La Carta del Carnaro: la retrospettiva storica e la sua attualità
Impresa di Fiume e Natale di Sangue per Fiume italiana

La marcia di Ronchi e la lunga esperienza fiumana di Gabriele d’Annunzio e dei suoi Legionari si avviano a compiere un secolo di vita, ma conservano motivi di significativo interesse attuale sia sul piano storiografico sia su quello politico e giuridico. L’affermazione vale in modo particolare per la Carta del Carnaro, promulgata dal Comandante nel settembre 1920 ad un anno dalla «Santa Entrata» ed a meno di quattro mesi dal «Natale di Sangue» che avrebbe chiuso quella singolare esperienza in uno scontro fratricida ma non avrebbe potuto impedire la fine dell’esperienza autonomista e l’unione di Fiume all’Italia, compiuta nel 1924.

Un’interpretazione della Carta anche in chiave contemporanea è sempre utile e consente di formulare valutazioni di notevole interesse anche sul piano comparativo, che è giusto porre in evidenza specifica. Del resto, la Costituzione fiumana del 1920 ebbe caratteri assai avanzati per il momento storico in cui vide la luce, non poche anticipazioni di istituti contemporanei ed una struttura sociale di grande apertura verso formule, non soltanto giuridiche, largamente successive; e se si vuole, verso ipotesi che non è azzardato definire progressiste.


1 - Quadro di riferimento

Nel 1920 l’Italia uscita dalla Grande Guerra aveva gravi problemi di ardua soluzione, a cominciare da quello di inserimento dei reduci nelle strutture economico-produttive del Paese, certamente prioritario, sia sul piano civile, sia in chiave occupazionale se non anche di garanzia dell’ordine pubblico, perché bisognava assicurare il futuro ad oltre quattro milioni di uomini smilitarizzati, fra cui 150.000 ufficiali, senza dire dell’alto numero di feriti ed invalidi.

Il Governo di Francesco Saverio Nitti, travolto dalla crisi di Valona, doveva cedere il campo al quinto ministero Giolitti insediatosi in giugno, mentre i bersaglieri rifiutavano la partenza per l’Albania e si ammutinavano ad Ancona. In aprile, il decreto Falcioni aveva adottato misure restrittive per l’assegnazione delle terre cancellando parecchie promesse dell’ultimo periodo bellico ed accrescendo il malcontento del mondo contadino. Nell’industria le tensioni erano diventate esplosive, culminando in una vertenza sindacale resa più drammatica dalla serrata delle aziende meccaniche che ebbe luogo all’inizio di settembre e che si sarebbe risolta, dopo l’occupazione delle fabbriche, con un accordo ispirato da Giolitti[1] in cui si riconoscevano aumenti di rilievo e si introducevano istituti contrattualmente innovativi come l’indennità di licenziamento e la retribuzione delle ferie.

In politica estera, col trattato fra Roma e Tirana stipulato in agosto l’Italia abbandonava l’Albania fatta eccezione per l’isola di Saseno, e con quello di Rapallo del 12 novembre poneva le basi per una rapida soluzione del problema dannunziano, acquistando la sovranità sulle isole quarnerine di Cherso e Lussino, e in Dalmazia, soltanto su Zara e Lagosta (in deroga al Patto di Londra) mentre il resto veniva trasferito alla Jugoslavia e Fiume diventava città libera[2].

Il Comandante, dopo la marcia del settembre 1919 con cui aveva preso possesso di Fiume «in nome dell’Italia» si era convinto di dover attendere prima di spingere il suo gesto alle conseguenze istituzionalmente estreme: da una parte, perché le simpatie monarchiche di parecchi Legionari sconsigliavano l’evoluzione dell’esperienza adriatica in senso repubblicano, e dall’altra perché, dopo gli entusiasmi della prima ora, il mondo fiumano si andava orientando a favore di una soluzione compromissoria idonea a garantire la continuità della vita civile ed economica. Ciò, senza dire che d’Annunzio aveva confidato nel supporto di Benito Mussolini e dei suoi Fasci di Combattimento, che sarebbe rimasto una vaga promessa[3].

La Carta fu scritta nel primo trimestre del 1920 da Alceste de Ambris e riveduta dal Comandante, ma venne presentata al popolo fiumano soltanto il 30 agosto ed all’esercito legionario qualche giorno più tardi, quale «extrema ratio» per far valere il buon diritto della Reggenza, che peraltro non ebbe riconoscimenti particolarmente significativi[4] sul piano politico e nemmeno su quello diplomatico.

Nel 1956, quando la Rivoluzione Ungherese venne stroncata dai carri armati sovietici, Giovanni Sartori volle definirla «una sublime follia» che rimase tale nonostante il grido di dolore di Nagy e Maleter lanciato dai microfoni di Radio Budapest prima del crollo e del rifugio nell’Ambasciata Jugoslava (che provvide per ordine di Tito alla riconsegna dei patrioti, poi condannati a morte). Considerazioni analoghe, a parte la straordinaria durata di sedici mesi, si potrebbero fare per la Reggenza, che dopo la proclamazione della sua Carta ebbe le sorti segnate, nonostante qualche episodio di grande visibilità come la visita di Guglielmo Marconi ed il concerto che il Maestro Toscanini diresse in novembre, fra grandi manifestazioni di entusiasmo.

Fiume ospitava l’Italia del Piave e di Vittorio Veneto, come il Comandante ed i suoi collaboratori rilevarono più volte, ma i loro appelli caddero nel vuoto tanto a destra quanto a sinistra: a parte la pattuglia nazionalista, troppo limitata per poter esprimere un ruolo determinante, i fascisti considerarono l’azione dannunziana «troppo pericolosa» e preferirono «disinteressarsi del suo destino» fino al punto da anteporgli «una sorta di accordo di fatto con Giolitti», mentre la sinistra «classica» aveva sostanzialmente «respinto il fiumanesimo e le altre forze sovversive erano troppo deboli e divise tra loro per poter tentare alcunché»[5].


