Trieste 1953
Una crisi sull’orlo della guerra nell’interpretazione della storiografia jugoslava

Accade spesso che i giudizi storici possano essere molto diversi, se non addirittura antitetici, quando siano formulati dalle diverse parti in causa. Un caso di scuola è quello dei «fatti di Trieste» accaduti nel 1953, con annessi prodromi e conseguenze, e dell’interpretazione datane dalla storiografia d’oltre confine: nella fattispecie, quella jugoslava, con particolare riguardo all’opera di Bojan Dimitrijevic, cattedratico dell’Università di Belgrado (La crisi di Trieste, traduzione italiana di Simone Caffari, Collana Le Guerre, Edizioni LEG, Gorizia 2020, 216 pagine). A suffragio dell’assunto, basti dire che l’ampio supporto bibliografico è costituito quasi esclusivamente da fonti ex jugoslave, con l’aggiunta di qualche testo inglese, anche se l’Autore, a sua parziale giustificazione, dichiara sin dal momento introduttivo di «non avere avuto l’opportunità di svolgere ricerche negli ambienti militari italiani».

In effetti, si tratta di un testo con prevalente attenzione agli aspetti militari, cosa che costituisce una novità considerevole, anche se quelli etico-politici, economici, umani e civili furono senza dubbio prevalenti, e anche se quella giustificazione non è un buon motivo per avere escluso dalla pur ampia storiografia di supporto un contributo sostanzialmente immenso come quello italiano, talvolta di alta e commendevole oggettività: per fare un solo esempio, basti pensare alla grande opera di Massimo de Leonardis circa il triennio compreso fra il 1952 e il 1954.

La duplice percezione della realtà storica, inizialmente, non sfugge allo stesso Autore, che peraltro indulge immediatamente a interpretazioni difformi della cosiddetta «corsa per Trieste» come quando accenna a una presunta «passeggiata» fatta dal corpo di spedizione neozelandese per diverse centinaia di chilometri, in pratica senza colpo ferire, ma battuto per poche ore dai partigiani di Tito, che pure, secondo lo storico serbo, avevano sostenuto scontri all’ultimo sangue col nemico, dapprima in Dalmazia e poi nella stessa Istria. Infatti, non è possibile ignorare che le truppe del Generale Freyberg furono fermate sull’Isonzo per ordini superiori, proprio per dare tempo ai partigiani, in quel 1° maggio 1945, di giungere per primi nella città di San Giusto, trascurando momentaneamente persino la conquista di Fiume, Lubiana e Pola, tanto più che le rispettive difese erano talmente allo stremo da escludere, per gli Slavi, ogni possibile rischio di essere attaccati alle spalle.

Mancano informazioni dettagliate sul terrore che avrebbe imperversato a Trieste nei «40 giorni» di occupazione jugoslava, mentre abbondano i particolari sulla genesi della «Linea Morgan» e lo sgombero slavo di Trieste, Gorizia e Pola a seguito della missione alleata a Belgrado (favorita dalla strategia di uno Stalin occupato prioritariamente dai ben maggiori problemi della spartizione mitteleuropea). Non mancano nemmeno accenni alla forte presenza in zona del corpo di spedizione polacco alle dipendenze dal Generale Anders, forte complessivamente di circa 100.000 uomini, 8.000 dei quali dislocati proprio nella Venezia Giulia. Lo stesso si deve dire, infine, per i due aerei americani abbattuti in agosto dagli Slavi perché rei di avere violato lo spazio della Repubblica Federativa, e per l’indennizzo alle vittime voluto personalmente da Tito con l’avvertenza che non si sarebbe potuto comunque transigere sulle violazioni della sovranità jugoslava.

Il 15 settembre 1947, con l’entrata in vigore del trattato di pace che l’Italia aveva dovuto sottoscrivere nel febbraio precedente, proprio mentre Maria Pasquinelli esprimeva la protesta di un intero popolo col celebre gesto di Pola nei confronti del Governatore, Generale De Winton, avrebbe dovuto costituirsi anche formalmente il cosiddetto Territorio Libero di Trieste con le sue due Zone, affidate rispettivamente alle amministrazioni degli Alleati e della Jugoslavia. L’Autore rileva che non vi furono mai elezioni generali per l’Assemblea, né tanto meno uno Stato indipendente, ma soltanto «una sorta di amministrazione provvisoria» sia pure con una dotazione aggiuntiva di 5.000 uomini in armi. Poi, non può esimersi da un breve riferimento alla «guerra del pesce» fra Italia e Jugoslavia, sia pure limitato all’episodio del 22 dicembre 1952 quando 24 pescherecci con a bordo più di 170 uomini furono catturati dalla Marina Slava mentre operavano «al largo dell’Istria fra Pola e Rovigno» (ma non parla di acque territoriali ed extra territoriali né delle sanzioni comminate ai pescatori, né tanto meno di un conflitto che si sarebbe protratto per decenni ben oltre la morte di Tito, culminando nel 1986 con l’uccisione del pescatore Bruno Zerbin, ucciso proditoriamente nel golfo di Trieste dai colpi di fucile sparati, per l’appunto, da una motovedetta jugoslava).

Quanto agli Italiani, l’Autore non trova di meglio che condannare l’azione compiuta il 30 giugno 1952 da un gruppo di 65 Alpini che salirono sulla vetta del Mangart (metri 2679) sul punto più settentrionale del confine, e firmarono il libro dei visitatori presente nel rifugio, aggiungendovi «slogan offensivi anti jugoslavi».

