Carlo Del Prete
Esempio di Italianità senza macchia e senza sconfitta
Onore ad un Ufficiale della Grande Guerra e Medaglia d’Oro dell’Arma Azzurra

Nella storia d’Italia esistono protagonisti che hanno lasciato un segno tangibile del proprio valore, ed un esempio prescrittivo che sarebbe necessario diffondere, soprattutto in una stagione come quella attuale, in cui la crisi dei valori non negoziabili sembra avere assunto caratteri apparentemente irreversibili.

Fra le tante gesta da onorare e da mandare a futura memoria si annoverano quelle di Carlo Del Prete (Lucca 1897-Rio de Janeiro 1928) – Medaglia d’Oro al Valore Aeronautico, e prima ancora, grande patriota ed uomo di sicura fede nei destini della Patria. Non a caso, il suo nome vive nella toponomastica di tante città italiane che ne hanno voluto perpetuare il ricordo: fra di esse, sei capoluoghi (Firenze, Latina, Lucca, Palermo, Torino e Vercelli: in quest’ultima, con intitolazione del locale aeroporto).

Avviato agli studi classici da una famiglia di forte impegno civile che avrebbe espresso due sindaci della città natale, e poi all’Accademia Militare di Livorno, nel 1912 era ancora allievo, quando conobbe il battesimo del fuoco nella Guerra di Libia contro l’Impero Ottomano voluta dal Governo Giolitti, non insensibile ad attese coloniali assai frequenti nell’epoca, se non altro per cancellare l’infausta esperienza di Adua. Poco dopo, nella Grande Guerra contro l’Austria-Ungheria fu impegnato in alto Adriatico: nel 1916 venne imbarcato come Guardiamarina sul Giulio Cesare e poi sull’esploratore Aquila e nell’aprile dell’anno successivo, nominato sottotenente di vascello, scelse volontariamente di arruolarsi nella flottiglia dei sommergibili presso la base di Ancona, mentre al dicembre 1917 risale la prima esperienza aerea a bordo di un idrovolante.

Nel novembre 1918, proprio all’indomani della Vittoria, fu promosso tenente di vascello ed imbarcato sul Regina Elena che si distinse in Asia Minore, non senza rischi, negli sbarchi in zone di Smirne e di Adalia, conformi ai diritti che erano stati riconosciuti all’Italia dal Patto di Londra dell’aprile 1915, ma che poi vennero disattesi in sede di trattative di pace. La missione che gli diede maggiore lustro nell’ambito delle imprese di Marina, ad ogni buon conto, era stata l’Impresa di Buccari (febbraio 1918), dove era stato comandante in seconda di un F.14 che aveva scortato Gabriele d’Annunzio ed i suoi «trenta d’una sorte» in guisa da legare indissolubilmente il proprio nome alla celebre Beffa, tanto più apprezzata in quanto compiuta ai danni della flotta imperiale che coltivava la «gloriuzza» di Lissa nel sicuro riparo dei suoi porti.

È congruo sottolineare come le esperienze di Carlo Del Prete nella Marina Militare Italiana, in parte ragguardevole volontarie, vennero a maturazione in giovanissima età: in Libia, appena quindicenne, mentre all’epoca di Buccari aveva compiuto da poco i vent’anni; cosa tanto più degna di nota, quando si pensi che la maggiore età, e gli stessi diritti conseguenti, allora si conseguivano a ventuno. Evidentemente, il richiamo della Patria prescinde da questi dettagli quando si rivolge ad uomini capaci di coniugare al meglio il nobile sentire con il forte agire.

Nel 1922, Carlo conseguì il brevetto di pilota presso la Scuola Aerea di Taranto, con una scelta a favore dell’Arma Azzurra che gli avrebbe dato gloria imperitura, non disgiunta da un destino crudele. Infatti, una volta conseguita a pieni voti – durante l’anno successivo – la laurea in Ingegneria meccanica ed elettrotecnica presso il Politecnico di Milano, l’Aeronautica divenne il suo impegno di vita da cui, come avrebbe detto Ugo Foscolo, ebbe «fama e riposo». Le trasvolate intercontinentali compiute da Carlo Del Prete fanno parte degli annali d’Italia: furono suoi il primato mondiale di durata in circuito chiuso (7.666 chilometri in 58 ore e 37 minuti) e quello di distanza, conseguito sulla tratta italo-brasiliana Montecelio-Natal (con un percorso di 7.163 chilometri in 49 ore e 19 minuti).