2 - Diritti fondamentali

La prima parte della Carta, in chiaro stile dannunziano, enuncia una premessa di forte rilevanza deontologica, richiamandosi alla delibera con cui il Consiglio Nazionale di Fiume aveva proclamato già dal 30 ottobre 1918, a guerra non ancora conclusa, la sua «dedizione piena ed intera alla madre patria». La «trista Italia» di Nitti e di Giolitti avallata dalla «prepotenza straniera» non ha accolto, tuttavia, il grido di dolore proveniente dal Carnaro e Fiume diventa una sorta di «capitale morale» dell’Italia nuova, nell’intento di estendere a tutto il Paese i suoi ordinamenti codificati nella Costituzione di settembre, e con essi il diritto di «scegliersi il suo destino ed il suo compito». In questo senso, la Carta è profondamente innovatrice se non anche rivoluzionaria: la fedeltà alla patria comune è fuori discussione ma la cesura giuridica non potrebbe essere più netta, perché con questo documento prende forma e vita uno stato alternativo, politicamente e socialmente avanzato.

Lo provano le enunciazioni dei diritti fondamentali, espresse nei primi quattordici articoli[6], dove si statuisce, anzi tutto, che il governo appartiene al popolo sovrano «senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe e di religione» e che garantisce tutte le libertà essenziali, con particolare riguardo a quelle di pensiero, stampa, riunione ed associazione. Nello stesso tempo, sono assicurati i diritti ad istruzione, educazione fisica, giusto salario, assistenza, previdenza e congruo risarcimento dei danni derivanti da errori giudiziari. Poi, si statuisce che il porto e le altre infrastrutture di base appartengono al patrimonio inalienabile del demanio e che la Banca Nazionale del Carnaro provvede, sotto la vigilanza della Reggenza, ai necessari adempimenti in tema di politica monetaria.

Particolare rilievo assume la normativa costituzionale in materia di proprietà di cui all’articolo 9, dove si afferma che tale diritto non è «il dominio assoluto della persona sopra la cosa» bensì «la più utile delle funzioni sociali». Ne consegue che il proprietario «infingardo» non può lasciare «inerte» il suo bene né tanto meno disporne «malamente»; e che soltanto il lavoro «è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale». L’apporto del sindacalismo rivoluzionario di Alceste de Ambris vi raggiunge livelli massimi di visibilità, condivisi pienamente dal Comandante che era intervenuto direttamente nella stesura del documento con parecchi apporti di suo pugno. È inutile aggiungere che si sarebbe dovuto attendere la Costituzione promulgata alla fine del 1947 per ritrovare nell’ordinamento italiano il riconoscimento della proprietà privata ed i suoi limiti connessi «allo scopo di assicurare la funzione sociale» (articolo 42): un principio fondamentale, del tutto analogo a quello statuito nella Carta di Fiume.

Il contributo dannunziano, oltre che nella premessa, assume specifica evidenza nello stesso enunciato dei fondamenti ed in modo specifico nell’articolo 14, dove si mette in chiaro che «la vita è bella e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà», in modo da «inventare la propria virtù per ogni giorno ed offrire ai suoi fratelli un nuovo dono» nel quadro di quel lavoro che è misura di tutte le cose ed «orna il mondo»[7].

Il progressismo della Carta apparve, per taluni aspetti, veramente rivoluzionario: non solo per il predetto affievolimento del diritto di proprietà in subordine all’interesse generale (sia pure nell’affermazione di quello dei «produttori» in antitesi ai proventi di rendite parassitarie), ma anche per il riconoscimento della perfetta uguaglianza femminile, anche in termini di elettorato attivo e passivo, che in Italia si sarebbe dovuto attendere fino al dopoguerra. È il caso di aggiungere che l’emancipazione giuridica delle donne diventava totale, specularmente, con il loro obbligo di partecipare alla difesa dello stato: un dovere di tutti i cittadini maggiorenni.

Il diritto all’assistenza ed alla previdenza non disgiunto da quello ad una retribuzione equa e «bastevole a ben vivere» costituiva un ulteriore salto di qualità: esistevano sin dal secolo precedente le Società di mutuo soccorso, con mezzi limitati rivenienti dall’apporto volontario dei rispettivi membri, ma l’ordinamento giuridico non aveva accolto pienamente il principio della solidarietà generale che sarebbe stato recepito più tardi con l’istituzione dell’INPS e di altri Soggetti previdenziali[8] ed a cui non sarebbe stato estraneo, assieme alle esperienze di altri Paesi, l’assunto della Carta di Fiume.

La forma istituzionale non fu oggetto di statuizioni specifiche, pur essendo implicita nell’articolato, al solo scopo di prevenire le possibili opposizioni monarchiche, di cui si è riferito: in effetti, come è stato riconosciuto dalla critica storica, la Reggenza fu una «Repubblica parlamentare decentralizzata»[9], e la sua Carta costituisce un documento che anticipava parecchie conquiste più avanzate, senza trascurare suggestive attenzioni formali di valenza extra-giuridica[10].


3 - Una Carta moderna

L’attualità della Costituzione di Fiume è ben lungi dall’essere superata, non solo perché «ribadisce il valore dell’azione suffragata dal pensiero»[11], ma nello stesso tempo, perché codifica, al di là dei diritti e doveri fondamentali, una serie di prescrizioni apparentemente minori ma di alto valore etico-politico. Basti pensare alle norme rivolte a favorire la creazione di un «Regno dello Spirito», come quella che impone allo stato di adottare i figli dei Caduti e di raccomandare alla «memoria delle generazioni» il costante omaggio alle Vittime dei fatti d’arme che hanno consentito alla Reggenza di vivere e prosperare; ovvero, di costruire un grande teatro, capace di ospitare almeno 10.000 persone, da destinare a spettacoli gratuiti per l’affinamento culturale del popolo, inteso come strumento prioritario di progresso umano e civile.

Nella Carta trovano spazio, precorrendo significativamente i tempi, vari istituti di indubbia attualità come il diritto d’iniziativa di legge popolare riconosciuto ad almeno un quarto degli elettori o come il principio di responsabilità civile e penale a carico dei pubblici ufficiali, magistrati compresi. Lo stesso dicasi per la «Corte della Ragione», chiamata a dirimere le controversie fra i poteri dello stato nell’esercizio di funzioni analoghe a quelle delle odierne Corti costituzionali; per il diritto di referendum abrogativo, ugualmente attribuito ad un quarto del corpo elettorale; e per quelli di petizione o di revocazione degli incarichi governativi (su richiesta della maggioranza assoluta di coloro che abbiano diritto al voto). Questi ultimi istituti risultano di naturale e più facile applicazione in una condizione di democrazia diretta come avrebbe potuto essere quella della Reggenza di Fiume, anche alla luce delle sue dimensioni geografiche, e restano improntati alla precisa volontà di affermare il principio della sovranità popolare.

