Chi ha «inventato» le pensioni
Per fare un po’ di chiarezza su luoghi comuni e falsità. La verità al di là di dati distorti e ideologie

La bomba scoppiò a settembre, e la sua deflagrazione si trascinò per più giorni, probabilmente oltre le intenzioni di chi l’aveva lanciata.

A detta di chi l’ha conosciuto personalmente, il cantautore Fausto Leali è una persona simpatica e di buon cuore. La frase incriminata, pronunciata durante la trasmissione del «Grande Fratello Vip 2020» dopo il preambolo «Se fai nove cose giuste e una sbagliata, la gente ti ricorderà solo per quella sbagliata, prendiamo in esempio Mussolini» è stata che il Duce «ha fatto delle cose per l’umanità, le pensioni. È andato poi con Hitler. Nella storia, Hitler era un fan di Mussolini». In sottofondo altri concorrenti, non inquadrati, hanno commentato: «È vero».

Possiamo dire che la frase sia stata infelice. A prescindere dal livello culturale della trasmissione, su cui non voglio soffermarmi, una frase detta così, lapidaria, può essere fraintesa. Però ha innescato una vera e propria reazione a catena su cui si sono inseriti uomini e donne dello spettacolo, giornalisti, storici veri o improvvisati, ideologi politici e i soliti «leoni da tastiera» che trovano libero sfogo nei commenti sul web. A cominciare da chi avrebbe voluto espellere il cantautore dal programma, nonostante gli altri concorrenti si siano schierati a sua difesa. Una marea di gente ha detto la sua pro o contro Fausto Leali, e poi si è rivolta alla sua frase. E ha cercato di capire «se» poteva dirla.

Il problema che è stato posto, dapprincipio, non è se l’affermazione fosse vera o falsa, ma se fosse lecito o no farla. In pratica, se fosse legale discutere sull’argomento «pensioni». Si è arrivati a citare, con assoluta mancanza di senso critico, la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione Italiana che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto Partito Fascista» (dubito che Fausto Leali abbia mai pensato anche lontanamente di fare una cosa simile), per poi attestarsi – sempre con un senso critico prossimo allo zero assoluto – sull’accusa di «apologia del fascismo», che è cosa ben diversa dalla semplice ammissione di un dato di fatto.

O no? Chi ha «inventato» il sistema pensionistico? Mussolini, come comunemente si dice? O qualcun altro? Cercheremo, in questo articolo, di scoprirlo, documenti alla mano.

Possiamo cominciare col dire che le pensioni, per come le intendiamo oggi, sono un fatto abbastanza recente. Alcuni Paesi, come la Bolivia, non le hanno neppure: lì, il mantenimento dei genitori in età avanzata ricade sui figli.

Era così anche in passato, ma la cosa non procurava grossi problemi sia perché la mortalità era alta ed erano ben pochi coloro che giungevano all’età in cui non si hanno più le forze per lavorare, sia perché la stragrande maggioranza della popolazione era dedita all’agricoltura e viveva in quelle belle famiglie in cui si avevano molti figli, che avrebbero imparato presto a lavorare anche per mantenere i genitori anziani. Certo, c’era anche chi era costretto dalla miseria a mendicare, allora come oggi. Nell’antica Roma, per i poveri venivano fatte periodiche elargizioni di grano. L’Imperatore Romano Giuliano l’Apostata si lamentava invece che le comunità cristiane aiutassero i poveri loro e quelli pagani, e auspicava che lo Stato dovesse fare altrettanto. Nel Medioevo, molte organizzazioni religiose si dedicavano all’assistenza e all’aiuto economico dei poveri (soprattutto orfani e vedove, ma anche anziani). Con l’inizio dell’industrializzazione, si diffusero in Italia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento le società di mutuo soccorso, frutti dello spirito paternalistico e filantropico di una parte della società borghese, alcune delle quali prevedevano – oltre all’assistenza, alla previdenza e alla mutualità verso i soci malati – aiuti economici alle donne durante e dopo la gravidanza, alle famiglie dei soci defunti e agli inabili per infortuni sul lavoro. Si trattava, comunque, in tutti questi casi, di istituzioni e di provvedimenti che nulla avevano a che fare con ciò che potremmo chiamare una pensione, soprattutto perché affidati all’iniziativa di privati e senza alcuna regolamentazione.

Il primo atto legislativo in senso pensionistico di cui si abbia conoscenza risale al 1812 nei Regni di Napoli e di Sicilia con la Legge del 4 agosto che introdusse un fondo pensionistico per gli ufficiali e gli impiegati statali, per le vedove e per gli orfani; nel 1889, Otto Von Bismark istituì in Germania una previsione pensionistica per i dipendenti della pubblica amministrazione che garantiva la pensione ai lavoratori dipendenti e stabilì l’età limite per usufruire di questo diritto. Da quel momento molti Paesi industrializzati dell’Europa e gli Stati Uniti presero spunto dalle normative tedesche quando si trattò di regolamentare, sotto questo aspetto, il mondo del lavoro.

