Un Italiano medio durante il Ventennio
Alcune vicende storiche del periodo fascista vissute attraverso lo sguardo «retrò» di un bambino «privilegiato»

Quante analogie e quante differenze esistono tra la condizione di Italiano medio attuale e quella di ottanta-cento anni fa? Possiamo ritrovarci dentro alle questioni politiche e socio-economiche dei nostri nonni?

Le vicende di un uomo oggi ultra ottantenne che, in qualità di pittore, ha voluto non solo dipingere col pennello ma anche pubblicare i suoi ricordi d’infanzia e giovinezza, ci propongono una realtà socio culturale apparentemente lontana, ma in alcuni suoi aspetti molto in sintonia col nostro vissuto. Considerando che «l’esercizio della memoria e la conoscenza del passato costituiscono per se stessi un patrimonio sociale e culturale da utilizzare e perpetuare», la Storia a fumetti di Vittorio Campetti[1] è certamente illuminante e al tempo stesso «rassicurante». I nostri vizi privati e le piccole virtù che ci appartengono quasi ci accompagnano per mano nel suo percorso, e in modo non ideologico bensì fruibile da chiunque voglia appropriarsi di situazioni di vita fresche, leggere, anche in mezzo ad eventi non rassicuranti. Forse un lato non così negativo dell’Italiano medio può essere proprio questa leggerezza dell’essere. Rievochiamo con l’autore suggestioni e ricordi.

Egli scrive: «Quello che qui rappresento è un insieme d’impressioni e di ricordi della mia fanciullezza e della mia adolescenza, ricordi che si riferiscono per buona parte al periodo della Seconda Guerra Mondiale, da me vissuta a Sant’Andrea di Compito (Lucca) nella villa della mia nonna paterna Gemma, la villa Campetti ora detta Torregrossa, ed anche nella villa dei miei nonni materni Marco ed Eloisa, detta villa Borrini. Non ho voluto drammatizzare questi eventi, rappresentandoli con delle vignette acquerellate. Tenete presente che quanto ho scritto riguardo alla guerra son tutti ricordi ed impressioni vissute da un bambino di dodici anni, per cui possono essere cronologicamente inesatte o non prive di fantasia, però sempre fondamentalmente veritiere».

La storiografia è fatta anche di piccoli vissuti quotidiani, di piccole gocce che costituiscono però l’ossatura di un percorso storico. Credo che solo volendo reimmaginare e ricostruire certe pennellate, anche a forti tinte, riusciamo meglio ad assaporare fatti e situazioni.

La memoria storica, specialmente se infantile, può in effetti avere qualche pecca, ma forse, proprio per questo, apparirci ancor più illuminante.

Nato a Lucca il 4 novembre 1930, Vittorio Campetti è il terzo ed ultimo figlio di Ottorino Campetti e di Beatrice Giusfredi. Il giorno della sua nascita era il dodicesimo anniversario della fine della Grande Guerra 1915-1918 ed in quell’occasione venne a Lucca l’allora Re d’Italia Vittorio Emanuele III per inaugurare il monumento alla vittoria. Al bambino misero perciò come primo nome Vittorio.

Ottorino Campetti era un professore di fisica e matematica all’Istituto Tecnico di Lucca, mentre Beatrice Giusfredi, pur essendo diplomata in pianoforte, faceva la casalinga. Il piccolo Vittorio era cagionevole di salute, e la madre talvolta lo lasciava dalle suore per «prendersi una pausa di relax» dalle fatiche quotidiane, ed il bambino ha un ricordo niente affatto gradito della sua permanenza all’asilo. Dice infatti: «Mi portava spesso all’asilo infantile, lasciandomi in balia di una suora che mi era antipatica: voleva per forza che mangiassi sempre, ma io non avevo fame. Mangiavamo su di un’enorme tavola con piatti di metallo, circondati da bambini molto dispettosi. Quando conobbi una suora più simpatica, che ogni tanto mi regalava un wafer al cioccolato, cominciai a rilassarmi».