La divisione dei poteri, base delle moderne democrazie, è oggetto di chiari disposti nelle attribuzioni di competenze legislative, esecutive e giudiziarie. Le prime sono affidate, rispettivamente, al Consiglio degli Ottimi ed a quello dei Provvisori, nonché all’Arengo che li riunisce in seduta comune a cadenze annuali: in ogni caso, con l’obbligo funzionale di dibattiti improntati a «brevità concisa» se non anche al «modo laconico», in guisa da evitare le logomachie tipiche di certe esperienze parlamentari. Del resto, la Carta riserva ampie autonomie legislative anche ai Comuni, fino al punto di concedere la libertà di stipulare fra di loro trattati ed accordi operativi, previo parere della Reggenza ed eventuale giudizio davanti alla Corte della Ragione.

L’esecutivo è affidato a sette Rettori (Esteri, Finanze ed Istruzione, eletti dall’Arengo; Interni e Difesa, eletti dagli Ottimi; Economia e Lavoro, eletti dai Provvisori), con funzioni presidenziali di «primus inter pares» riconosciute al responsabile degli Esteri. È ovvio aggiungere che tutti i cittadini sono eleggibili ai predetti incarichi «ministeriali» ma è bene precisare che si tratta di funzioni a tempo: i Rettori restano in carica per un anno, sono rieleggibili soltanto per un secondo mandato annuale e possono essere revocati con applicazione dell’apposita procedura.

Quanto al giudiziario, si articola in quattro ordini: i Buoni Uomini, eletti dal popolo, assimilabili agli attuali Giudici di Pace, che sono preposti alle gestione delle controversie civili di minor valore; i Giudici del Lavoro, nominati dalle Corporazioni, che si occupano delle cause fra «salariati e datori d’opra»; i Giudici Togati ed i Giudici del Maleficio, di competenze rispettivamente civili e penali, nominati dalla Corte della Ragione. In tutti i casi, è previsto il giudizio d’appello: le sentenze dei Buoni Uomini, da parte dei Giudici Togati; quelle del Lavoro, dalle varie Sezioni riunite in unico Collegio giudicante; le altre, dalla Corte della Ragione, cui sono comunque riservati tutti i giudizi in materia di alto tradimento, di «attentati al diritto delle genti» e di «trasgressioni commesse dai partecipi dei poteri».

Attenzioni particolari sono dedicate alla difesa, cui sono chiamati tutti i cittadini fino all’età di 55 anni, fermo restando il diritto all’assistenza statale per i militari infermi e le loro famiglie; ed alla pubblica istruzione, tanto più importante, in quanto la cultura presiede alla vita dello stato ed alla stessa predisposizione delle leggi. Suoi compiti prioritari sono la creazione «dell’uomo libero» e quindi la «lotta senza tregua contro l’usurpatore incolto», ma nella piena salvaguardia dei diritti individuali: sulle pareti delle scuole non debbono essere collocati emblemi di natura politica o religiosa, ed in ogni istituto è prevista l’operatività di un Consiglio scolastico preposto alla gestione delle questioni correnti. A livello superiore, l’istruzione universitaria viene affiancata da quella impartita nelle Scuole di Belle Arti e di Musica, quale «istituzione religiosa e sociale» di alto rilievo, tanto da prevedere l’istituzione in ogni Comune di corpi corali e strumentali opportunamente sovvenzionati dalla Reggenza[12].

Un ulteriore Organo cui la Carta conferisce ruoli funzionali importanti, non disgiunti dal perseguimento di scopi estetici, è il Collegio degli Edili, da scegliersi «fra gli uomini di gusto puro, di squisita perizia e di educazione novissima». Si tratta una sorta di Consiglio dei Lavori Pubblici preposto alla gestione ottimale del patrimonio edilizio nello «spirito delle antiche libertà comunali» che si manifesta anche «nelle linee, nei rilievi e nelle connettiture delle pietre»; ma nello stesso tempo, avente lo scopo di provvedere all’allestimento «con sobria eleganza» delle «feste civiche di terra e di mare», in cui il Comandante ravvisava uno strumento non meno significativo di comunicazione moderna e di soddisfazione popolare.


4 - Le Corporazioni

L’istituto innovatore di maggiore importanza economica codificato nella Carta è quello corporativo, ispirato anch’esso all’antica legislazione comunale, ma prima ancora all’idea di stato come «volontà del popolo verso un sempre più alto grado di materiale e spirituale vigore» (articolo 18): un obiettivo ambizioso anche nell’epoca della Reggenza, che presume una forte educazione delle coscienze, suffragata dalle norme in materia scolastica e da una concezione del lavoro rivoluzionaria, ma nello stesso tempo idealistica: soltanto chi produce la «ricchezza comune» può aspirare al ruolo di «compiuto cittadino della Repubblica» a prescindere dalla specie del lavoro fornito, sia esso «di mano o d’ingegno». In ogni caso, chi esercita un’attività deve essere iscritto ad una delle dieci Corporazioni che «svolgono liberamente la loro energia e liberamente determinano gli obblighi mutui e le mutue provvidenze».

Nelle Corporazioni, soggetti dotati di personalità giuridica riconosciuta dallo stato (articolo 20), si realizza la massima esperienza di democrazia diretta: ciascuna di esse ha capacità normativa nelle materie di propria competenza, anche in campo patrimoniale. La Corporazione promuove l’avanzamento tecnico e la tutela del lavoro; favorisce la formazione professionale ed il mutuo soccorso; determina provvidenze settoriali, organizza cerimonie, celebra i propri eroi. Il tutto, in un quadro di autonomia assai ampia, che si spinge sino alla facoltà di imposizione fiscale secondo criteri proporzionali.

Le Corporazioni professionali assommano a nove (operai ed artigiani; impiegati delle aziende industriali ed agricole; addetti al commercio; datori di lavoro; pubblici dipendenti; insegnanti, studenti ed artisti, ivi compresi architetti e musicanti; liberi professionisti; amministratori di cooperative; gente di mare). I rapporti fra le singole Corporazioni, al pari di quelli coi Comuni e con la stessa Reggenza, sono governati nella salvaguardia delle autonomie, ferma restando la facoltà d’intervento del potere centrale, ed in particolare della Corte della Ragione in caso di controversie (non è azzardato presumere, alla luce della naturale divergenza fra rispettivi interessi, che ciò sarebbe stato funzionalmente possibile, con particolare riguardo ai rapporti fra la Corporazione degli operai e quella dei datori di lavoro).

