Antonio Gramsci, il rivoluzionario ubbidiente
Il grande leader comunista sosteneva la necessità di un partito fortemente autoritario

Noi conosciamo Antonio Gramsci come un comunista moderato che ha dato un contributo innovativo al mondo comunista. Tale giudizio si basa soprattutto sulla sua opera Quaderni dal Carcere del 1935 dove il grande intellettuale affronta temi nuovi rispetto all’ortodossia marxista e dove parla di un ruolo egemone degli intellettuali «organici» nella società. Tale innovazione negli scritti fu almeno in parte prodotta dall’ambiguo atteggiamento dei grandi leader comunisti italiani nei suoi confronti che facevano intendere una ostilità verso la sua politica. In nessun caso tuttavia lo scrittore prese posizione contro la dittatura del proletariato né espresse una qualche critica alla brutalità del regime sovietico in Russia.

Nel 1914 Gramsci scrisse un articolo sull’interventismo che lo avvicinava alle posizioni di Mussolini, successivamente rivedette la posizione e si interessò di diversi temi giornalistici. Negli anni successivi la Sinistra Italiana come buona parte di quella europea fu catturata dal mito della Rivoluzione d’Ottobre, le sue violenze e la sua politica oppressiva nei confronti dei lavoratori non venivano considerate, si riteneva che fosse imminente l’abbattimento ovunque dell’odiato stato borghese per la realizzazione di un mondo nuovo gestito dai lavoratori. Gramsci fu uno dei più convinti leninisti e il suo impegno in politica fu totale. La prima importante iniziativa di Gramsci nella sua vita pubblica fu sicuramente la fondazione del giornale «Ordine Nuovo» nel 1919 insieme a diversi personaggi che sarebbero diventati importanti leader del partito comunista. Il giornale si caratterizzò per il sostegno alla occupazione delle fabbriche nell’estate del 1920 con l’intenzione di creare dei soviet (di operai, i contadini erano relegati a un ruolo minore) che avrebbero dovuto come in Russia prendere il potere in Italia. Gramsci non riteneva però che gli operai dovessero gestirsi in autonomia e dirigere la società, scrisse sul suo giornale nel 1919: «Il Partito Comunista educa il proletariato… Il compito del Partito Comunista nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe degli operai e contadini». L’insuccesso dell’azione portò ad un rapido sgretolamento delle organizzazioni sindacali, a contrasti molto duri all’interno del Partito Socialista, nonché agli scontri con i fascisti che nello stesso periodo si erano spostati a Destra. Gli eventi che portarono alla nascita del Partito Comunista d’Italia Sezione della Terza Internazionale nel gennaio 1921 furono sicuramente drammatici. Il primo congresso della Terza Internazionale del 1919 si era espresso a favore del ricorso alla violenza e di una energica dittatura, il secondo (1920) emanò le Ventuno Condizioni d’Ammissione che impegnavano i partiti aderenti ad una politica estremamente dura: «Bollare a fuoco, in modo sistematico e implacabile, non soltanto la borghesia ma anche i suoi complici, i riformisti di qualunque sfumatura... combinare l’attività legale con quella clandestina... il Partito Comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea». Le varie correnti del Partito Socialista Italiano (compresa quella turatiana) accettarono più o meno integralmente tale programma, ma ciò non impedì l’uscita dei cosiddetti «comunisti puri» dal partito per fondare il Partito Comunista. In questi anni i programmi e gli scritti comunisti non brillavano per originalità, risultavano sicuramente ripetitivi anche per il timore di uscire fuori dall’ortodossia, ritenuto un fatto di eccezionale gravità. Il programma ufficiale del Partito Comunista d’Italia, nato dall’opera di Amedeo Bordiga e dal gruppo di «Ordine Nuovo», non fa eccezione, si legge infatti di «abbattimento violento del potere borghese... instaurazione della propria dittatura... organizzazione armata del proletariato». Dopo un lungo periodo di odio fra comunisti e socialisti, definiti questi ultimi come «socialfascisti» o «socialtraditori», arrivò pochi mesi dopo la nascita del Partito Comunista il contrordine dell’Internazionale, i comunisti dovevano riunirsi ai loro vecchi colleghi di partito nel cosiddetto Fronte Unico, iniziativa che lasciava molti di stucco. Il contrasto si accentuò nel novembre del 1922 in occasione del quarto Congresso dell’Internazionale Comunista, Gramsci venne avvicinato da uno dei capi dell’Internazionale, Matyas Rakosi, che gli propose di diventare il nuovo capo del Partito Comunista eliminando l’intransigente Bordiga, Gramsci rifiutò al momento ma nei mesi successivi scrisse: «Sarebbe stato meglio farla finita una buona volta e riorganizzare il partito dall’estero con elementi nuovi scelti d’autorità dall’Internazionale».

Le richieste dell’Internazionale divennero sempre più dure, dalla richiesta di dare vita ad un Fronte Unito si passò addirittura all’idea di fusione con i partiti socialisti (i riformisti erano stati cacciati e si erano creati due movimenti socialisti), tale iniziativa però non prevedeva una linea politica meno estremista: dittatura del proletario, sottomissione all’Internazionale, ricorso alla violenza, rimanevano punti fondamentali, pertanto i partner dei comunisti rifiutarono. L’Internazionale non si limitava a correggere la linea politica del Partito Comunista d’Italia, nel 1923 scontenta del comportamento di Bordiga nominò d’autorità due nuovi componenti del Comitato Esecutivo (l’organo direttivo principale del Partito Comunista), Angelo Tasca e Giuseppe Vota, ritenuti più accondiscendenti verso l’unione con i socialisti, inoltre annullò la delibera dell’Esecutivo Comunista contro il deputato Bombacci che si era congratulato con Mussolini per il ripristino delle relazioni con l’Unione Sovietica.