L’impresa di più ampio impatto nell’immaginario collettivo (dopo il volo Roma-Tokio compiuto già nel 1920 da Arturo Ferrarin in circa 109 ore al netto delle soste) fu il grande raid Italia-Australia-Italia compiuto da Carlo Del Prete nel 1927 assieme a Francesco De Pinedo, coprendo una distanza complessiva di 43.820 chilometri in 279 ore e 40 minuti di volo effettivo: un vero e proprio trionfo, paragonabile soltanto a quello tributato ad Italo Balbo qualche anno più tardi, in occasione del volo in squadriglia da Orbetello agli Stati Uniti. Durante il raid, compiti prevalenti di Del Prete, di straordinaria importanza in condizioni di oggettive carenze strumentali, furono la ricognizione astronomica, il controllo dei consumi e dell’assetto di volo, ed altre osservazioni tecniche.

Proprio in virtù di queste imprese, il mondo cominciava a diventare più piccolo, e la cooperazione internazionale acquistava dimensioni di crescente rilievo, in precedenza impensabili, nel quadro di rapporti che cessavano di essere fortemente competitivi per diventare strumenti di amicizia e di sviluppo, improntati al perseguimento di reciproci interessi legittimi. Da questo punto di vista, non meno che da quello politico, il valore delle trasvolate di Carlo Del Prete e degli altri aviatori italiani suoi contemporanei deve essere interpretato quale matrice di un effettivo e duraturo progresso.

La grande popolarità di cui l’Aeronautica Italiana ebbe a fruire nel corso degli anni Venti fu dovuta a diversi fattori concomitanti, tra cui il carattere ancora pionieristico dei voli, ed il fatto che dopo la Grande Guerra le sue strutture militari, nonostante il valore di tanti protagonisti come Francesco Baracca e lo stesso Gabriele d’Annunzio grazie al celebre volo su Vienna, erano state in buona parte smantellate fra lo sconcerto generale, per la permanente quanto miope sfiducia degli alti Comandi nei riguardi dell’Arma Azzurra, ritenuta di semplice valenza complementare, con un chiaro errore strategico dovuto al conservatorismo dei vertici, proseguito sino alla metà di quel terzo decennio del secolo. Le grandi imprese dei trasvolatori, in tale ottica, trovarono eco a più forte ragione importante nella prevalente sensibilità collettiva, esaltata dall’ammirazione per il coraggio di piloti ed equipaggi nell’affrontare un rischio molto alto, e dall’indubbio prestigio derivatone all’Italia, prontamente valorizzato dal nuovo regime.

Sulle orme dell’Enciclopedia Treccani, è congruo porre in luce la straordinaria ed «eccezionale fibra degli strenui navigatori dell’aria» che diedero all’Italia una gloria imperitura: si trattava davvero di uomini tutti d’un pezzo, sia per la capacità di stare ai comandi ben oltre i limiti professionali di un normale pilota, sia per la durezza e la complessità degli allenamenti, della preparazione, e di una scuola estremamente impegnativa, idonea a fronteggiare ogni tipo di emergenza. Non c’è che dire: erano altri tempi!

Come affermavano gli antichi, «muore giovane chi è caro agli dèi». Oltre a quello di Francesco De Pinedo, caduto cinque anni dopo in circostanze non dissimili, fu questo il triste, ed ormai leggendario fato di Carlo, vittima di un incidente aereo in fase di collaudo (8 luglio 1928) e di un lungo calvario protrattosi per oltre un mese (dovette subire anche l’amputazione di una gamba) fino alla scomparsa del successivo 16 agosto. Le spoglie mortali, traslate in Italia, furono accolte con tutti gli onori militari e civili e con la presenza delle massime Autorità – lo attestano i filmati dell’epoca – dapprima a Genova, e quindi nella città natale, dove il feretro venne salutato da una folla enorme e commossa: come si legge ancor oggi in uno dei tanti labari funerari, «la famiglia, Lucca, la Patria raccomandano a Dio l’anima eletta».

(gennaio 2018)

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