Esiste anche una decima Corporazione «riservata alle forze misteriose del popolo in travaglio ed in ascendimento». Essa è «consacrata al genio ignoto, all’apparizione dell’uomo novissimo, alle trasfigurazioni ideali delle opere e dei giorni, alla compiuta liberazione dello spirito sopra l’ansito pensoso ed il sudore di sangue» e persegue «una forma spiritualizzata del lavoro umano»: quello della «fatica senza fatica»[13].

La Carta del Carnaro non ebbe la possibilità di concretizzare l’opera delle varie istituzioni ed a più forte ragione, delle Corporazioni, fatta eccezione per quella del Comandante: tra la promulgazione di settembre ed il Natale di Sangue intercorsero poco più di cento giorni, improntati a condizioni di ovvia e totale emergenza. A più forte ragione, l’assunto vale per il momento corporativo, che avrebbe avuto bisogno di adeguati tempi organizzativi e di un’elaborazione sistematica da parte delle categorie interessate: tra l’altro, come aveva rilevato lo stesso de Ambris, si sarebbe dovuto effettuare un censimento propedeutico per stabilire con ragionevole precisione le appartenenze all’una od all’altra Corporazione. Tuttavia, il modello operativo, funzionalmente autonomistico, sarebbe diventato un paradigma di riferimento per esperienze successive.

Il principio corporativo si completa e si definisce con quello della cittadinanza, che compete a tutti gli abitanti della Reggenza ma anche a quelli «appartenenti ad altre comunità che chiedano di far parte del nuovo stato» e vi siano accolti, ed a coloro che «per pubblico decreto del popolo» abbiano ottenuto questo privilegio. A ciascuno di essi competono l’obbligo di iscriversi ad una Corporazione e naturalmente, quello di provvedere alla difesa dello stato[14]. Va aggiunto che la cittadinanza viene cancellata «ipso jure» nei casi di «condanna in pena d’infamia», renitenza alla leva, morosità nel pagamento delle tasse e «parassitismo incorreggibile a carico della comunità» (salvo il caso di incapacità per malattia o per vecchiaia).


5 - Il Comandante

La ragione di stato, secondo la classica definizione di Giovanni Botero, è un «eccesso del giure comune per fine di pubblica utilità»: nella Carta del Carnaro si manifesta attraverso l’istituto del Comandante, che può essere «nominato a viva voce» e con decisione inappellabile dal Consiglio Nazionale «solennemente adunato nell’Arengo», quando «la Reggenza venga in pericolo estremo e veda la sua salute nella devota volontà d’un solo, che sappia raccogliere, eccitare e condurre tutte le forze del popolo alla lotta ed alla vittoria» (articolo 43), assommando «tutti i poteri politici e militari, legislativi ed esecutivi».

La figura del Comandante si ispira dichiaratamente al dittatore della Repubblica romana non dimenticando che il suo incarico «durava sei mesi». Tuttavia, nel caso della Reggenza il Consiglio ha facoltà di designarlo per un tempo più lungo, fermo restando che ogni cittadino in possesso dei diritti politici può essere preposto a tale suprema magistratura e che costui può essere sostituito, deposto e persino bandito dal territorio dello stato (articolo 45). Chiaramente, si tratta di una normativa di stile, perché calibrata perfettamente sulla figura di Gabriele d’Annunzio e sul ruolo che il «poeta armato» aveva esercitato, non soltanto nella storia di Fiume, dalla marcia di Ronchi in poi. Del resto, nessuno avrebbe potuto negare l’applicabilità di un istituto d’emergenza suprema come quello del Comandante in una congiuntura obiettivamente straordinaria che vedeva la città liburnica «assediata dalla madre patria»[15].

La Carta del Carnaro non avrebbe avuto senso compiuto senza il Comandante elevato ad istituzione: non tanto per il suo carisma personale, ben dimostrato quando fu capace di offrire il petto alla fucileria del Generale Pittaluga prima della barra di Cantrida e della «Santa Entrata» (lo aveva già fatto, con uguale successo, Napoleone Bonaparte al ritorno dall’Elba durante la trionfale marcia su Parigi che avrebbe dato inizio ai Cento Giorni), quanto perché le condizioni del momento richiedevano la convergenza del nobile sentire e del forte agire, che in d’Annunzio raggiungeva alti vertici di patriottismo, ma nello stesso tempo, dell’arte di comunicare. Del resto, era l’epoca del superuomo di Nietzsche e dell’idea di una storia come opera di «élites» politiche, resa più credibile dalle concezioni di Enrico Corradini e di Georges Sorel, e prima ancora, dalle gesta che il Comandante aveva compiuto con la beffa di Buccari o con il volo su Vienna osando l’inosabile: gesta di cui la marcia di Ronchi aveva costituito, in tutta evidenza, una logica prosecuzione.

È naturale affermare che qualora d’Annunzio non avesse raccolto il grido di dolore che gli era pervenuto da Host Venturi e dagli altri patrioti dell’Olocausta «l’impresa fiumana sarebbe rimasta nel mondo delle idee» al pari delle altre gesta di cui si è detto: spesso con manifestazioni di un’antica cavalleria nei confronti degli avversari, mentre veniva liquidato con parole di fuoco, destinate a conquistare i fedeli e le folle, l’atteggiamento rinunciatario di Roma che fu espresso dapprima da Francesco Saverio Nitti e poi da Giovanni Giolitti, quando quest’ultimo volle dare esecuzione forzosa al trattato di Rapallo. Ciò, dando luogo ad un epilogo tragicamente amaro ma sostanzialmente prevedibile, tanto più che l’intransigenza del Comandante rimase pervicace fino all’ultimo, salvo cedere le armi per evitare ulteriori spargimenti di sangue[16] ed accogliere gli auspici degli stessi Fiumani, molti dei quali sembravano disposti ad accettare il compromesso di una soluzione autonomista che evitava, quanto meno, la fagocitazione della città nell’ambito della Jugoslavia e l’azzeramento di qualsiasi speranza in altri sviluppi futuri.