Prosegue Vittorio nella sua suggestiva descrizione della vita trascorsa nella campagna lucchese durante l’infanzia, non così dissimile dalle altre realtà di provincia dell’intera Penisola, allora quasi esclusivamente rurale: «Passavamo l’estate a Sant’Andrea di Compito, paese sulle colline dei Monti Pisani. Fra i primi ricordi di questo lungo soggiorno a Compito c’è l’arrivo della trebbiatrice nel mese di giugno, che veniva a trebbiare il grano nelle varie famiglie compitesi che possedevano il raccolto. Era una gran festa per tutti i bambini, che correvano dietro la trebbiatrice man mano che si spostava nelle varie corti del paese. La sera si usciva nella strada che era piena di lucciole. Le strade erano molto buie e le lucciole quasi le illuminavano, visto che l’illuminazione pubblica era inesistente. Mio padre si interessava di astronomia ed in queste bellissime notti stellate mi insegnava spesso a conoscere le stelle. Di questo periodo ricordo anche vagamente l’arrivo di soldati che si esercitavano alla guerra sulle colline circostanti. Era la vigilia della guerra d’Etiopia ed i soldati avevano messo le loro cucine nella vecchia scuola del paese, vicino alla Torre di Guardia medievale, qui ubicata. Inoltre avevano un deposito di materiale dove spesso andavamo a trovarli».

In tempi peraltro già ampiamente burrascosi tutto in campagna sembrava immobile, salvo alcuni sporadici segnali di turbolenza politica qui descritti. Sono questi ricordi d’infanzia che mostrano cosa stava succedendo nel Paese intero: «Quando eravamo ancora a Compito nei primi giorni d’ottobre, fui portato a Lucca per l’inizio dell’anno scolastico insieme a mamma coll’auto dello zio Gaetano. La piazza cittadina di Santa Maria Bianca in Lucca, dove era ubicata la mia scuola, era piena di bambini in uniforme di Balilla o di “figli della lupa” che sventolavano le bandierine tricolori. Mi dissero che facevano festa perché gli Spagnoli del Generale Franco (detto caudillo) in Spagna, insieme ai volontari fascisti italiani avevano conquistato Madrid, per cui la guerra di Spagna era praticamente finita con la loro vittoria!».

Il bambino di allora è ancora lontano di fatto dai venti di guerra che già si presagivano, tant’è che è la normalità «privilegiata» che vive ad assorbirlo interamente: «La mia famiglia – egli prosegue nel raccontarsi – trascorreva gran parte dell’estate a Compito, salvo andare qualche volta a Viareggio in Via Coppino a casa della zia Teresa, oppure all’Ardenza a Livorno, dove i miei nonni materni avevano una villa vicino al mare […]. Trascorrevamo anche le vacanze di Natale quasi sempre all’Ardenza. La mia mamma ed io andavamo alcuni giorni prima in autobus. Poi mio padre ed altri familiari ci raggiungevano la vigilia di Natale in treno. Mio padre non aveva l’auto perché a quei tempi era considerata un lusso. Solo mio zio e mio nonno ne avevano una. Il traffico stradale era costituito essenzialmente da barrocci, carrozze e calessini. Solo poche auto per i ricchi signori. All’Ardenza andavo spesso in barca con un mezzo preso a nolo nel porticciolo. Erano giorni felici e spensierati, purtroppo interrotti dal decesso di un mio cuginetto, morto per un’operazione di appendicite finita in infezione».

Alcune pennellate ci rendono giustizia di quello che il regime fascista rappresentava praticamente per un ragazzino della sua età, inserito peraltro nel sistema: «Quando facevo le elementari, il fascismo in Italia era ormai da tempo affermato. C’era il culto dell’Impero, con il celebre discorso di Mussolini alla fine della guerra d’Etiopia… “Dopo venti secoli è risorto l’Impero sui colli fatali di Roma”. …I ragazzi erano tutti iscritti alla ONB (Opera nazionale Balilla). Il nome “Balilla” si riferiva all’ormai celebre Giovan Battista Perasso detto Balilla, abitante a Portoria, un sobborgo di Genova, che nel 1746 scagliò un sasso contro alcuni soldati austriaci che pretendevano di essere aiutati a levare dal fango un carro con sopra un mortaio. In quel tempo Genova era stata occupata dagli Austro-Piemontesi, mentre era alleata dei Francesi, e questo gesto provocò una ribellione del popolo contro gli Austriaci, che si concluse con la liberazione di Genova».

«I bambini – prosegue Vittorio – il sabato mattina dovevano andare a scuola vestiti da Balilla così come gli insegnanti in uniforme Sahariana. Nel pomeriggio del sabato c’era poi l’adunata presso il gruppo rionale a cui si apparteneva. Io ero del gruppo rionale “Gino Giannini”, martire fascista, che in Lucca si trovava in Via Roma, corte Sbarra. Di lì si partiva inquadrati al ritmo del tamburo attraverso la città fin sulle Mura, col moschetto-giocattolo in spalla. Facevamo l’addestramento formale, proprio come i soldati».

