Hotel Balkan: l’incendio triestino del 13 luglio 1920
Un autentico falso storico pervicace e strumentale

Nel luglio del 2010, in occasione del conclamato «concerto dell’amicizia» tenutosi a Trieste e diretto dal Maestro Riccardo Muti in Piazza dell’Unità davanti ai Presidenti di Italia, Croazia e Slovenia, Giorgio Napolitano volle omaggiare la lapide posta sulla facciata dell’ex Hotel Balkan deponendovi una corona il cui nastro era scritto soltanto in sloveno, ed accompagnandola con una carezza. In quella circostanza, al pari di altre, la verità storica venne nuovamente disattesa, se non anche oltraggiata.

Oltre tutto, a fronte delle pressioni e delle pretese slave non si seppe e non si volle cogliere l’occasione per un doveroso passaggio comune alla Foiba di Basovizza, e quindi l’ossequio al Balkan da parte di Napolitano (assieme al Presidente Croato Ivo Josipovic ed allo Sloveno Danilo Turk) fu un atto oggettivamente immotivato: ciò, alla luce di un evento storico stravolto e strumentalizzato dai mezzi d’informazione, tanto che il TG3 – per fare un solo esempio emblematico – parlò di una fantomatica «strage del Balkan» di matrice fascista: cosa che non era mai avvenuta, ma che ha continuato ad essere oggetto di una vulgata menzognera, giunta sino ai nostri giorni.

Purtroppo, sono state parecchie le occasioni in cui l’Italia ha espresso, nei confronti delle Repubbliche ex Jugoslave (e non solo di quelle), una posizione subordinata conforme alla sua inveterata tendenza ricordata più volte dall’Ambasciatore Gianfranco Giorgolo: quella di «essere bravissima nel fare gli interessi degli altri» ben oltre le forme e le consuetudini diplomatiche.

Tale atteggiamento si è ripetuto, fra l’altro, in occasione delle visite rese a Roma dai Presidenti Sloveno e Croato durante la crisi di Governo del maggio 2018, che si sarebbero potute rinviare di comune accordo, mentre vennero confermate per la precisa volontà di Sergio Mattarella; ma era già avvenuto spesso e volentieri, in specie durante le visite dei Presidenti o di Ministri Italiani nella ex Jugoslavia. Al riguardo, basti citare, tra gli episodi più famosi[1], il bacio di Pertini alla bandiera con la stella rossa e le sue genuflessioni sulla tomba di Tito; la partecipazione dello stesso Napolitano alle celebrazioni veterocomuniste di Pola; l’elargizione di 500 miliardi di vecchie lire che il Governo Goria concesse alla Jugoslavia, ormai sull’orlo della bancarotta, nel cosiddetto «viaggio della merla» (gennaio 1988).

Quanto al Balkan, il 13 luglio 1920 l’edificio triestino dell’omonimo Hotel, sede del Centro di cultura sloveno, andò a fuoco nel corso di una manifestazione di protesta a seguito dei fatti di Spalato immediatamente precedenti, in cui erano stati uccisi da mano slava il Comandante Tommaso Gulli (Medaglia d’Oro al Valore) ed il motorista Aldo Rossi (Medaglia d’Argento), e di quelli appena occorsi a Trieste nell’odierna Piazza dell’Unità, dove il giovane italiano Giovanni Nini fu pugnalato a morte da un Serbo[2], mentre altri (come il fuochista Antonio Raikovic – poi costretto ad una lunga degenza) vennero feriti.

Le cronache dell’epoca, tra cui quella ufficiale della Reale Guardia di Finanza[3], unitamente alle diverse testimonianze, hanno attestato che la cosiddetta «strage» ebbe una sola vittima slovena, ma non certo per mano italiana: si trattava del dottor Hugo Roblek, un farmacista di Bled lanciatosi dalla finestra senza attendere l’aiuto dei Vigili del Fuoco[4]. Sotto il Balkan, invece, venne ridotto in fin di vita il tenente Luigi Casciana che sarebbe spirato poche ore dopo in ospedale: dalle finestre, e persino dai tetti dell’edificio, erano state lanciate almeno due bombe a mano, una delle quali aveva ferito mortalmente lo sventurato militare italiano, ed erano stati sparati diversi colpi di fucile e di rivoltella.

A dispetto della sua matrice ufficiale di Centro della cultura e locale di ritrovo (assieme all’albergo erano in funzione un caffè ed un ristorante), il Balkan era diventato una vera e propria santabarbara che ospitava armi ed esplosivi di varia natura, con quali scopi eversivi non è difficile immaginare. Del resto, già dal 1910 l’organo triestino d’informazione slovena «Edinost» non aveva fatto mistero del programma di «non desistere» fino al raggiungimento dell’obiettivo dichiarato: quello di «mettere definitivamente sotto i piedi la nazionalità italiana».

Ciò spiega le ragioni per cui il palazzo andò repentinamente a fuoco dopo l’intervento delle forze dell’ordine (era presente un reparto della Reale Guardia, forte di 250 uomini agli ordini di Francesco Crispo Moncada, poi diventati 550 a seguito dell’arrivo di rinforzi) che risposero doverosamente ai predetti atti di guerriglia provenienti dall’interno; in qualche misura, anche a titolo di prevenzione e controllo nei confronti di ogni possibile violenza dei dimostranti, motivata dalla tensione indotta dai fatti di Spalato e della piazza triestina.