L’inserimento del Comandante fra gli istituti della Carta costituisce un «quid novi» nella storia delle costituzioni. Le emergenze sono un fenomeno ricorrente, ma di norma vengono gestite con leggi eccezionali e talvolta, con bandi militari: in questo senso, l’esempio fiumano, evidentemente condiviso dai massimi collaboratori di d’Annunzio ed in primo luogo dallo stesso de Ambris, è privo di corrispettivi specifici nell’evo moderno e non è alieno dal richiamarsi alle predette memorie romane, come quella classica di Cincinnato che dopo la nomina a dittatore sconfisse il nemico in due settimane per restituire subito le insegne del potere e ritornare all’agricoltura: in effetti, all’epoca della Reggenza erano passati ventiquattro secoli e le condizioni erano completamente diverse da quelle dell’antica Repubblica perché Fiume doveva confrontarsi con un potere centrale dichiaratamente ostile e con la latitanza di qualsiasi solidarietà internazionale politicamente rilevante.

Nei quattro mesi di vigenza dello Stato Fiumano, quello del Comandante fu il solo istituto della Carta che, per dirla con Machiavelli, ebbe modo di tradursi in una specifica «realtà effettuale», ma d’Annunzio aveva le armi spuntate e poteva soltanto confidare in supporti esterni che non ebbero riscontro: basti dire che dopo la promulgazione di quello che formalmente fu l’atto costitutivo dello «Stato libero di Fiume» i rapporti epistolari con lo stesso Mussolini si ridussero a qualche scambio di convenevoli, senza alcun accenno al fatto nuovo ed alla necessità di uscire da una condizione di stallo destinata all’inevitabile catarsi.

A quel punto, il Comandante poteva aspirare ad un successo etico, non privo di suggestioni hegeliane, che sarebbe rimasto nella storia di Fiume, ma quello politico doveva necessariamente arridere alla «realpolitik» ed ai suoi vecchi e nuovi vessilliferi. Ancora una volta, la ragione di stato si sarebbe affermata in ossequio alla forza del diritto positivo suffragata dalle armi; nondimeno, ogni legittima attesa dell’Olocausta sarebbe stata rinviata, perché condivisa sul piano morale e spirituale[17] da un’ampia maggioranza.


6 - Un’eredità complessa

Andando a Fiume con un’impresa degna degli eroi antichi ma tanto più significativa in quanto corroborata dalla costituzione di uno stato sorto dal nulla senz’altro apporto che quello idealistico dei «giurati di Ronchi» e di un popolo in ansiosa attesa dei suoi destini, il Comandante non aveva perseguito «alcun obiettivo personale o contingente» se non quello di una viva ambizione patriottica che si traduceva nella volontà di restituire all’Italia una Vittoria di giusta dimensione. In questo senso, Gabriele d’Annunzio ed i suoi «compagni di ventura» si posero in una dimensione etica e politica davvero antitetica a quelle che governano il mondo attuale, dove imperano sovrani il relativismo, il consumismo ed il materialismo: non già quello dialettico di Marx, ma quello pragmatico e contingente di una corruzione elevata a sistema.

Non è questo un motivo in più, sulle orme di Benedetto Croce e di Friedrich Meinecke, per riconoscere al «poeta armato» una viva e suggestiva «contemporaneità» e per conferire al d’Annunzio soldato, ancor prima che Comandante, il valore di un esempio che resta per molti aspetti prescrittivo? Quella che egli volle proporre all’Italia, ma si potrebbe dire al mondo intero, in retrospettiva deve definirsi una nobile utopia, più idealistica che velleitaria, al di là del comportamento non sempre irreprensibile di alcuni suoi uomini; ma tutti sanno che in politica, arte del possibile, non esiste alcunché di definitivo. Lo attestano, per citare alcuni episodi relativamente recenti ma quanto mai significativi, il crollo del Muro di Berlino, il disfacimento dell’Unione Sovietica e la disgregazione della Jugoslavia.

Il conflitto di Fiume, in cui si contrapposero le forze «regolari» e quelle legionarie, fu una pagina dolorosa della storia d’Italia che d’altra parte non costituiva affatto una novità: basti pensare alle dispute secolari indotte dalle incessanti divisioni, rimaste insolute – almeno in parte – nonostante l’esperienza risorgimentale. Dalla proclamazione dell’Unità, tuttavia, era la prima volta che l’esercito italiano prendeva le armi contro altri connazionali (i cannoni di Bava Beccaris erano stati impiegati molto più semplicemente in una dura e retriva azione di polizia): non fu un episodio di guerra civile perché circoscritto alle forze militari, ma pose in evidenza fratture che ebbero effetti importanti. Non a caso, un protagonista del Natale di Sangue come il Generale Enrico Caviglia avrebbe scritto parecchi anni più tardi, senza mezzi termini, che «la rivoluzione fascista prese la spinta dalla questione di Fiume».

In una sola settimana di scontri, il numero dei caduti fu relativamente elevato, quasi a sottolineare il carattere irreversibile delle decisioni assunte da Roma e da Fiume, ma il carattere fratricida del confronto assunse, alla fine, un ruolo deterrente. La scelta di resistere ad oltranza sarebbe stata, oltre che impolitica, una causa di grandi tragedie per la popolazione civile e fu accantonata all’unanimità, previa rinunzia del Comandante ai poteri che gli erano stati conferiti dai cittadini. Del resto, nonostante gli accorati appelli alla madre patria, gli Italiani, posti davanti al decisionismo di Giolitti, non si mossero affatto e preferirono attendere gli eventi, con la sola eccezione del tentativo insurrezionale che ebbe inizio a Trieste al mattino di Natale e si concluse l’indomani sera con l’arresto di Francesco Giunta e dei suoi «camerati».

Il 31 dicembre la Reggenza avrebbe chiuso la sua breve esistenza. Accettando il trattato di Rapallo con cui Italia e Jugoslavia avevano deciso di mettere un punto definitivo sulla questione dei confini e di risolvere il problema di Fiume con la creazione di uno stato autonomo, Gabriele d’Annunzio volle dimostrare di anteporre l’interesse generale ad ogni possibile suggestione di parte, comprensibile ma ormai indifendibile: cosa che avrebbe confermato subito dopo, col celebre discorso del 2 gennaio pronunziato nel cimitero di Cosala davanti ai caduti di entrambe le parti ed a tutta la cittadinanza[18].