La cosa era vissuta quasi come un gioco dal piccolo Vittorio, sino alla proclamazione di guerra del giugno del 1940. Fino a quel momento l’«Italiano medio» Vittorio era solo un bambino che non percepiva fino in fondo lo scorrere degli eventi. E con tutta probabilità nemmeno i suoi genitori. È suggestivo proprio quello che viene riferito sul momento dell’entrata in guerra dell’Italia, quando una certa percezione del pericolo affiorò ai suoi occhi: «Durante le vacanze estive, quando eravamo a Compito, un giorno mi trovavo in piazzetta “Tre Tigli” con tutta la gente riunita per ascoltare alla radio il discorso di Mussolini. Era il giugno del 1940 e l’unica radio del paese era presso il bar omonimo. Temevamo fortemente che l’Italia entrasse in guerra per cui l’attesa era molto febbrile. Ricordo che Narciso, il babbo dei miei amici e coetanei Augusto e Leonella, diceva che se non scoppiava la guerra andava subito in monte a far legna, mentre se scoppiava si sarebbe messo la divisa di soldato perché quasi certamente richiamato alle armi!

Mussolini cominciò il suo discorso con forte suspense, affermando poi che la dichiarazione di guerra era già stata consegnata agli ambasciatori di Francia ed Inghilterra. Dalla radio si alzò un boato di applausi mentre gli uditori nella piazzetta di Compito ebbero brontolii di sgomento! Molti Italiani furono talmente coinvolti nella propaganda fascista da restare indifferenti verso il conflitto».

Analogie col presente? Come negare un certo senso di inquietudine e disaffezione alla realtà che ieri come oggi contraddistingue un ceto medio fragile come quello italiano?

Ma la suggestiva descrizione di una città di provincia di Vittorio Campetti, ed ancor più di un paesino sui Monti Pisani, crocevia degli eventi bellici del Secondo Conflitto Mondiale, ci introduce alle grandi differenze strutturali col nostro presente. Qui si è davvero distanti anni luce dall’oggi: «A Compito[2] venivano tutti i giorni due ortolani, che passavano col barroccio trainato da un asino, uno si chiamava “il Monco” perché era senza una mano e passava in tarda mattinata. L’altro si chiamava “Buiore” perché passava di sera quando cominciava a far buio. Così trascorrevo il tempo in estate, tra la casa di mia nonna Gemma, cioè la villa Campetti nella piazza “I Tre Tigli” e la villa dei miei nonni materni, villa Borrini-Giusfredi. Una mia occupazione era quella di andare a prendere l’acqua alla fontana. Nelle case non c’era ancora l’acqua corrente e ci si lavava con l’acqua del pozzo. Per bere e cucinare ci voleva l’acqua fresca della fontana. […] Anche la luce elettrica mancava in molte case. […] L’impianto dell’acqua corrente nelle case e l’asfaltatura delle strade furono fatti solo negli anni Cinquanta, dopo la fine del conflitto. […]

I mesi successivi alla dichiarazione di guerra passarono lenti». Tutto appariva meno partecipato e più sfuggente rispetto all’oggi, vista la scarsa diffusione mediatica degli eventi, dal momento che ancora i media non gestivano totalmente le vite di ognuno. Anche se le vicende politiche erano gravi e determinanti.

«L’Impero coloniale cominciò presto a sgretolarsi, quasi subito dopo la sua stessa costituzione. L’Etiopia presto cadde, conquistata dagli Inglesi, entrati nel vicino Kenya».

Il Regime mussoliniano, per sostenere il fronte interno imponeva l’iscrizione al Partito, in quegli uomini soprattutto se dipendenti pubblici.

Il padre di Vittorio fu ammonito dal preside della scuola dove insegnava perché non era iscritto al Partito Fascista. Una scelta, la sua, frutto forse di un latente antifascismo, certamente dettata dal bisogno di restare ancorato ai vecchi valori risorgimentali. Tanti furono i monarchici antifascisti in quella stagione politica.

Questi i ricordi di Vittorio Campetti in proposito: «Il Preside disse a mio padre: “Caro Campetti, io ti stimo molto, però ci sono alcuni insegnanti fascisti che ambiscono al tuo posto, per cui se non ti iscrivi al Partito sarò costretto a licenziarti”.

