Leggi razziali del 1938
Interpretazioni oggettive con riflessioni attuali tramite la Memoria della realtà di Alberto Bernardino Mariantoni (Edizioni Aracne, Roma 2014, 692 pagine)

Lungi dall’essere maestra di vita secondo il classico insegnamento di Tucidide confutato dalla pervicace ripetizione degli sbagli, la storia umana evidenzia una giustapposizione di errori, talvolta tanto gravi da vanificare scelte, sia pure lunghe e maggioritarie, conformi a diritto, ragione e convenienza. Quella del fascismo non fa eccezione: nonostante una lunga serie di provvedimenti e interventi documentati che avevano dato luogo al consenso plebiscitario degli anni Trenta, riconosciuto anche dalle vulgate, le cosiddette leggi razziali e la discesa in campo contro gli Alleati, tanto affrettata quanto intempestiva, furono sufficienti a determinarne la perdita progressiva della condivisione, la crescita delle opposizioni e il successivo crollo finale.

La poderosa opera di Alberto Bernardino Mariantoni (immaturamente scomparso lasciando grandi «eredità d’affetti» mentre si apprestava a scriverne proprio l’ultima pagina) è dedicata alle «sciagurate» leggi del 1938, come da pertinente definizione del Professor Augusto Sinagra, che ne ha curato l’ampia premessa, e costituisce una sorta di enciclopedia dedicata all’errore strategico del fascismo, che per vari aspetti avrebbe contribuito a innescare una serie di sbagli successivi, e diventare sostanzialmente determinante. Ciò, attraverso un esame sistematico e approfondito di cause ed effetti, che consente di definire questa straordinaria Memoria della realtà come uno strumento fondamentale di documentazione e di consultazione circa una vicenda della storia italiana le cui conseguenze si sono protratte fino a oggi, sebbene la sua conoscenza oggettiva sia quanto meno precaria.

L’Autore ha correttamente anticipato al commento una presentazione integrale di quelle leggi, in guisa che il lettore, cui dovrebbe competere il vero giudizio finale, possa anzitutto conoscere. In sintesi, si tratta di norme giuridiche che statuivano il divieto di matrimoni misti fra coniugi appartenenti a «razze» diverse; ponevano discriminazioni in materia d’insegnamento a carico di docenti e discenti, formulate in base alla stessa pregiudiziale; e infine, introducevano limiti discriminanti in materia economica e patrimoniale. Il primo gruppo di provvedimenti ebbe valenza generale (anche allo scopo di prevenire commistioni che, come scrisse Indro Montanelli in pagine rimaste famose, erano diventate prassi ordinaria soprattutto nelle colonie africane con la diffusione del cosiddetto «madamismo»), mentre gli altri furono destinati agli Ebrei, che Mariantoni definisce più specificamente «giudaiti» (alla luce di precise motivazioni storiche e culturali).

Di fatto, le leggi razziali, rimaste in vigore fino alla caduta del fascismo e all’avvento del Governo di Pietro Badoglio (e nella Repubblica Sociale Italiana fino al termine della guerra), sono passate alla storia come una serie di norme cogenti, soprattutto in funzione antigiudaica, anche se gli Ebrei Italiani del 1938, come documenta l’Autore in una precisa disamina articolata regionalmente, non arrivavano a 60.000. Quindi, furono leggi scarsamente applicate e a più forte ragione inique, anche se vennero edulcorate con una lunga serie di eccezioni a favore di coloro che si erano resi benemeriti della Patria e del regime, tanto che non pochi martiri fascisti, individuati nel volume con tanto di nomi e cognomi, erano stati Ebrei.

L’opera di Mariantoni si fonda con particolare accuratezza su vastissime fonti e sul raffronto sinora pressoché ignoto con quanto accadde altrove in materia di legislazione antiebraica, spesso in modo drammaticamente peggiorativo (non solo in Germania e nell’Unione Sovietica ma persino in alcune democrazie occidentali). Ciò contribuisce a mettere ottimamente a fuoco i momenti essenziali della ricerca, che riguardano, da un lato, le motivazioni reali di quelle leggi, e dall’altro, gli errori, anche macroscopici, che spinsero alla loro promulgazione.

