Vajont: un terribile disastro evitabile (1963)
Duemila Caduti incolpevoli e senza giustizia

Quasi 60 anni orsono, il lago artificiale del Vajont, creato con la costruzione dell’omonima diga e della grande centrale idroelettrica collegata, fu cancellato dalla gigantesca frana del Monte Toc, che riversò nel sottostante bacino lacustre un volume di roccia pari a quasi 900 milioni di tonnellate[1]: il triplo dell’acqua contenuta nell’invaso. Ne ebbe origine un’onda anomala alta quasi 250 metri, che nella tarda sera del 9 ottobre 1963 distrusse parzialmente Erto e Casso (Pordenone), abitati contigui alla diga, e quasi completamente Longarone (Belluno), nell’immediato fondovalle, danneggiando molto anche le frazioni di Castellavazzo e Codevigo. Le Vittime, gran parte delle quali colte nel sonno (il disastro ebbe luogo poco prima delle 23), furono circa duemila, ma non è stato mai possibile calcolarne con esattezza il numero definitivo[2].

I soccorsi furono difficili e lenti, fatta eccezione per quello degli Alpini, perché l’onda di piena creatasi nell’alveo del Piave distrusse tutte le infrastrutture a valle (ferrovia e strade) fino a Ponte delle Alpi, mentre alcuni cadaveri vennero rinvenuti a oltre cento chilometri di distanza, fin verso la foce del fiume. Oggi, la maggioranza delle Vittime ha trovato onorata, seppure non sempre memore sepoltura nel Sacrario di Fortogna – dove anche le manutenzioni scarseggiano – ma parecchie Spoglie non vennero mai recuperate.

Al di là delle apparenze, quella del Vajont non fu una tragedia indotta da cause naturali, ma dall’incuria, dall’arroganza e dal pressappochismo. Era già accaduto 13 anni prima con la grande alluvione del Polesine, e la cosa si sarebbe ripetuta tre anni dopo con quella che travolse Firenze e Venezia, stante la grave carenza di una buona politica idrogeologica, fonte di parecchi ulteriori disastri dal minore impatto mediatico ma dalle conseguenze ugualmente drammatiche nelle zone di riferimento.

Nel Vajont fu ancora peggio perché l’origine della tragedia deve essere cercata a più forte ragione nell’opera diretta e deliberata dell’uomo, anche se l’onda anomala di cui si diceva in premessa ne sarebbe stata la terribile esecutrice materiale.

Grandi interessi industriali ed economici legati a una programmazione miope e sostanzialmente incompetente sul piano geologico avevano imposto la realizzazione di un’opera faraonica come quella diga che sopravvisse al disastro, e che è rimasta a testimoniare la memoria storica in un greve silenzio. Nessuno si mosse quando la frana del Monte Toc prese ad accelerare in modo visibile, diverso tempo prima del dramma, allorché si sarebbe potuta evitare, se non altro, l’agghiacciante scomparsa di coloro che ebbero la sola colpa di trovarsi nell’occhio del ciclone[3]. Tutti scomparsi senza giustizia nemmeno postuma, come è stato documentato in maniera ormai definitiva, e come era stato paventato sin dall’epoca della costruzione, per non dire degli ultimi tempi quando persino gli alberi avevano preso a scendere visibilmente lungo il declivio a causa del progressivo movimento franoso. Senza giustizia, salvo quella, puramente etica, delle «alte non scritte e inconcusse leggi» cantate da Sofocle, che vivono nel cuore dell’uomo sin dall’antichità precristiana.

Eppure, dalle istruttorie compiute dopo il disastro era emersa con tutta chiarezza la responsabilità di amministratori e dirigenti della SADE (Società Adriatica Di Elettricità)[4], la Società titolare dei lavori e degli impianti prima della nazionalizzazione elettrica: ne era emersa, in particolare, quella di avere deliberatamente ignorato le caratteristiche di friabilità e di incoerenza morfologica dei terreni contigui alla diga e all’invaso lacustre; e quella di non avere tenuto conto degli «avvertimenti» venuti in progressiva maturazione, o peggio ancora, di averli nascosti nelle informazioni tecniche riguardanti la gestione e il controllo.

Le conseguenze immediate furono disastrose anche per l’economia del comprensorio, sebbene, col passare degli anni, vi sia stato posto rimedio, soprattutto con le nuove iniziative agevolate sorte nella zona industriale di Longarone. Non altrettanto accadde per la montagna e in particolare per il Comune di Erto che vide scomparire parecchie attività artigianali storiche, e quella di escavazione del marmo Rosso Porfirico, come da toccanti testimonianze di Mauro Corona, il celebre scrittore locale.

Il disastro del Vajont è stato ufficialmente catalogato tra quelli che l’Organizzazione delle Nazioni Unite definisce «evitabili». Ciò sottolinea quanto è noto da sempre, e cioè che la tragedia non fu dovuta a un evento fortuito, e meno che mai imprevedibile, ma a una serie di concause attribuibili alla volontà umana: progettazione e realizzazione di una grande diga e del grande lago artificiale a monte della stessa, in un contesto geologicamente inidoneo; subordinazione della sicurezza a precisi interessi industriali e politici; disinformazione circa l’incombenza del pericolo, anche quando le prospezioni e i rilievi sul terreno avevano già evidenziato in modo palese che la frana era in atto (dapprima con relativa lentezza, poi soppiantata da un’accelerazione che nel momento conclusivo si sarebbe tradotta nell’allucinante velocità di 108 chilometri all’ora).