Figuratevi come eravamo sconvolti noi! Eravamo una famiglia di cinque persone che vivevano con lo stipendio di mio padre! Dovette quanto mai cercare di iscriversi, anche se di fatto risulta agli atti che non lo fece mai!».

Mi soffermerei ancora sull’Italiano medio di questo contesto politico. Intravediamo, ieri come oggi, un ceto medio ancorato a bisogni ritenuti «essenziali», e ben delineati: la presenza e tutela costante del nucleo familiare; un dinamico bisogno d’interazione col contesto sociale e territoriale di riferimento; comodità come l’automobile, ancora un lusso per i più; i luoghi di vacanza; la casa al mare eccetera.

Ma anche legato ai piaceri dell’anima, che una più generale preparazione in ambito culturale rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione, permetteva di assaporare. Così la visione di Vittorio, in notturna, delle stelle con uno strumento, insieme al padre, si fa quasi poesia; così come il prodigarsi della madre al pianoforte.

Gli eventi bellici renderanno poi quei momenti a Vittorio un evento lontano, vista la tragicità degli stessi.

In proposito la diretta testimonianza dell’autore rende giustizia proprio alle drammatiche vicende belliche del periodo: «La guerra si avvicinava. Gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e Mussolini fu costretto a dare le dimissioni. La guerra però continuava perché il Re doveva salvare la faccia coi Tedeschi. L’8 settembre 1943 fu concluso l’Armistizio con gli Alleati ed il Re scappò al Sud con tutto lo Stato Maggiore mentre l’Esercito Italiano, senza alcuna direttiva, si sfasciava. Ricordo che a Compito arrivavano alla spicciolata soldati italiani scappati da Pisa attraverso i monti, affamati, sgomenti, stanchi e delusi; alcuni piangevano dalla rabbia! Sembrava di vedere quanto il celebre film Tutti a casa, con Alberto Sordi, che qualche anno dopo rese noto di quegli eventi al mondo intero! Noi li ricevemmo come meglio potevamo, dando loro da mangiare, da dormire e un po’ di abiti civili per non farsi riconoscere dai Tedeschi». In questi casi l’aiuto offerto alle varie componenti politiche, che vivevano nello sbandamento più generale, era dettato non solo e non tanto da convinzioni politiche, quanto dal sentirsi parte in causa di una più ampia tragedia civile.

«Così trascorremmo poi l’inverno del 1943-1944 tutti a Compito, perché era pericoloso stare in città [Lucca] e quindi quell’inverno non andai mai a scuola. Invece mio padre tutte le mattine doveva andare a scuola, al lavoro, sempre a Lucca, in bicicletta, mentre lo zio Gaetano, che insegnava a Pisa, doveva raggiungere la sua scuola attraverso i Monti Pisani fino a Calci, dove il suo istituto era stato trasferito, presso la Certosa, a causa dei bombardamenti. […]

Nello stesso periodo arrivarono a Compito anche alcuni prigionieri alleati, scappati dal campo di concentramento di Colle di Compito[3] dopo l’8 settembre. Questi furono nascosti in alcune casette in mezzo ai boschi dette “Metati”, dove rimasero fino all’arrivo dell’Esercito Alleato. Erano tre neri sudafricani dell’Esercito Inglese. Il mio incarico, come quello di altri ragazzi compitesi, era quello di portar loro da mangiare perché un bimbo avrebbe dato meno nell’occhio. La cosa era molto rischiosa per tutti, comunque facevo questo lavoro molto volentieri, in quanto mi sentivo utile ed importante».

Nel periodo un luogo defilato come poteva essere la località di Compito, sui Monti Pisani, diventò di fatto un crocevia. La Linea Gotica rimase a lungo a stanziare in Lucchesia, cosa che fece della città e dei luoghi limitrofi un bersaglio mobile.

Prosegue nel racconto Vittorio Campetti: «Arrivarono a Compito anche quattro prigionieri russi scappati da un treno militare tedesco. I primi tempi diffidavamo di loro perché si sospettava fossero spie, ma poi quando vedemmo che questi poveracci stavano morendo di fame, tutto il paese si prodigò per aiutarli. Diventammo molto amici e per ringraziarci di quello che facevamo per loro, ogni tanto ci regalavano dei bastoncini di legno che si divertivano a fare, tutti lavorati con disegni e decorazioni.