Il valore della riconciliazione proposto nella circostanza deve essere opportunamente sottolineato: davanti all’ineluttabilità della morte non ci possono essere «odio e dispregio» ma soltanto l’obbligo di impegnarsi «per una lotta più vasta e per una pace di uomini liberi». Ecco un appello che costituisce un momento etico ancor prima che politico ma che non sempre ha trovato ascolto, in specie nella storia italiana ed europea degli anni successivi. Ciò, sebbene la «pietas» nei confronti di tutti i caduti ricorra con esempi di alto significato in tempi e luoghi assai diversi: si pensi alla tregua per gli onori funebri senza distinzione di schieramenti, cantata più volte da Omero, od alla realizzazione del Sacrario di Valle de los Caidos, compiuta in Spagna alla fine di una lunga guerra civile come quella del secolo scorso, caratterizzata da un forte impatto emotivo e dalla necessità di superare le forti pregiudiziali ideologiche in una catarsi possibilmente conciliatrice.

Un altro fattore di perenne attualità, legato alla figura del Comandante nell’ambito di un’eredità complessa che trascende la sfera culturale e la stessa esperienza giuridica trasferita nella Costituzione di Fiume, è il principio secondo cui il pensiero ha valore tanto più significativo, in quanto venga seguito dall’azione.

Le parole, per quanto belle ed esaltanti, come possono essere gli scritti e le orazioni di un grande uomo di lettere, non risolvono i problemi; al massimo, contribuiscono a porli in modo più coinvolgente ma debbono trovare compiuta realizzazione nella realtà, a prescindere dalle possibilità effettive di conseguire pienamente gli obiettivi prefissi. In questo senso, nell’esperienza fiumana è possibile cogliere un implicito spunto mazziniano, assieme all’assunto idealistico di promuovere la sintesi di teoria e prassi, o se si preferisce, di etica e politica (in contesti di pari dignità vincolati al ruolo essenziale dello stato, ma nello stesso tempo, al valore insopprimibile della persona).

Quando si ha la convinzione di essere dalla parte del vero e del giusto, come nel caso fiumano di Gabriele d’Annunzio, che credeva nella logica dell’ardimento e nella forza trascinatrice della fede, non si deve aver paura di osare: nella peggiore delle ipotesi «non si potrà dire di avere scelto la filosofia dell’attendismo e del disimpegno» che costituisce sempre una fuga dalla responsabilità e che proprio per questo non esprime una garanzia di congruità e di validità politica a priori.

A quasi un secolo dalla Reggenza italiana di Fiume e dal Natale di Sangue, queste esperienze irripetibili conservano un valore storico che non è privo di significati e valori attuali. La Carta del Carnaro, infatti, è improntata a contenuti di sostanziale modernità su cui esiste un’ampia convergenza di interpretazioni. Dal canto suo, il decisionismo dannunziano esprime il fascino, tanto più vivo perché agli antipodi di tante odierne logomachie, di un’opzione politica fondata sulla discriminante volontaristica ma nello stesso tempo sulla chiarezza e sulla trasparenza, e ben sintetizzata nel motto «ardisco non ordisco».

L’attuale congiuntura molto «spettacolare» è legata al ruolo subalterno del cosiddetto «homo videns» teorizzato da un politologo come Giovanni Sartori e da un filosofo come Stefano Zecchi (un uomo non più protagonista ma «oggetto» di storia) e proprio per questo, priva di un reale impegno nel perseguimento di valori autentici. Nondimeno, il suo superamento può lasciare spazio ad una «vita bella» e degna di essere vissuta come quella codificata nella Carta del Carnaro e perseguita dal Governo della Reggenza, nella misura in cui si sappia ripudiare la tecnica del rinvio e si vogliano compiere scelte capaci di trascendere le suggestioni del nuovo materialismo empirico. In tutta sintesi, si tratta di guardare all’universale e di compiere una scelta di autentica civiltà e di vera giustizia.


Note

1 L’accordo, firmato in settembre dalla CGL e da una giovane Confindustria (la massima Organizzazione imprenditoriale era stata costituita in marzo), interessava mezzo milione di lavoratori metalmeccanici e venne ratificato tramite referendum con una maggioranza di circa tre quarti, ma con una partecipazione largamente minoritaria: la piattaforma rivendicativa presentata in maggio da Bruno Buozzi veniva accolta in buona misura, anche se gli aumenti salariali erano dimezzati rispetto al 40% richiesto dal sindacato. Nel frattempo, la circolare Caleffi, d’ispirazione militare, affermava che i Fasci di Combattimento sorti durante l’anno precedente (23 marzo 1919) costituivano una «forza viva» da utilizzare contro i sovversivi.

2 Il trattato di Rapallo venne ratificato dalla Camera ad appena quindici giorni dalla firma, con 212 voti favorevoli, 15 contrari e 40 astenuti: a nulla valse il rocambolesco raid di Guido Keller, uno dei maggiori luogotenenti del Comandante, che volò da Fiume a Roma con un piccolo monomotore per sganciare su Montecitorio, in segno di protesta, il pitale più famoso della storia. In dicembre, prima del Natale di Sangue, sarebbe sopraggiunta anche la ratifica del Senato.

3 Nel febbraio 1920 Mussolini non esitò a parlare di «complotto» ordito dal Comandante e da Alceste de Ambris per una soluzione sindacalizzata della questione fiumana, e nel maggio successivo il secondo Congresso dei Fasci di Combattimento avrebbe preso le distanze dall’impostazione radicale dell’anno precedente, ripudiando le simpatie socialiste e schierandosi decisamente in favore dell’ordine. In effetti, Mussolini temeva la concorrenza dannunziana e capiva che i tempi non erano ancora maturi per la conquista del potere, che avrebbe programmato con successo due anni più tardi: è significativo che nel periodo intercorso fra la promulgazione della Carta del Carnaro ed il Natale di Sangue l’epistolario tra il futuro Duce e d’Annunzio si sia ridotto a qualche espressione di circostanza, senza accenni di sorta alla nuova costituzione della Reggenza.