Dopo il disastro si aprì la tradizionale caccia alle responsabilità, da cui avrebbero tratto origine denunzie e processi, conclusi dopo anni con un sostanziale nulla di fatto. Contestualmente, ebbe inizio su entrambi i versanti (quello friulano e soprattutto quello veneto) un mercato dei «diritti» maturati a favore degli eredi delle Vittime, che in parecchi casi ne fecero oggetto di cessione non sempre limpida a tutto vantaggio di Soggetti industriali o commerciali interessati ad avviare o trasferire le proprie attività nei comprensori agevolati del Vajont, dove avrebbero lucrato importanti incentivi.

Oggi, la zona ha assunto rilevanza turistica: le visite hanno avuto inizio nel 2002 e sono diventate più esaustive dal 2007, quando venne inaugurato il nuovo coronamento della diga già asportato dall’onda. Molti sono coloro che recitano una preghiera completando il percorso memorialistico nel vicino Sacrario di Fortogna: ben triste destino per un capolavoro dell’ingegneria idroelettrica e per un’opera che nel genere specifico si colloca tuttora, coi suoi 261,6 metri di altezza, al settimo posto nel mondo.

Al di là della naturale «pietas» dei sopravvissuti nei riguardi degli Scomparsi, e delle complesse vicende giudiziarie seguite al disastro, quella del Vajont resta un’amara «lezione» da cui emerge la ripetuta tendenza della classe politica a strumentalizzare e poi ad archiviare le tragedie, compresa questa, che resta la maggiore del Novecento accaduta in Italia in tempo di pace, e non dovuta – al di là delle apparenze – a cause naturali. Le Vittime del Vajont esprimono una muta e drammatica testimonianza di questo insegnamento, che anche stavolta si tende a rimuovere dalla coscienza collettiva.

Ciò, con una prassi tristemente ricorrente in occasione di terremoti, inondazioni e dissesti morfologici, laddove l’incuria istituzionale italiana ha promosso l’opera distruttrice della natura; ma nel caso del Vajont, tanto più condannabile perché contraddistinta da evidenti e comprovate responsabilità per le quali nessuno ha pagato, con un palese oltraggio alle Vittime e alla Giustizia.


Note

1 Il volume della frana è stato oggetto di altre stime più dettagliate, definite in oltre 260 milioni di metri cubi: un quantitativo dalle dimensioni bibliche, reso ancor più apocalittico dalla precipitazione nel bacino lacustre. Per avere un’idea dell’impatto, basti raffrontarlo – ad esempio – con il volume delle attuali produzioni mondiali di marmi e pietre, nell’ordine dei 120 milioni di metri cubi, da cui deriva, al netto degli scarti, un consumo pari a 1.650 milioni di metri quadrati.

2 Il bilancio ufficiale della tragedia ha definito in 1.917 il numero delle Vittime accertate, ma sta di fatto che nel 20% dei casi non fu possibile procedere all’identificazione, e che alcune vennero letteralmente polverizzate dall’onda d’urto, a proposito della quale non è fuori luogo rammentare che la sua potenza è stata calcolata nel doppio di quella espressa dalla bomba atomica di Hiroshima. Tra gli altri, scomparvero alcune centinaia di bambini, il più piccolo dei quali, Claudio Martinelli, aveva appena 21 giorni di vita.

3 Paradossalmente, proprio alla vigilia del disastro (8 ottobre) il Comune di Erto decise di emettere un’ordinanza con cui si invitava la popolazione a lasciare il paese per la paventata ipotesi della frana e dello «tsunami» indotto dall’esondazione del lago ormai prevedibile; e si declinavano le responsabilità in caso di inadempienza. A parte la mancata programmazione – d’intesa con le altre Istituzioni – delle misure necessarie per l’assistenza all’esodo, sarebbe mancato il tempo materiale: non solo per attuarlo, ma persino per portarlo a conoscenza di tutti gli interessati.

4 La Società Adriatica Di Elettricità era stata fondata a Venezia nel 1905 a opera di Giuseppe Volpi e Ruggero Revedin, che ne fu il primo Presidente. Si fece promotrice di una lunga serie di lavori nell’ambito del Triveneto, il maggiore dei quali, iniziato nel 1956 e completato nel giro di un quinquennio, fu proprio il complesso del Vajont. Con la nazionalizzazione elettrica del 6 dicembre 1962 e l’avvento dell’ENEL (che ebbe 64 Caduti nel disastro) la SADE avrebbe cessato l’attività industriale, ma i suoi dirigenti e amministratori furono chiamati per competenza a rispondere anche penalmente dell’accaduto, venendo comunque prosciolti al termine di un complesso iter giudiziario.

(maggio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Centrale idroelettrica del Vajont, Società Adriatica Di Elettricità, SADE, Sofocle, Mauro Corona, Organizzazione delle Nazioni Unite, Sacrario di Fortogna, Claudio Martinelli, Comune di Erto, Giuseppe Volpi Conte di Misurata, Ruggero Revedin, disastro del Vajont.