Fiume d’Italia: novantennale della Redenzione
Quando Fiume fu ricongiunta all’Italia: l’ultimo atto di un Risorgimento mai compiutamente concluso

Il 22 febbraio 1924, la pubblicazione del decreto che statuiva l’avvento della sovranità italiana sulla «città di Fiume ed il suo territorio» fu l’ultimo atto del lungo Risorgimento, di cui alla storiografia più recente ed impegnata (basti pensare alla grande opera di Gilles Pécout) e che un secolo prima aveva tratto origine dai forti moti carbonari e dalla diffusione dell’idea di nazionalità, progressivamente sempre più condivisa fino a diventare impetuosa a Quarto dei Mille ed a Ronchi dei Legionari, con Gabriele d’Annunzio protagonista prioritario.

Oggi, trascorso un novantennio da quella data, posta in una storia non esente dal mito, ricordare Fiume Italiana è tutt’altro che un esercizio retorico, perché l’atto formale a firma del Sovrano e del Capo del Governo consolidava nel risultato più atteso dalla «vera» Italia un lungo percorso di speranze, di volontà e di sacrifici, di cui il Natale di Sangue del 1920 aveva costituito il momento di massima passione. Il decreto del 22 febbraio, di soli quattro articoli[1], stabiliva che Fiume ed il suo distretto «vengono a far parte del Regno d’Italia» codificando in queste poche parole la fine di ogni dubbio e di ogni paralogismo, ivi compresa la breve esperienza autonomista, cui gli eventi successivi all’armistizio del 1943 avrebbero conferito un’effimera reviviscenza quando i suoi esponenti migliori (Mario Blasich, Giuseppe Sincich, Nevio Skull) si illusero di salvare la città dall’invasione slava proponendo la restaurazione dello Stato libero voluto dal trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, ma pagando la loro utopia col martirio ad opera dei partigiani di Tito.

La chiusura del contenzioso fra l’Italia e la Jugoslavia col trattato di Roma del 27 gennaio 1924, stipulato ad iniziativa del Capo del Governo, Benito Mussolini, e del suo omologo Nicola Pasic, parve determinare l’avviamento di relazioni normali fra i due Paesi, temporaneamente compromesse dal terrorismo croato e sloveno che si sarebbe reso protagonista di improbabili conati irredentisti estesi persino a Trieste; ma addirittura cordiali dal 1937 in poi, a seguito del patto di amicizia firmato da Galeazzo Ciano e Milan Stojadinovic e della successiva adesione jugoslava all’Asse, vanificata irrimediabilmente dal colpo di Stato del marzo 1941 e dal cambio di campo attuato dal Governo di Belgrado.

Con il trasferimento della sovranità a favore dell’Italia, le nuove provvidenze per Fiume non sarebbero mancate, sia sul piano delle infrastrutture che su quello delle incentivazioni economiche, ma un valore aggiunto importante fu costituito dalla distensione intervenuta nei rapporti bilaterali, anche se ciò aveva imposto di riconoscere il confine sull’Eneo e disattendere le attese della Dalmazia, pur legittimate dal Patto di Londra dell’aprile 1915 e dal suo «esodo dimenticato», tristemente sopravvenuto in seguito alla creazione della Jugoslavia, con la sola eccezione dell’enclave di Zara. In questo senso, si può dire che il Risorgimento non ebbe completa attuazione nemmeno col decreto del 22 febbraio.

Fiume aveva dato all’Italia un esempio di alta passione patriottica, dapprima con i suoi volontari e poi con tutta la vicenda dannunziana, che non fu un «pronunciamento» di tanti disertori, ivi compresi due Generali dell’Esercito Italiano, ma la risposta appassionata al nuovo «grido di dolore» che si era levato nella stessa Fiume in modo trasversale e maggioritario; ed una risposta che durante la Reggenza si sarebbe tradotta nella Carta del Carnaro, ovvero in una Costituzione particolarmente avanzata e moderna, capace di statuire, fra l’altro, l’annullamento di tante discriminazioni, il ruolo sociale della proprietà ed il comune obbligo di partecipare alla difesa della Patria. Anche per questo, l’esempio di Fiume non venne dimenticato nella breve stagione autonomista, tanto più che lo Stato cuscinetto, al pari di quanto sarebbe accaduto a Trieste nel secondo dopoguerra con la lunga e sofferta vicenda del Territorio Libero, aveva posto in evidenza i limiti politici, istituzionali ed economici determinati, se non altro, dalle sue dimensioni minime, consigliando a Roma ed a Belgrado l’opportunità di una soluzione concordata e ragionevole.

Le intese del 1924, assieme a quelle successive di cui si diceva, vennero impietosamente vanificate dalla Seconda Guerra Mondiale e nel caso di specie dal nuovo regime nazionalcomunista del Maresciallo Tito, destinato a suscitare le nuove tragedie epocali delle foibe e dell’Esodo, che vide la dolorosa anabasi dei 350.000. Le responsabilità maggiori, peraltro, furono quelle degli Alleati, ed in particolare di Winston Churchill, che si fecero irretire dallo stesso Tito e dai suoi maggiorenti, quando garantirono che la nuova Jugoslavia avrebbe onorato il pluralismo, mentre sapevano benissimo che ne avrebbe fatto strame, assieme alla vita di tanti oppositori.

Il fatto che siano trascorsi novant’anni da quel 22 febbraio 1924, politicamente tanto lontano da sembrare quasi preistorico, non vuol dire che non debba essere ricordato per ciò che volle dire nella storia di Fiume ed in quella d’Italia; e che non possa essere riproposto all’attenzione comune quale esempio importante di una significativa cooperazione internazionale, idonea ad avviare un sistema di relazioni capaci di tutelare valori non negoziabili, tra cui quello di Fiume Italiana, e nello stesso tempo, un’ampia serie di interessi legittimi. Se non altro per questo, non è certo azzardato, nella permanente ottica di contemporaneità della storia, mutuarne auspici diffusi e condivisi.


Nota

1 Il testo integrale del decreto di annessione di Fiume è pubblicato, fra l’altro, in appendice all’opera di Riccardo Gigante, Fiume ed il nuovo confine: memorie e presagi, Edizioni Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), Milano 1943, pagina 192. Qui, si vuole ricordare il nobile sacrificio di questo martire dell’Olocausta, vittima del nazionalcomunismo jugoslavo, e nello stesso tempo, il suo appello conclusivo ad una «fermezza incrollabile» ed alla «fede inesausta nella Patria» che «sarà ancora una volta coronata» (ibidem, pagina 121). Non senza ricordare che, a quasi settant’anni dal suo sacrificio, un’arca del Vittoriale attende di cancellare la vergogna della fossa comune in agro di Castua, onorando il senatore Gigante dove massimamente doveroso e naturalmente giusto: al cospetto del Comandante.

(aprile 2014)

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