4 Si è ipotizzato, tra gli altri, un rapporto preferenziale fra la Reggenza e la nuova Russia Sovietica, ma non risulta che sia andato oltre le buone relazioni personali fra il Comandante ed il Commissario agli Affari Esteri di Mosca, Georgj Cicerin, più volte ospite al Vittoriale tra il maggio 1921 ed il giugno 1922, dichiaratosi «profondamente interessato al carattere operaio di certe disposizioni della Carta del Carnaro»; lo stesso dicasi per Miklos Sisa, ex Commissario del Popolo nel Governo di Bela Kun, che ebbe parole di simpatia per la Reggenza. Sul piano politico-militare, se è vero che al movimento dannunziano aderirono circa 2.500 uomini, oltre alla Legione fiumana, è anche vero che le sorti dell’impresa di Ronchi furono condivise da due soli Generali (Sante Ceccherini e Corrado Tamaio) e da otto fra colonnelli e tenenti colonnelli (l’elenco completo dei Legionari è in G. Barbieri, L’Album dell’Olocausta, Milano 1932, pagine 511-569).

5 Il giudizio, che riporta quello sul movimento nazionalista espresso nel 1938 da Alfredo Rocco, appartiene a Renzo De Felice ed è riportato nella magistrale introduzione a G. d’Annunzio, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano 1974, pagina LXVIII. A sinistra, un giudizio più articolato fu quello di Antonio Gramsci, che vide nell’esperienza fiumana, al di là delle tante manifestazioni oltranziste dell’esercito legionario, le pur contraddittorie avvisaglie di un «nuovo ordine» (confronta C. Salaris, Alla festa della Rivoluzione, Il Mulino, Bologna 2002). Se non altro per questo, appare piuttosto opinabile il categorico giudizio di Sergio Romano sulla vicenda di Fiume, definita addirittura «demente» nel suo tentativo di creare «una signoria rinascimentale truccata da repubblica sovietica» (confronta Storia d’Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, Editori Associati, Milano 2010, pagina 221). Per un recente inquadramento critico dell’Impresa di Fiume vista «come perfetto esempio dei legami tra nazionalismo e irredentismo» in termini sintetici ma più oggettivi, confronta Gilles Pécout, Il lungo Risorgimento (1770-1922), Bruno Mondadori Editore, Milano 2011, pagina 414.

6 La Carta del Carnaro è composta da un preambolo dedicato alla «perfetta volontà popolare» e da 65 articoli suddivisi in 12 sezioni, scritti in modo talvolta «misticheggiante» ma generalmente «razionale»: si tratta di un documento «splendido» e di una «genuina espressione non solo delle esigenze del mondo moderno a livello istituzionale, ma anche dei suoi bisogni e dei suoi sentimenti» (M. A. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Bari 1975, pagina 228). In questo senso, il forte «carattere liberale» non contraddice qualche reminiscenza del giovane Marx, ponendo le basi di «una società nella quale la creatività dell’uomo si sarebbe potuta esplicare» come raramente accade (M. A. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, Laterza, Bari 1975, pagina 229).

7 Il carattere giusnaturalistico di talune affermazioni contenute nella Carta assume rilevanza maggiore negli articoli dovuti alla fervida immaginazione del Comandante: d’altro canto, era già passato un secolo e mezzo da quando la Costituzione degli Stati Uniti aveva codificato il comune diritto alla felicità. Sta di fatto che, non appena i contenuti della Carta furono conosciuti a Roma, le critiche si sprecarono, non senza taluni commenti salaci: lo stesso Nitti «diede in una risata» definendo il documento «stupidissimo e degno d’una riunione di mattoidi» (A. Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, Mondadori, Milano 1987, pagina 239). Nella stessa Fiume non mancarono dubbi e perplessità, espressi in forma più civile e problematica perché i cittadini, a parte una «minoranza di entusiasti», volevano certamente l’annessione all’Italia, ma non gradivano forti «rivolgimenti istituzionali» (A. Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, Mondadori, Milano 1987, pagina 239).

8 L’istituzione dell’INPS, che sostituiva la vecchia CNAS sorta nel 1898 su base volontaria aggiornata nel primo dopoguerra, ebbe luogo nel 1933 e soltanto sei anni dopo la sua competenza previdenziale venne estesa in chiave più moderna con l’introduzione di assegni familiari, pensioni di reversibilità al coniuge superstite, assicurazioni contro la disoccupazione e la tubercolosi, integrazioni salariali nelle fattispecie di crisi. Largamente successivo alla Carta del Carnaro fu, altresì, l’avvento di altri Soggetti previdenziali come l’ONMI, costituita alla fine del 1925 per «integrare le forme di assistenza alle madri bisognose ed all’infanzia abbandonata» (A. Cherchi, Storia d’Italia, De Agostini, Novara 1991, pagina 406).

9 M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, opera citata, pagina 223. A parte il contributo fondamentale di Alceste de Ambris e del Comandante, nella Carta del Carnaro sono reperibili diverse influenze altrui, a cominciare da quella di Guido Keller che diversamente da altri esponenti legionari non nutriva soverchie simpatie per la Corona (M. Ledeen, D’Annunzio a Fiume, opera citata, pagina 196).

10 Lo stesso d’Annunzio, in un colloquio con Giuseppe Piffer che aveva curato la stampa della Carta col titolo di Reggenza italiana del Carnaro ed il sottotitolo non meno significativo di «Ordinamento dello Stato libero di Fiume», fece notare all’interlocutore come detto titolo, in realtà, fosse un endecasillabo (A. Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, opera citata, pagina 235) ed assumesse, proprio per questo, doti di musicalità e di scorrevolezza che sembrano anticipare alcuni canoni della comunicazione contemporanea. Del resto, attenzioni particolari furono dedicate anche alla scelta della bandiera, dei suoi colori e del suo motto («Quis contra nos?»).

11 C. Montani, Irredentismo e fiumanesimo a 40 anni dal diktat, Edizione Amici del Vittoriale, Milano 1987, pagina 9. In una congiuntura politica ed economica caratterizzata da uno «strisciante materialismo consumistico» il fondamento dell’esperienza dannunziana di Fiume, compresa quella codificata nella Carta, corrisponde ad esigenze assai diffuse anche nel nostro tempo, che postulano nuove e più avanzate convergenze di «politica e morale» nel perseguimento di «valori universali», ivi compreso «l’affrancamento dei popoli slavi da condizioni di bisogno». Questo concetto, in effetti, non fu estraneo agli auspici della Reggenza del Carnaro: da una parte, nella consapevolezza che alcuni Comuni dello Stato libero avrebbero avuto maggioranza necessariamente croata, e dall’altra parte, nel riconoscimento dell’obbligatorietà di insegnamenti elementari e medi in lingue diverse, ben s’intende senza escludere l’italiano che avrebbe dovuto essere «privilegiato» a livello universitario.