Il nucleo più importante, nell’opera del Professor Dimitrijevic, è naturalmente quello concernente la storia del 1953, con particolare riguardo agli eventi militari, e al rischio di uno scontro campale che fu evitato quasi «in extremis». Qui, basti ricordare che i movimenti delle truppe italiane coinvolsero 13.200 unità, fra cui circa 12.400 soldati, e che i trasferimenti di competenza verso i confini comportarono un impegno di circa quattro giorni con l’utilizzo di una settantina di treni e di 2.400 vagoni: un’impresa non dappoco, tenuto conto del carattere quasi improvviso della crisi e dei problemi organizzativi che d’altra parte interessarono anche il fronte avverso. Ciò, pur nell’ambito di eventi che costituirono la «sfida militare più seria per gli eserciti – jugoslavo e italiano – nella lunga storia della guerra fredda».

I reparti italiani maggiormente coinvolti furono la Divisione di Fanteria «Cremona» e la Brigata Alpina «Tridentina» col supporto della Divisione «Trieste», della Brigata «Julia» e del Battaglione «San Marco» già in zona, e ulteriori integrazioni con un Battaglione di Bersaglieri, uno di Carabinieri, e con la Divisione «Ariete» e la Brigata «Taurinense» in posizione di riserva, senza dire – sempre secondo le informazioni in possesso dell’Autore – del contestuale completamento delle Divisioni «Friuli» e «Legnano» con altri 10.000 riservisti. Secondo studi compiuti dallo Stato Maggiore Italiano nell’ottobre 1953, le forze jugoslave erano «numericamente più forti» e soprattutto «in grado di condurre un’avanzata sostenuta in profondità»; nondimeno, non vi furono rinunzie, a dimostrazione del clima di alacre patriottismo diffusosi rapidamente in Italia. Al contrario, si ebbe una sola diserzione, quella di un militare di etnia slovena «scomparso dalla sua posizione vicino al Sabotino», mentre andò peggio alla parte avversa, con «danni ben più seri» come quelli rivenienti, a esempio, dal gesto del pilota Branislav Karic che attraversò l’Adriatico con il suo «Mosquito» atterrando ad Ancona con «documenti sensibili e piani della propria unità». Quanto alle operazioni belliche vere e proprie, si ridussero a ricognizioni in territorio potenzialmente nemico effettuate da entrambe le parti, con ricognitori jugoslavi che si spinsero fino alle Puglie.

L’Autore non ha dedicato più di otto righe alle vittime italiane di Trieste che persero la vita per opera della polizia inglese del GMA e dei cosiddetti «cerini» che ne costituivano il braccio secolare: ciò, sebbene proprio in quei giorni, a suo giudizio, fossero arrivati «segni di moderazione da parte dello stesso Tito». Ecco un segnale davvero probante di quanto si diceva in premessa, a proposito delle diverse valutazioni circa i fatti storici, le loro motivazioni, e gli effetti conseguenti. Eppure, quelle vittime, in maggioranza giovani, non avevano armi all’infuori di qualche sasso, senza dire che i dimostranti per l’italianità di Trieste furono inseguiti sin dentro la chiesa di Sant’Antonio Nuovo, che non a caso si dovette riconsacrare all’indomani dell’incursione.

Il resto è noto, anche se il Professor Dimitrijevic sorvola sulle conclusioni, limitandosi a ricordare che il 7 dicembre il Presidente del Consiglio Pella e l’Ambasciatore Jugoslavo Gregoric firmarono l’accordo per il reciproco ritiro delle truppe che ebbe luogo entro il 20; e aggiungendo che nell’anno successivo il Territorio Libero di Trieste fu abolito «de facto» ma non «de jure» rendendo permanente una condizione che si sarebbe protratta per parecchio tempo, fino al trattato di Osimo del 1975, con l’ultima rinuncia da parte italiana.

Il 5 ottobre 1954, con la firma del Memorandum quadripartito fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia e Jugoslavia, le intese furono formalizzate, e nei giorni successivi le forze di occupazione iniziarono a lasciare Trieste, completando le partenze entro il 26, quando i Bersaglieri entrarono nella città di San Giusto tra la folla plaudente, pur nel rammarico per le ulteriori mutilazioni a vantaggio della Jugoslavia che erano state apportate nell’entroterra di Muggia, con un’ulteriore sopravvenienza di profughi. Per ultimo, il 26 novembre sarebbe partito l’ex Governatore Winterton, che un mese prima aveva ceduto i poteri nelle mani del Generale Edmondo De Renzi, non senza firmare un ordine del giorno riportato integralmente nel volume, in cui dichiarava, fra l’altro, di valutare con soddisfazione l’opera del GMA e di avere «ammirato lo spirito con cui i gravi problemi dell’ultimo anno erano stati affrontati».

Et de hoc satis!

(novembre 2022)

Tag: Carlo Cesare Montani, Trieste 1953, Bojan Dimitrijevic, Massimo de Leonardis, Bernard Freyberg, Josip Broz detto Tito, William Morgan, Wladyslaw Anders, Maria Pasquinelli, Robert De Winton, John Winterton, Bruno Zerbin, Branislav Karic, Trieste, Belgrado, Dalmazia, Istria, Fiume, Lubiana, Pola, Venezia Giulia, Rovigno, Mangart, Ancona, Territorio Libero di Trieste, Divisione Cremona, Divisione Trieste, Divisione Ariete, Divisione Friuli, Divisione Legnano, Brigata Tridentina, Brigata Julia, Brigata Taurinense, Battaglione San Marco, Bersaglieri, Carabinieri, Stato Maggiore Italiano, Governo Militare Alleato, vittime triestine del 5-6 novembre 1953, chiesa di Sant’Antonio Nuovo.