Si crearono tre raggruppamenti all’interno del Partito Comunista, la sinistra di Bordiga che fieramente difendeva la politica di non commistione con i socialisti, il centro formato da Gramsci e Togliatti intento a seguire passivamente l’Internazionale e la destra di Angelo Tasca favorevole alla riunificazione dell’estrema Sinistra e favorevole alla collaborazione con altri gruppi politici per fermare il fascismo che si stava notevolmente rafforzando, mentre gli altri raggruppamenti non facevano distinzione tra fascisti e democratici cosiddetti «borghesi». Contemporaneamente il Partito Socialista subì un’altra scissione, quella dei cosiddetti «terzini» nel senso di sostenitori della Terza Internazionale che confluirono nel Partito Comunista dove ebbero tuttavia un ruolo secondario.

Alla Conferenza di Como del Partito Comunista Italiano del 1924 la Sinistra dimostrò nonostante il contrasto con l’Internazionale di disporre di un’ampia maggioranza, su 58 votanti la mozione di Bordiga prese 41 voti, quella dei centristi 8, quella della destra 9. In tale occasione Gramsci affermò: «I compagni della Sinistra protestano la loro disciplina all’Internazionale. Noi diciamo loro: Non basta dichiarare di essere disciplinati. Bisogna mettersi sul piano di lavoro indicato dall’Internazionale». Nei mesi successivi tuttavia con vari espedienti i centristi si adoperarono per rendere difficile la vita dei sinistri, dando vita alla cosiddetta «bolscevizzazione» del partito.

La situazione emersa nella conferenza del ’24 venne ribaltata due anni dopo, nel terzo Congresso del Partito Comunista d’Italia (Congresso di Lione), si ritiene con azioni poco limpide contro i sostenitori di Bordiga. Prevalse (90,8% dei voti) la linea dei sostenitori dell’Internazionale, che nel frattempo aveva assunto di nuovo una posizione di contrasto con i socialisti. Gramsci, divenuto il massimo leader del partito, fu l’autore delle cosiddette Tesi di Lione che accentuavano la sottomissione della base alle direttive dei vertici. In esse si legge: «La socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato, per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un’ala destra del movimento operaio, ma come un’ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata davanti alle masse... La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato Centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file... Il principio della elezione degli organi dirigenti – democrazia interna – non è assoluto, ma relativo alle condizioni della lotta politica... Il partito dirige la classe penetrando in tutte le organizzazioni in cui la massa lavoratrice si raccoglie... smascherare alcuni gruppi sedicenti antifascisti già coalizzati nell’Aventino».

Poco dopo la conclusione del congresso Gramsci scrisse su «L’Unità»: «La linea politica del partito negli anni immediatamente successivi alla scissione fu in primo luogo condizionata da questa necessità: di mantenere strette le file del partito, aggredito fisicamente dalla offensiva fascista da una parte, e dai miasmi cadaverici della decomposizione socialista dall’altra… il partito non intende permettere che si giochi più a lungo al frazionismo e all’indisciplina». Nello stesso articolo si espresse in maniera singolare riguardo ai rapporti fra lavoratori dell’industria e dell’agricoltura: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l’operaio industriale, rappresentato dal nostro partito».

Nello stesso anno del congresso che sanciva la definitiva sconfitta della Sinistra, Antonio Gramsci inviò una famosa lettera al Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico sullo scontro fra Stalin e Trotsky, molto rappresentativa dello stato di subordinazione anche psicologica dei leader comunisti non russi. In essa si affermava: «Le masse occidentali europee vedono la Russia e il Partito Russo da questo punto di vista, esse accettano volentieri e come un fatto storicamente necessario che il Partito comunista dell’URSS sia il partito dirigente dell’Internazionale... Dichiariamo ora che riteniamo fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’URSS... Questo, carissimi compagni, abbiamo voluto dirvi, con spirito di fratelli e di amici, sia pure di fratelli minori. I compagni Zinoviev, Trotzkij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione, ci hanno qualche volta corretto molto energicamente e severamente, sono stati fra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili della attuale situazione, perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del Comitato Centrale dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive».

La lettera avrebbe dovuto essere recapitata ai dirigenti sovietici attraverso Togliatti che risiedeva a Mosca, ma quest’ultimo ritenne la lettera comunque troppo dura, si rifiutò di consegnarla e redarguì l’autore con una sua missiva che metteva in luce la inammissibilità totale di critiche alla maggioranza del Partito Comunista Sovietico.

Viene da chiedersi come personaggi del livello di Gramsci e Togliatti (che avevano anche soggiornato in Russia) abbiano accettato di rinunciare alla propria autonomia e di divenire strumenti passivi delle decisioni prese da Mosca. La spiegazione va ricercata nelle questioni finanziarie, i comunisti italiani dipendevano dagli aiuti economici e di altro tipo forniti dall’Unione Sovietica, ma va ricercata soprattutto in uno stato di subordinazione psicologica, i partiti comunisti divenivano qualcosa di simile a delle Chiese con i loro dogmi, i loro fideismi e le loro gerarchie.

(agosto 2016)

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