Altre fonti affermano che la forza pubblica avrebbe presidiato l’edificio permettendo solo all’ultimo momento l’uscita di coloro che, in caso contrario, sarebbero stati «arsi dalle fiamme e soffocati dal fumo»[5] ma la tesi è obiettivamente infondata perché gli ospiti del Balkan si erano fatti premura di abbandonare tempestivamente la struttura utilizzando uscite retrostanti, ancor prima che l’incendio fosse scoppiato[6].

Resta il fatto che, a fronte dei quattro caduti italiani vittime degli Slavi, nessuno di questi ultimi venne ucciso per mano italiana, perché lo stesso dottor Roblek (che evidentemente non aveva optato in tempo utile per l’uscita di servizio) si gettò dalla finestra di sua iniziativa, nel timore che l’aiuto dei Vigili non giungesse in tempo utile.

Concludendo, in una corretta prospettiva storica parlare di «strage fascista» costituisce un vero e proprio falso. Nondimeno, la vulgata è sempre viva e vegeta.

La menzogna «è lì che parla a chi la vuol sentire» e risulta a più forte ragione ovvia, tenuto conto che il primo Governo Mussolini sarebbe stato costituito a distanza di oltre due anni dall’incendio del Balkan. All’epoca, era in carica quello di Giovanni Giolitti, che nei giorni immediatamente successivi riferì in Consiglio dei Ministri circa la «situazione determinatasi sull’altra sponda, dopo la brutale aggressione di Spalato e le provocazioni jugoslave a Trieste». Ecco un giudizio dell’Italia liberale prefascista che nella sua efficace sintesi non ha bisogno di ulteriori commenti.

Allora, si persegua pure una politica di cordiale intesa nel comune interesse, ma senza ulteriori stravolgimenti della storia che non giovano a chicchessia; tanto meno, al buon vicinato. In questa ottica, è auspicabile che le massime Autorità dello Stato e degli Enti locali si astengano da ulteriori omaggi al Balkan, la cui iterazione diventerebbe grottesca, e per taluni aspetti, quanto meno amorale: «Errare humanum est, sed perseverare diabolicum».


Note

1 Per un primo inquadramento degli episodi in parola nella congiuntura politica dell’epoca, confronta Carlo Montani, Venezia Giulia e Dalmazia: Sommario storico / An historical outline (testo bilingue), terza edizione, ADES / Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste 2002, pagine 125-132.

2 L’Italia era stata protagonista, nella prima fase della Grande Guerra, del complesso ed eroico salvataggio dell’esercito serbo – reduce dalla disfatta ad opera austro-ungarica – che venne trasferito oltre Adriatico, muovendo dall’Albania, con una gigantesca operazione della Marina Militare: confronta Stato Maggiore della Difesa, Per l’Esercito serbo: una storia dimenticata, Informazioni della Difesa, Roma, riedizione 2014, 128 pagine). Ecco un motivo di più idoneo a suffragare la reazione dei patrioti triestini dopo il ferimento mortale del Nini, che oltre tutto era minorenne, per mano serba.

3 Confronta Legione della Reale Guardia di Finanza di Trieste, Relazione riservata/urgente dell’Ufficio Comando (a firma del Colonnello Sante Laria) all’Ispettorato Generale di Roma, avente per oggetto «Dimostrazione nazionalista avvenuta a Trieste il 13 luglio e conseguenti gravi disordini», protocollo 13771, citata in Pierpaolo Meccariello, Storia della Guardia di Finanza, Edizioni Le Monnier, Firenze 2003, pagine 141-142, con nota in pagina 181. Giova aggiungere che nella Relazione della Guardia non si fa parola dell’uccisione di Casciana, perché il documento venne predisposto nell’immediato (14 luglio), quando le sorti della vittima non erano ancora note.

4 Il dottor Roblek, verosimilmente estraneo ai fatti, si trovava in vacanza a Trieste insieme alla giovane moglie (per altre fonti sarebbe stato con la figlia) che ne seguì l’esempio con esito migliore perché, stando alle cronache, avrebbe aspettato il breve tempo necessario all’intervento dei Vigili.

5 Maura Hametz, Making Trieste Italian (1918-1954), The Royal Historical Society, Boydell Press, Rochester 2005, citato in Giuseppe Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia, Einaudi, Torino 2009, pagina 22. Sull’argomento, si veda inoltre: Raoul Pupo, Il lungo Esodo, Rizzoli Storica, Milano 2005, pagine 31-33; lo storico triestino propende, diversamente dalla Hametz, per la tesi secondo cui il Balkan sarebbe stato oggetto di un’azione congiunta da parte di forze dell’ordine e dimostranti, al pari di Almerigo Apollonio, Venezia Giulia e fascismo, Edizioni LEG, Gorizia 2004, pagina 19. Del «lancio di bombe» dall’edificio riferisce, tra gli altri, anche Giuseppina Mellace, Una grande tragedia dimenticata, Newton Compton Editori, Milano 2015, pagina 22.

6 La vicenda del Balkan si consumò rapidamente nel giro di poche ore: in pratica, come attesta la citata Relazione della Reale Guardia di Finanza, i fatti si svolsero tra le 19 e le 22 mentre la notte rimase relativamente tranquilla, anche per l’opera della forza pubblica, il cui servizio «fu vivamente apprezzato da tutte le Autorità civili e militari».

(agosto 2018)

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