Il fascismo non aveva matrici razziste iniziali (nel senso deteriore che l’aggettivo ha finito per assumere) sia in Benito Mussolini che nei maggiori esponenti della sua cultura, anche se, già prima della Marcia su Roma, il futuro Duce non aveva esitato a sostenere la difesa della «razza» intendendo definire con questo nome non già un «popolo eletto» ma una nazionalità in pericolo, espressa da quella «stirpe mediterranea» che, come avrebbe detto a Trieste nel 1921, si era «sentita minacciata nelle ragioni essenziali e nell’esistenza, da una tragica follia»: quella del sovversivismo rosso, del materialismo e delle ingiurie agli ex combattenti, immotivate e oggettivamente immorali. Mussolini, anzi, si spinse a definire il fascismo come un «fenomeno religioso» e la bandiera in cui si riconosceva il «popolo virile» invocato nel discorso ai Lucani del 1936.

E allora, Mariantoni si chiede come sia accaduto che in tempi tanto brevi abbiano potuto essere varate quelle «leggi razziali» capaci, alla fine, di rivolgersi contro il fascismo alla stregua di un vero e proprio «boomerang». La risposta, argomentata e documentata in modo esaustivo, deve essere cercata in 16 anni di ostracismo all’Italia fascista tenacemente perseguito a livello internazionale dalle forze ebraiche mondiali, sia sul versante capitalista che su quello marxista: non a caso, nella guerra di Spagna si schierarono contro la Falange e le altre componenti nazionaliste, almeno in via di fatto, tanto gli Ebrei Occidentali quanto i Russi, non ancora perseguitati da Stalin. Dopo lunghi e tolleranti anni di antinomie, averli trovati sul fronte opposto a quello cattolico e franchista, a Guadalajara come altrove, convinse il fascismo a prendere le opportune misure sulla scorta del principio di Newton, opportunamente citato dall’Autore, secondo cui «a ogni azione corrisponde una reazione».

Il percorso di Mussolini non fu casuale né improvvisato; tanto meno, le leggi razziali furono motivate, come vorrebbe una vulgata anche autorevole, dal desiderio di «scimmiottare» la Germania e di acquisire benevolenze surrettizie nei confronti di Hitler. Al riguardo, non si deve dimenticare che il Duce, diversamente da quanto accadde in altri Stati autoritari o totalitari, aveva dovuto accettare la «dualità» con la Monarchia Sabauda, che a posteriori gli sarebbe stata fatale, e nello stesso tempo, quella con il Vaticano: Mussolini sapeva bene che il popolo italiano, nella sua consolidata tradizione cattolica, avrebbe visto con favore un rapporto positivo con le gerarchie ecclesiastiche, messo a punto in termini definitivi nei Patti Lateranensi.

Ebbene, il rapporto con l’Ebraismo deve essere visto anche in questa ottica. Non a caso, Mariantoni propone una lunga serie di Pontefici, Padri della Chiesa e filosofi cristiani che avevano assunto posizioni quanto meno critiche nei confronti del mondo giudaico, muovendo da Clemente I, il quarto Papa della storia cristiana, per giungere a San Tommaso passando per Tertulliano, Sant’Ambrogio e Origene. Ciò, senza dire che dopo la Conciliazione del 1929 il Pontefice Pio XI e diversi Cardinali, fra cui l’Arcivescovo di Milano, quello stesso Ildefonso Schuster che in tempi successivi fu protagonista significativo dell’ultima vicenda mussoliniana, sarebbero arrivati a definire il Duce quale «Uomo della Provvidenza» capace di aprire una pagina nuova «nella storia della Chiesa Cattolica in Italia».

Nel 1937, a dimostrazione della rapidità con cui la vicenda storica è in grado di procedere, lo stesso Pio XI si espresse in termini ben diversi, tramite la ferma condanna del razzismo tedesco ormai dilagante, contenuta nell’enciclica Mit brennender Sorge (redatta eccezionalmente in tedesco e scritta per buona parte dal Cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII) ma a quel punto l’opposizione ebraica mondiale aveva raggiunto il punto di non ritorno e Mussolini, nonostante una distanza siderale nei confronti del paganesimo nazionalsocialista, aveva dovuto prendere le contromisure, se non altro a livello deontologico.

