal balcone; erano un esercito pittoresco, irto di pugnali, manganelli e schioppi banditeschi, ma dove militavano anche ufficiali di alto rango, con le loro divise e medaglie. Dopo la sfilata, per ordine di Mussolini tutti si incamminarono verso casa senza incidenti. (Confronta anche: Indro Montanelli, Storia d’Italia, volume 39: L’avvento del fascismo, Fabbri Editori, Milano 1994, pagine 34-35).

Il Governo voluto da Mussolini, sorto nel rispetto dello Statuto Albertino e avendo ottenuto la fiducia del Parlamento, doveva essere basato sulla meritocrazia, per ridare «al Paese l’impressione di una vita normale ben lontana dalla egoistica esclusività di un partito», escludendo solo le singole persone che erano state coinvolte in progetti sovversivi o con il socialismo (ben diverso dal socialismo più moderato di oggi): egli tenne per sé i due Ministeri più importanti, cioè gli Affari Interni e «ad interim» gli Affari Esteri, mentre diede la Giustizia, le Finanze e le Terre Liberate a tre suoi fedeli, Aldo Oviglio, Alberto De Stefani e Giovanni Giuriati, tre degli squadristi meno violenti. Era un Governo in cui il fascismo restava comunque in minoranza: lo completavano due Generali di sicura fedeltà al Re, un nazionalista, due popolari, due liberali di destra, due democratici, un demosociale. Dei Sottosegretari di Stato, i fascisti erano la metà. «Potevo fare» dichiarò Mussolini alla Camera dei Deputati il 16 novembre «di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».

Mussolini si disse intenzionato ad agire subito per risolvere i problemi dell’Italia e seguire una politica estera di pace, ma nello stesso tempo di dignità e di fermezza. «In quel discorso c’era l’essenza delle mie antiche e recenti lotte con la mia stessa mente e il mio stesso animo. […] La mia esposizione in Parlamento fu compensata dall’approvazione di tutt’Italia». Ed era vero: in quel momento tutti erano, allo stesso tempo, complici e vittime del fascismo; tutti lo sapevano e – in misura più o meno marcata – lo accettavano!

(ottobre 2022)

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