In Italia nel 1898, sotto il Governo Pelloux, nacque la Cassa nazionale di previdenza per gli operai, la prima assicurazione pensionistica dopo l’Unità. In realtà, qualcuno cita Crispi, uomo della Sinistra, attribuendo a lui – nel 1895 – la creazione del sistema pensionistico, destinato ai soli impiegati del settore pubblico e ai militari. Tra chi sostiene questa idea possiamo annoverare, a titolo di esempio, i giornalisti Saverio Tommasi, Aldo Grasso e Francesco Filippi nel suo libro Mussolini ha fatto anche cose buone (il titolo vuole essere ironico: si tratta di un libro scritto con un astio e una violenza che da soli lo squalificherebbero anche se fosse meglio documentato e privo delle solite generalizzazioni, come la presunzione che Mussolini non ha mai fatto nulla di buono; neppure i partigiani più sfegatati dell’antifascismo con un briciolo di realismo avrebbero il coraggio di sottoscrivere un’affermazione così lapidaria). In realtà, come fanno notare storici di maggior valore come Gian Carlo Jocteau e Claudio Pavone, Crispi aveva riservato l’assistenza essenzialmente alle opere pie, che aveva modernizzato trasformandole in istituzioni di beneficenza; la legge sanitaria del 1888 e soprattutto quella sugli istituti pubblici di beneficenza avevano segnato il primo passo dell’allontanamento da una concezione privatistica della tutela sociale – fondata essenzialmente sulla filantropia – in nome di un’assunzione di compiti di assistenza da parte dello Stato, ma ancora in misura assai limitata (confronta: La Storia, volume XII, L’età dell’imperialismo e la Prima Guerra Mondiale, De Agostini Editore S.p.A., Novara 2004, pagina 310, capitolo La lotta politica e i conflitti sociali nell’Italia liberale, a firma di Gian Carlo Jocteau; La Storia, volume XIII, L’età dei totalitarismi e la Seconda Guerra Mondiale, De Agostini Editore S.p.A., Novara 2004, pagina 210, capitolo Il regime fascista, a firma di Claudio Pavone; i volumi, che fanno parte della serie «La Biblioteca di Repubblica», hanno un’impostazione marcatamente e dichiaratamente di Sinistra). Di sistema pensionistico gestito dallo Stato, qui, c’è un po’ poco: si tratta di una cosa allo stato ancora embrionale.

Il giornalista e scrittore Gianni Scipione Rossi rimarca la sostanziale differenza tra l’assicurazione pensionistica – si noti bene – volontaria per operai e impiegati, nata nel 1898, e quella obbligatoria, nata nel 1919, ma solo per i lavoratori dipendenti da privati. In un ottimo studio di Stefano Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale (Annali della facoltà di Giurisprudenza di Taranto, Cacucci editore, 2011), viene citata la Legge numero 350 del 17 luglio 1898, che promosse la nascita della Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità degli operai, già ricordata, alla quale i cittadini italiani che svolgevano lavori manuali o prestavano servizio a opera o a giornata potevano iscriversi liberamente e volontariamente. Agli inizi del Novecento si sviluppò il dibattito per organizzare l’assicurazione obbligatoria contro le malattie e coordinarla con i servizi di assistenza medica e ospedaliera, di tutela della maternità e con l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e con le esistenti istituzioni di beneficenza e di mutuo soccorso; da questo dibattito scaturì, sotto il Governo liberale di Vittorio Emanuele Orlando, la Legge 603/1919 che stabilì l’obbligatorietà dell’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia per tutti i lavoratori dipendenti da privati e unificò la Cassa nazionale infortuni e la Cassa nazionale per le assicurazioni sociali nella CNAS (Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali).

Con l’avvento del fascismo, si volle imprimere una spinta di accelerazione al processo di unificazione degli istituti gestori delle assicurazioni sociali. Lo stesso Mussolini in un discorso a Torino del 23 ottobre 1932 spiegò che il fascismo, nel suo intento di nobilitare il lavoro, si era sganciato «dal concetto troppo limitato di filantropia per arrivare al concetto più vasto e più profondo di assistenza. Dobbiamo fare ancora un passo innanzi: dall’assistenza dobbiamo arrivare all’attuazione piena della solidarietà nazionale».

Dopo i primi provvedimenti del 1923, con i quali era stato riordinato il Fondo per la disoccupazione involontaria affidato alla CNAS, senza però finanziamenti da parte dello Stato, si era assistito nel 1926 a una forte espansione della «mano pubblica» con l’avvio del monopolio assicurativo attuato attraverso il riordino della Cassa Nazionale Infortuni (CNI); l’anno successivo si istituì l’assicurazione obbligatoria contro la tubercolosi, estesa nel 1929 alle malattie per gente di mare, e nello stesso anno si pensò a prevedere l’assicurazione contro gli infortuni anche per le malattie professionali.