Qui, si innestano le pertinenti considerazioni sugli «errori» del fascismo nella messa a punto delle leggi razziali: in primo luogo, quello semantico, perché sarebbe stato sufficiente definirle in altro modo (ad esempio con un semplice richiamo alla «difesa» dello Stato) per ridurne l’impatto certamente impopolare anche nella grande maggioranza del mondo cattolico. Secondo errore non meno decisivo, anche se in qualche misura corollario del primo, fu l’avere qualificato il popolo ebreo come una vera e propria «razza» (cosa tutt’altro che fondata sia storicamente che scientificamente) quasi costringendolo ad assumere una nuova autocoscienza della propria specialità che avrebbe avuto importanti effetti politici a lungo termine, e nell’immediato, spingendolo a conseguire una forte unità antifascista altrimenti impensabile, se non altro alla luce dell’esperienza fascista di non pochi uomini di fede ebraica. In altri termini, per taluni aspetti si possono comprendere storicamente le ragioni che spinsero Mussolini a varare le leggi razziali, e Vittorio Emanuele III a promulgarle, ma gli errori commessi nella circostanza furono a dir poco macroscopici, a cominciare da quelli di carattere etico.

Né si può eccepire che la dirigenza fascista e gli ambienti culturalmente più impegnati fossero stati propensi a perseguire un obiettivo moralmente opinabile (tanto più che andava a colpire parecchie persone illustri e integerrime) e politicamente marginale, almeno sul fronte interno. Sarebbe vano cercare spunti «razzisti» nel pensiero di Giovanni Gentile o in quello di Berto Ricci: qualcosa di diverso accadde durante la Repubblica Sociale, non tanto nelle posizioni sostanzialmente isolate di un Giovanni Preziosi o di un Telesio Interlandi, quanto in quelle di Don Diego Calcagno, il fondatore di «Crociata Italica» che, con i tanti confratelli impegnati nel movimento e le 150.000 copie di tiratura, sarebbe diventato il periodico più venduto e più letto nel territorio repubblicano, quasi a sottolineare l’ansia religiosa di un popolo sin troppo provato dal lungo conflitto, e ora dalla guerra civile. Ma questo è un altro discorso, concluso anche per Don Diego, dopo la scomunica di marzo, nella tragica mattanza dell’aprile 1945 a opera dei partigiani.

Mussolini stesso non era convinto della necessità di difendere la «razza» mentre era perfettamente consapevole, in una corretta ottica machiavelliana, circa quella di perseguire la «salvezza» dello Stato. Da questo punto di vista, basta rileggere il discorso di Venezia del 1934, in cui aveva preso decisamente posizione contro gli sbandamenti razziali di Hitler, commiserandone talune surreali e quasi comiche suggestioni, psicologicamente aberranti. Ma tant’è: le leggi del 1938 vennero promulgate e a nulla valse, come avrebbe detto in tempi lontani Giovanni Botero nella sua grande opera sulla ragione di Stato, il «contemperamento» con parecchie eccezioni. E laddove si voglia esprimere un giudizio nella stessa ottica di quel grande pensatore politico del Seicento, bisogna pur dire che il peccato essenziale delle leggi razziali, a parte il distacco dall’«ethos» idealistico, sta nel loro carattere velleitario e nella mancanza di una qualsivoglia «pubblica utilità» in quanto furono tristemente incapaci di perseguire il disegno politico per cui erano state ipotizzate, e gettarono un’ombra su tutta l’esperienza fascista che neppure la «guerra del sangue contro l’oro» sarebbe stata in grado di esorcizzare.

L’ostracismo ebraico mondiale all’Italia è un dato di fatto chiaro e preciso, documentato in maniera sistematica, ma le leggi razziali furono un’arma spuntata, perché potevano avere qualche effetto, oltre tutto quantitativamente marginale, nella sola politica interna. Nondimeno, giudicare il fascismo alla sola luce di quelle leggi equivale pur sempre a gettare via il bambino assieme all’acqua sporca: una conseguenza antistorica, che è merito di Alberto Bernardino Mariantoni avere messo a fuoco, in termini oggettivi e metodologicamente corretti, per memoria futura e riflessioni attuali.

(marzo 2020)

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