Ricordo che un giorno la mia mamma non aveva niente da mangiare da dare ai prigionieri. Allora andai io da un sodato tedesco che conoscevo di vista e gli chiesi un po’ di pane perché avevo fame. Lui si commosse e mi dette subito un grosso pane. Così, questo pane, corsi subito a portarlo ai prigionieri nascosti nel Metato. In seguito, per l’aiuto dato ai prigionieri, la mia mamma ebbe un riconoscimento scritto da parte del Generale Alexander, comandante in capo dell’8° Armata Britannica».

Un mondo in subbuglio, quello vissuto dal ragazzino Vittorio. E il suo appartenere alla classe medio agiata non lo mise certamente al riparo da ogni possibile evento.

L’umanità che traspare dalla sua descrizione, tesa a sottolineare soprattutto la sofferenza su entrambi i fronti, viene ancor più percepita quando egli ci presenta la condizione dei soldati delle truppe tedesche, che peraltro alloggiarono nella villa dei suoi nonni: «Arrivarono a Compito anche i soldati tedeschi della divisione “Hermann Goering” che presero alloggio in alcune stanze della villa Borrini. Erano reduci dalla guerra di Libia dell’Afrika-Corps, momentaneamente a riposo perché stremati dalla guerra. In particolare ricordo di un soldato di nome Heinz, un povero diavolo che aveva molto poco di nazista. Questi, per farmi piacere, mi fece fare un giro su di un camion, da Compito fino alla Pieve. E lì purtroppo finì la benzina e dovemmo lasciare il camion per tornare indietro a piedi. C’era anche Louis, ex ufficiale tedesco ridotto a ruolo di soldato semplice perché scoperto, quando era in Africa, ad ascoltare Radio Londra. Parlava bene l’italiano e una volta mi fece prendere in mano, senza sparare naturalmente, la famosa machine-pistole. Dopo diversi giorni partirono nuovamente per il fronte. Furono mandati ad Anzio, dove furono quasi tutti annientati».

Le vicende che investirono successivamente sia il protagonista che la sua famiglia rientrano in una sorta di normalità della condizione di vita del tempo, per quanto la parola normale possa diventare in questi casi quasi un eufemismo.

Nella casa dei nonni dell’autore del racconto si installò il comando tedesco col Generale Dolster, che sovrintendeva le truppe del Reich, con al suo fianco un misterioso conte G…, che si dichiarava pugliese e che sosteneva quelle stesse truppe.

I nonni di Vittorio, in quel periodo, si schierarono di fatto con i partigiani, che nella zona erano operativi. Non si sentivano degli eroi, affatto, anzi, ammette candidamente Campetti, semmai degli incoscienti allo sbaraglio, soprattutto osservando le circostanze col senno di poi.

Non erano sempre le convinzioni ideologiche a determinare l’azione dei più quanto le stesse situazioni di vita vissuta, che imponevano da sole talune scelte. Difficilmente era preventivabile, in un simile contesto, restare neutrali!

Quando poi l’eco delle stragi di Farneta e di Sant’Anna di Stazzema, luoghi relativamente vicini ai Monti Pisani, arrivarono a Compito, i nonni di Vittorio si premunirono modificando i nascondigli ai partigiani che accoglievano. Più o meno nello stesso periodo «un pomeriggio, mentre andavo a prendere l’acqua alla fontana – ci dice Vittorio – notai un insolito movimento di soldati ed ufficiali sul cancello e nel giardino della villa Borrini. Arrivò anche il Generale Dolster e pure lui si allineò con gli altri ufficiali. Era arrivato il Feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo di tutte le forze tedesche in Italia, per decidere la ritirata dal fronte dell’Arno alla Linea Gotica in Garfagnana.

Dopo pochi giorni il comando tedesco se ne andò e la mia famiglia riprese il controllo di villa Borrini. Il mese di agosto del 1944 era ormai alla fine. Il fronte sull’Arno era stato fermo circa un mese. Il 3 settembre 1944 gli Alleati si presentarono nel paesino di Compito, dove alloggiavamo».

Quasi un ritorno alla normalità dunque, nei luoghi che lo avevano visto giovane Balilla: «L’inverno del 1944 e la primavera del 1945 furono per me la ripresa della scuola dopo la pausa della guerra. Lucca era piena di soldati di tutte le nazionalità: Americani, Inglesi, Sudafricani, Australiani, Indiani, Brasiliani e perfino Polacchi! Il fronte si era fermato in Garfagnana sulla Linea Gotica e fra Natale e Capodanno ci fu una controffensiva tedesca che riuscì a rioccupare Barga e Gallicano. Gli Alleati riuscirono a fermare questa controffensiva grazie al tempestivo intervento di alcuni reparti di soldati indiani e sudafricani che vennero a rinforzare la 92° Divisione di fanteria americana che stava combattendo in Garfagnana. Ritornammo a vivere in città, a Lucca. Freddo, fame, momenti davvero duri! Passavamo davanti ad una edicola dove vedevamo solo foto di camere a gas. Passavamo di fronte ad una pizzeria dove vendevano saltuariamente solo castagnaccio poco cotto fatto con olio mescolato ad acqua. E nonostante ciò la fila della gente a litigarsene un pezzo!».