12 La musica, diversamente da altre arti, parla un linguaggio universale, che può essere compreso da chiunque a prescindere dalla latitudine e dalla longitudine. È un fattore ben presente nella sensibilità estetica dannunziana, sempre pronta a cogliere spunti aggiornati e funzionali di comunicazione, ma nello stesso tempo di gestione dell’arte, per dirla con Sadoul, in un’ottica modernamente sociale.

13 La decima Corporazione, nella cui individuazione, oltre a quella dannunziana, si è ravvisata un’influenza specifica di Guido Keller, non ha «novero né vocabolo», ma proprio per questo sembra attagliarsi, pur nell’estrema sintesi del riferimento statutario, al carattere di alcuni Legionari, che non avrebbero potuto trovare collocazione in alcuna delle altre nove (giova rammentare che, a qualche anno dalla fine della Reggenza, il Generale Sante Ceccherini, presente a Fiume con d’Annunzio, in un rapporto a Mussolini avrebbe posto in evidenza che una quota non proprio marginale dell’esercito legionario era stata sostanzialmente ingovernabile). In effetti, per i suoi caratteri indefiniti ma altamente prescrittivi, al decimo soggetto corporativo è stato attribuito il rango di «primus inter pares»: nella fattispecie, non c’è dubbio che siano stati raggiunti i vertici dell’immaginazione letteraria (A. Spinosa, D’Annunzio: il poeta armato, opera citata, pagina 239) ma anche quelli di un’utopia quasi surreale, che in ultima analisi non ha giovato alla concezione corporativa dei costituenti fiumani, considerata nel suo complesso.

14 L’articolo 16 della Carta evidenzia che «i cittadini della Reggenza sono investiti di tutti i diritti civili e politici nel punto in cui compiono il ventesimo anno di età» (in Italia, ferma restando l’esclusione del voto femminile, ne occorrevano ventuno), ma contraddice quanto statuito nel successivo articolo 47, laddove si prevede l’obbligo «al servizio militare per la difesa della terra» a carico di tutti i cittadini «d’ambedue i sessi, dall’età di 17 anni all’età di 55». In effetti, il combinato disposto dei due articoli sembra stabilire, per i giovani della fascia compresa fra 17 e 20 anni, un obbligo militare cui non corrisponde un pari godimento dei diritti.

15 C. Montani, Irredentismo e fiumanesimo a 40 anni dal diktat, opera citata, pagina 10. L’istituto del Comandante costituisce una deviazione di massimo rilievo nei confronti del «carattere liberale» della Carta sostenuto da Ledeen, anche se motivata dalla vigenza di condizioni eccezionali. D’altra parte, è anche alla luce di questa straordinarietà che la Costituzione di Fiume fu qualcosa «di più e di meglio» che non un semplice programma (il giudizio, espresso da Armando Caciagli nel febbraio 1921 a vicenda appena conclusa, è riportato in F. Perfetti, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Bonacci, Roma 1988, pagina 33). In termini storiografici più maturi, è stato parimenti rilevato come Fiume fosse diventata «il crogiuolo nel quale incominciò a verificarsi la fusione tra la base sociale dell’interventismo rivoluzionario ed il nazionalismo» (E. Ragionieri, Storia d’Italia, volume 11, Einaudi – Il Sole 24 Ore, Milano 2005, pagina 2.091), matrice non ultima dell’ascesa di Mussolini.

16 Il Natale di Sangue, al termine di un conflitto armato che vide il bombardamento della stessa Reggenza e che si sarebbe protratto per alcuni giorni, ebbe 53 vittime, equamente suddivise tra i due campi, sette delle quali (compresa una bambina) appartenenti al mondo civile. Per maggiori dettagli, anche circa i feriti delle due parti, che sarebbero stati 146 tra i cosiddetti «regolari» e 61 tra i Fiumani, e per una valutazione indicativa dei danni, confronta E. Caviglia, Il conflitto di Fiume, Garzanti, Milano 1948, pagine 280-282. Cifre lievemente diverse vengono fornite nella dettagliata testimonianza di F. Gerra, L’Impresa di Fiume, Longanesi, Milano 1966, pagina 645, mentre risulta più alta la stima proposta da A. Ballarini, L’Olocausta sconosciuta: vita e morte di una città italiana, Edizioni Occidentale, Roma 1986, pagina 57.

17 Nell’ultimo saluto del 18 gennaio 1921, giorno della partenza del Comandante, il Presidente Antonio Grossich, abbracciando Gabriele d’Annunzio a nome di tutta la cittadinanza, gli avrebbe riconosciuto di essere stato il vero vincitore dell’impari conflitto dopo «cinque giorni di aspri combattimenti» e di avere accondisceso a sciogliere l’esercito legionario solo «per salvare Fiume dalla distruzione». Per ulteriori dettagli, confronta E. Moccia, Compendio di annotazioni dannunziane, Stamperia Artistica Nazionale, Torino 1985 (tra l’altro vi sono menzionate le 15 «ricompense italiane al valor militare conferite a Gabriele d’Annunzio», tra cui una Medaglia d’Oro e tre Medaglie d’Argento).

18 Si tratta del famoso «Alalà funebre» che accomunava nell’abbraccio della riconciliazione i caduti dell’una e dell’altra parte, tutti figli della stessa Italia. Nel frattempo, i Legionari, con le guarentigie del caso, avrebbero preso la via del ritorno. Dal canto suo, d’Annunzio lasciò Fiume alcuni giorni più tardi per ritirarsi nell’eremo del Vittoriale, dove sarebbe rimasto fino alla morte, sopraggiunta il 1° marzo 1938, ma la frattura, come avrebbero dimostrato le ulteriori vicende storiche, non era stata efficacemente ricomposta. Quanto a Fiume, l’unione all’Italia era solo rimandata: dopo la breve esperienza del Governo autonomista, il «colpo di stato» di Francesco Giunta ed i pieni poteri al Generale Giardino, si sarebbe finalmente compiuta col trattato di Nettuno del gennaio 1924.

(settembre 2017)

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