La CNI venne sostituita nel 1933 dall’INFAIL (Istituto Nazionale Fascista contro gli Infortuni sul Lavoro) e nello stesso anno venne costituito l’INFPS (Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale). L’idea che si trattasse, come tenta di far passare Filippi nel libro citato più sopra, di «un tentativo propagandistico di impossessarsi di quello che nei fatti era stato il frutto di decenni di contrattazioni e lotte sindacali, di riforme attuate dai Governi liberali e di iniziative delle associazioni di categoria dei lavoratori», diventando poi negli anni una macchina da stipendi, uno sfogatoio per le clientele e un produttore di consenso, è totalmente fuori da ogni realtà storica; del resto, Filippi ritiene una misura oppressiva di eccezionale gravità l’aver vietato – già dal 1926 – gli scioperi selvaggi e le serrate che negli anni precedenti avevano paralizzato il Paese, con gravi danni per l’economia e soprattutto per le classi lavoratrici più povere!

Negli Stati Uniti, il primo sistema pensionistico fu firmato il 14 agosto 1935 dal Presidente Franklin Delano Roosevelt col Social Security Act, che prevedeva il pagamento di un’indennità di disoccupazione e di una somma a vita per i lavoratori che avevano raggiunto l’età pensionabile. I primi contributi pensionistici iniziarono a essere versati nel 1937, e il primo assegno pensionistico fu staccato il 1º giugno 1940 a Ida May Fuller, originaria di Brattleboro nel Vermont. Nel 1939, il Congresso approvò tre emendamenti al Federal Insurance Contributions Act, creando la pensione di reversibilità per orfani e vedove, e la pensione minima anche per quanti non avevano mai versato alcun contributo.

Torniamo in Italia. Alla costituzione dell’INFPS seguì nel 1935 la promulgazione di un testo unico sul perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale che disciplinò il frammentato sistema previdenziale per l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione, la tubercolosi e la maternità; alcune modifiche al sistema furono apportate nel 1939, quando fu accolto il principio della reversibilità della pensione ai superstiti, rinviando al 1945 l’erogazione effettiva della prestazione, e fu abbassata l’età del pensionamento a 60 anni per gli uomini e a 55 per le donne, con aggiustamenti nella misura delle prestazioni, adeguate fino al 1943. In quell’anno si tentò anche di realizzare l’unificazione delle assicurazioni per malattia con l’istituzione dell’Ente Mutualità che, nei propositi della Legge 138/1943 avrebbe dovuto condurre alla completa unificazione degli istituti di assistenza per malattia, ma che di fatto non riuscì a realizzare tale intento.

Un rilievo è d’obbligo: tutti capiscono la differenza tra una Cassa di previdenza cui si aderiva volontariamente, quale fu la Cassa nazionale di previdenza per gli operai, e un sistema previdenziale pubblico che cominciò di fatto nel 1933 con l’INFPS poi divenuto INPS (l’odierno Istituto Nazionale di Previdenza Sociale; nel dopoguerra bastò togliere la «F» dalla sigla per renderlo adeguato ai nuovi tempi). La pensione sociale per tutti venne introdotta solo nel 1969; esistono inoltre Enti previdenziali per specifiche categorie di lavoratori (giornalisti, notai, avvocati, commercialisti), ma tutto ha origine da quei fatidici giorni del 1933.

Anche la famosa «tredicesima» fu un’idea di Mussolini, come tutte le altre istituzioni tese a creare un popolo sano, robusto e vigoroso: venne introdotta con il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL) del 5 agosto 1937, articolo 13, come una mensilità in più da corrispondere nel periodo natalizio per il momento ai soli impiegati del settore dell’industria (Filippi, con la solita faziosità dispiegata nel suo libro, tanto che si direbbe abbia qualcosa di personale e inconfessabile contro Mussolini, si lamenta che questa fosse un privilegio più che un diritto, dato che – sostiene – non ne beneficiava nessuno degli operai; avrà delle fonti a noi ignote per sostenere questa sua idea, dato che tutti i documenti e le testimonianze dell’epoca che ho potuto raccogliere dicono esattamente il contrario). Nel 1946, la tredicesima fu garantita di nuovo a tutti i lavoratori del settore industriale, per essere estesa alle rimanenti categorie nel 1960.

Qui non si tratta di fare apologia delle misure sociali introdotte dal fascismo, o del regime fascista in senso più ampio: se si racconta la storia a metà, o la si manipola, o non la si valuta con obiettività si vive nella menzogna e nell’errore, si ingannano gli altri e si continua a ingannare noi stessi, rischiando così di commettere i medesimi errori del passato, in una spirale di cui non si riesce a fissare il termine.

(novembre 2020)

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