Dopo aver ritrovato alcuni suoi compagni di scuola, Vittorio descrive un suo rocambolesco viaggio a Livorno, che bene rende l’idea della confusione del momento: «Autobus non ce n’erano, così trovammo un passaggio su un camioncino carico di polli che ci portò fino a San Giuliano Terme. A Pisa riuscimmo a trovare un camion dell’Aeronautica Italiana che ci traghettò sino a Livorno. Poi proseguimmo a piedi fino all’Ardenza. La strada fatta costeggiava il campo d’aviazione di Pisa con tutti gli aerei che erano stati protagonisti dei bombardamenti. Fortezze volanti B 17; caccia bombardieri Thunderbolt; caccia Mustang; caccia Lightning; cicogne (Flyng Jeep) eccetera». Passando davanti al campo del Tombolo Vittorio Campetti notò una infinità di mezzi quali camion, jeep, carri armati, autoblindo, a perdita d’occhio. Ed allora fece un’esclamazione che da sola equivale allo smarrimento più generale di un ceto medio italiano, che forse non aveva fino in fondo compreso la portata degli eventi: «Come facevamo a vincere la guerra contro un esercito così potente!». La reazione dell’autista del camion alle sue parole stupì il ragazzo, convinto di averlo in qualche modo offeso, perché magari di convinzioni strettamente fasciste. Infatti l’uomo lo guardò con fare stizzoso e non disse nulla! Quel silenzio equivalse per Vittorio ad un’autentica pronuncia di resa.

Dopo il conflitto suo padre si ammalò. Divenuto preside, non riusciva a reggere le novità del momento quando accadeva di tutto: ex partigiani che pretendevano il diploma senza dare l’esame! Ragazzi indisciplinati per mancanza di regole a causa della guerra. In classe addirittura alcuni di loro accendevano il fuoco per cucinarsi la pasta! Prima che finisse la scuola, nel 1947, suo padre morì per un’operazione chirurgica mal riuscita. La famiglia si trasferì per un certo periodo in Calabria, in una prolungata vacanza per allontanarsi da penosi ricordi.

Il riferimento alle vicende di Vittorio Campetti vuol essere un modo per valorizzare un documento che è insieme descrittivo e storico, come la sua pubblicazione. Egli rivive con «leggerezza» quella sua condizione di «ex Balilla disilluso». La sua famiglia, mai completamente convinta dei benefici del Regime, per quanto assolutamente inserita nel contesto cittadino. Al riguardo Vittorio fa capire che poi il padre, forse per quieto vivere, prese la tessera fascista, senza tuttavia precisarlo. Ma pone anche l’accento sul fatto che la confusione del dopoguerra non decretò né vincitori, né vinti. Suo padre addirittura si ammalò per lo stress che dovette subire, come preside, quando i partigiani e il fronte «avverso» addirittura in classe si contendevano quegli spazi che erano di pertinenza esclusiva del sistema scolastico.

Ricordi, questi, di un bimbo prima e di un adolescente poi, ricordi che, per sua stessa ammissione, non è più riuscito a staccare dalla sua memoria. Una memoria peraltro condivisa e condivisibile con un’intera Nazione, a prescindere dalla latitudine. Queste poche pennellate vogliono solo ricordare come non esiste documento più reale della testimonianza diretta, velata sì dai ricordi, ma non per questo meno genuina ed esplicativa di un qualunque altro ufficiale documento. Un piccolissimo omaggio, quello di Vittorio Campetti, ad una classe di appartenenza, il ceto medio, che fu sin da allora particolarmente fragile, seppur combattiva. Uno spunto di riflessione anche per la nostra epoca.


Note

1 Vittorio Campetti, Storia a fumetti, Barbara Durante Editore, Lucca 2014.

2 Località collinare in provincia di Lucca, a ridosso dei Monti Pisani.

3 Colle di Compito, località limitrofa al luogo dove Campetti trascorreva le sue vacanze.

(gennaio 2015)

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